Nelle ultime stagioni i destini dei due gruppi si sono incrociati diverse volte, con risultati spesso più inclini a prendere la strada dell’Ontario.

“It’s off to Leonard, defended by Simmons. Is this the dagger?”

– Kevin Harlan

Tutta la Scotiabank Arena – nome assunto poco più di 11 mesi prima dallo storico Air Canada Center – viene avvolta dal silenzio. La palla rimbalza sul ferro per la prima, la seconda, la terza, la quarta volta e poi entra, ben dopo il suono della sirena, chiudendo una partita agonica.

Il risultato, ben noto, è il seguente: 92-90 per i Toronto Raptors, che raggiungono le Finali della Eastern Conference a scapito di una delle grandi favorite della vigilia, i Philadelphia 76ers di Brett Brown, Joel Embiid e Ben Simmons, ultimo grande prodotto di The Process.


Uno dei finali di partita più elettrizzanti di sempre, culminato in uno dei tiri più iconici di sempre. Il Canada intero impazzisce in una follia collettiva simile solo a quella che aveva colto The North ai tempi di Vince Carter e Tracy McGrady. Di contro, invece, la desolazione coglie la città di Philadelphia, la cui tifoseria sportiva è da sempre la più schopenhaueriana della NBA, racchiusa cioè in un continuo pendolo tra dolore e noia con rari, agognati e spesso comunque polemici momenti di felicità.

Il tiro di Kawhi Leonard, quel ballo ai limiti del sadismo del pallone sul ferro, rappresentano probabilmente il più grande spartiacque del decennio NBA. Per comprenderlo, tuttavia, bisogna capire cosa sia successo nelle stagioni precedenti, in modo da avere contezza del perchè, per ragioni diverse, quel tiro del 12 maggio 2019 rappresenti il culmine di speranze e progetti più o meno di successo partiti almeno all’alba degli Anni Dieci del XXI secolo.

Andiamo dunque con ordine, ripercorrendo la storia di due delle franchigie più drammatiche, nel senso teatrale, della NBA.

Trust the Process

Nella Philadelphia che si affaccia alla stagione 2010/11 si fatica ad ottenere grandi risultati. I migliori giocatori della squadra della Pennsylvania sono Andre Iguodala e Jrue Holiday, draftati rispettivamente nel 2004 e nel 2009 e ormai avviati verso il peak della propria vita NBA. I due condividono destini simili, come quello, ad esempio, di essere stati scelti per fare da spalla ad un Allen Iverson ormai in caduta libera. Iggy, infatti, arriva subito dopo il practice rant e la separazione con Larry Brown, mentre Jrue viene chiamato a fargli da riserva a sei mesi dal ritorno di AI nella città dell’Amore Fraterno.

La prima stagione dei tre insieme, tuttavia, non soddisfa le sempre ipertrofiche aspettative del pubblico della Pennsylvania: il gruppo, guidato da Eddie Jordan, chiude con un asfittico 27-55 che certifica una mediocrità piena, confermata da numeri che vedono la squadra 18esima o peggiore nella Lega per Punti a partita, punti subiti a partita, Pace, Offensive, Defensive e Net Rating e Pubblico medio, con l’ormai anzianotto Wachovia Center – di lì a poco rinominato in Wells Fargo – che raramente vede le proprie gradinate riempirsi.

L’anno successivo, il front office si pone fin da subito l’obiettivo di smuovere le ormai fin troppo placide acque philadelphiane per provare finalmente a competere e far crescere i propri giovani talenti. La prima mossa, inaspettata, riguarda un cambio in panchina: Eddie Jordan viene silurato dopo una sola stagione, mentre al suo posto viene richiamato dalle scrivanie di TNT Doug Collins, indimenticato primo mentore di MJ da sette anni lontano dalle panchine della Lega.

L’assunzione non sembra esaltare particolarmente gli addetti ai lavori. Slam sentenzia in maniera poco elegante che i Sixers hanno avuto colloqui “con tutto il sistema solare” prima di offrire la panchina a Doug, mentre la fanbase mormora. Collins, comunque, non si scompone e comincia a lavorare. Innanzitutto spinge per usare la seconda scelta al Draft successivo per scegliere Evan Turner, originario dell’Illinois come lui. Successivamente, ben prima dell’usuale, inizia a chiamare ad uno ad uno i suoi nuovi giocatori per poter descrivere loro quale vuole sia il ruolo in vista della stagione alle porte.

Proprio in questi colloqui, nascono alcune delle idee che segneranno la NBA degli anni immediatamente successivi. Nella telefonata con Lou Williams, infatti, Doug sembra far capire che per lui il ruolo adatto al Mago sia quello di Sesto Uomo. Una certa lungimiranza.

La prima stagione collinsiana vive sull’onda di questo entusiasmo: la squadra agguanta un insperato record pari e gioca i Playoffs per la prima volta dopo l’assenza dell’annata precedente, perdendo 4-1 contro i favoritissimi Miami Heat dei Big Three.

Il successo si riflette anche sulla campagna successiva, in cui il gruppo chiude la regular season accorciata dal lockout con il record di 35-31 e si approccia, nuovamente da ottavo seed, alla post-season. L’avversario del Primo Turno è di quelli che dovrebbero lasciare poco spazio agli upset: i Chicago Bulls di Tom Thibodeau. A dare speranza ai Sixers, tuttavia, è il fatto che per quella serie Chicago non potrà schierare la sua stella, Derrick Rose, alle prese con un tremendo infortunio al legamento crociato.

I Sixers dominano quindi la contesa, portando a casa la serie per 4-1. A giganteggiare, tuttavia, non sono Iguodala, Holiday, Williams o addirittura quel Nikola Vucevic draftato in estate, bensì Spencer Hawes, autore di gare da 20 punti al Wells Fargo Center che schiacciano definitivamente i Bulls.

La successiva, agonica, serie da sette partite contro degli ormai malandati Boston Celtics in versione Big Three non fa altro che certificare l’ovvio: a Philadelphia manca ancora quel famoso centesimo per completare la lira, o il dollaro che si voglia.

Nello sport americano, tuttavia, la mediocrità vincente è la situazione peggiore in cui ci si possa trovare: contratti e spese da big, ma pochissimi successi. Dopo un altro anno – con tanto di mancati Playoffs – il progetto-Collins finisce quindi alla sua inevitabile deriva, mentre in Pennsylvania viene chiamato a ricostruire un giovanissimo statistico con un passato da dirigente degli Houston Rockets: Sam Hinkie, l’inventore del Process più famoso della storia della pallacanestro. Una rivoluzione copernicana necessaria per un approccio più pragmatico in quel di Philly, ma che suscita pareri quantomeno controversi in quel microcosmo di opinioni che è Twitter, sito involontariamente centrale per questa parte della nostra storia.

La prima mossa del pionere del Moneyball in salsa NBA è scambiare i migliori giocatori della squadra, per ottenere scelte vitali alla costruzione di un roster competitivo. Parte quindi Andre Iguodala, coinvolto in uno scambio a quattro squadre e destinato ai Denver Nuggets in cambio di Jason Richardson e una scelta al primo giro del 2014, ed insieme a lui anche Jrue Holiday, che viene scambiato ai New Orleans Pelicans per Nerlens Noel nel bel mezzo del suo matrimonio.

Al Draft di quell’anno, 2013, con l’11^ scelta assoluta viene invece selezionato Michael Carter-Williams, grande ed indimenticata speranza di quella stagione da incubo che è la 2013/14. La squadra inizia con lui un tanking selvaggio, scientifico, che la porta a vincere 47 partite in tre anni sotto la guida del neo-allenatore Brett Brown, neofita della Lega con un passato più australiano che USA.

Chiaramente, con premesse del genere, il Wells Fargo Center si inizia a svuotare, creando un malcontento diffuso in città. Nel frattempo, si aggregano alla squadra pedine importantissime come Joel Embiid e Dario Saric, che rendono nelle prime stagioni molto meno di quanto preventivato a causa di problemi fisici o di ambientamento.

Embiid, infatti, si ritrova fin da subito costretto a rimanere fuori per infortunio per la totalità dei primi due anni mentre il resto della squadra fatica a trovare un’idea di gioco valida.

Sam Hinkie, preoccupato, cede ad alcune delle pressioni della proprietà e dei tifosi, decidendo di mandare MCW – le cui sorti hanno ormai girato l’angolo in maniera netta ed incontrovertibile – ai Milwaukee Bucks in cambio di una scelta dei Lakers e qualche veterano di dubbia utilità. Non basta: il 6 aprile 2016, con una lettera di 7.000 parole in cui si citano contestualmente Abraham Lincoln, Warren Buffett ed Elon Musk, Sam Hinkie si dimette, pagando per molti un’eccessiva intransigenza, per altri, invece, le colpe di una fanbase ed una proprietà non abituate all’attesa.

Al suo posto, su fortissimi pressioni di un Adam Silver sul piede di guerra, il neo-presidente della Franchigia Jerry Colangelo decide di affidare il ruolo di general manager a… suo figlio Brian Colangelo.

La premiata – collaudata – ditta Colangelo&Son comincia fin da subito a tranquillizzare una NBA scossa dal tanking scientifico – la proposta di abbassare le percentuali di probabilità della prima scelta alla squadra peggiore dell’anno precedente viene da quel momento storico – proponendo un approccio più tradizionale e vicino alla vittoria. Contestualmente, il certosino lavoro di Hinkie comincia a dare i suoi frutti. Joel Embiid si avvia verso un lento ritorno in campo nella stagione 2015/16, mentre con la prima scelta al Draft successivo i due gattopardiani executives hanno vita facile nello scegliere un ragazzino australiano amico di famiglia di Brett Brown: Ben Simmons.

In un paio d’anni, la squadra rientra stabilmente nel giro dei Playoffs, accumulando esperienza utilissima in vista dell’assalto finale al Larry O’Brien Trophy per la stagione 2018/19. Nel frattempo, tuttavia, non sono mancate le scene da commediola di medio livello in tipico stile philadelphiano: Brian Colangelo è stato pescato con le mani nella marmellata nel famosissimo Twitter-scandal contro Joel Embiid, mentre ad ogni sconfitta il rumore assordante delle critiche, nonostante la squadra giovanissima, si è fatto sentire, portando spesso e volentieri il front office ad agire in una perenne panic mode.

Prima di vedere gli effetti nefasti di queste decisioni, tuttavia, lasciamo Philadelphia per spostarci in Canada, più precisamente a Toronto, dove l’affluenza all’Air Canada Center non è decisamente tra le migliori nella lega nonostante la squadra giochi bene e faccia divertire.

WE THE NORTH

È una notte piena di future star quella del draft 2009; tra gli altri Stephen Curry, James Harden e Blake Griffin. Ma con la nona scelta assoluta i Toronto Raptors decidono di selezionare Demar Derozan, segnando, a loro insaputa, il proprio destino.

I Raptors erano una squadra mediocre, non si qualificavano ai Playoffs da ormai due anni, complici i problemi fisici di Andrea Bargnani, su cui la franchigia dell’Ontario era pronta a ricostruire, con tanto di contrattone in arrivo alla scadenza dell’accordo da rookie. Derozan si inserisce bene in un contesto tranquillo come quello canadese ma i successivi due anni non vanno troppo bene, complice anche la scelta di Chris Bosh, vero uomo-simbolo dello scapestrato tentativo di Twin Towers alla canadese, che decide di raggiungere gli amici Dwyane Wade e LeBron James in quel di South Beach.

La dirigenza dei Raptors decide quindi di cambiare rotta:  da Houston arriva Kyle Lowry, mentre come nuovo general manager – in sostituzione, ma tu guarda, di Brian Colangelo – viene scelto un giovanissimo ex-giocatore nigeriano dal passato cosmopolita: Masai Ujiri.

Per ragioni diverse, la visione di Ujiri è agli antipodi rispetto a quella di quel Sam Hinkie, che negli stessi mesi sta prendendo possesso del proprio ufficio in Pennsylvania. Cresciuto tra l’Inghilterra, la Nigeria e Seattle e con un passato da professionista in Europa, Masai comprende innanzitutto come gli orizzonti della pallacanestro siano ormai in espansione, ampliando ancora di più la dimensione internazionalista dei Raptors, che già si segnalavano come prima franchigia ad aver scelto con la chiamata inaugurale un europeo – proprio Il Mago.

Inoltre, unendo nella sua figura una visione tanto europea quanto a stelle e strisce dello sport, Ujiri sembra essere allergico al credo principale di Hinkie: il tanking scientifico, la sconfitta programmata, la distruzione al fine di ricostruire. Per Masai, forse a torto, solo vincere aiuta a vincere, e non si può pensare che da un ambiente depresso si possano sviluppare giocatori funzionali. Per spiegare al meglio la vision del general manager di Bournemouth torna sempre utile una sua frase del 2018 – ad un anno dai fatti che vi stiamo per raccontare – sul tanking.

“We’re not doing that here. Troveremo dei giovani, li faremo crescere e vinceremo.”

Masai Ujiri, 9 maggio 2018

Gli anni che seguono sono un manifesto chiaro di quanto dichiarato. La squadra, che si è liberata negli anni precedenti di pilastri del calibro di Bosh, Bargnani e Rudy Gay, si ricompatta sotto la guida di DeMar e Kyle, i quali, con la propria classe ed i lampi di simpatia e amicizia mostrati nelle pubblicità che invadono le televisioni di tutto il Canada, riescono faticosamente a ricostruire una fanbase che dopo l’exploit di Vince Carter & Co. sembrava andare perdendosi.

Aiuta, e non poco, che la squadra ricominci contestualmente a vincere, tornando anno dopo anno ai Playoffs con una continuità in precedenza sconosciuta. I Raps vincono 97 partite in due stagioni (nelle tre precedenti si erano fermati a 79 totali), ritornando in post-season e venendo rispettivamente eliminati da Brooklyn e dai Washington Wizards di John Wall, Bradley Beal e … un Paul Pierce dagli ultimi sprazzi di talento.

Proprio dopo la prima eliminazione, tuttavia, si verifica una sliding door che determina il futuro della franchigia. Il contratto di Kyle Lowry, acquistato via trade nell’estate 2012 da Colangelo, è in scadenza, ed il giocatore, che considera il suo periodo in Canada come un momento di passaggio per rilanciarsi, è deciso ad uscire dall’accordo e ritornare negli States. Non aiuta che il rapporto con la sua co-star in campo e sul set sia sostanzialmente nullo, come confermato dagli stessi protagonisti.

“All’inizio non mi piaceva per niente.

-DeMar Derozan

Tuttavia, pochi mesi dopo averlo quasi spedito a i New York Knicks, Masai Ujiri decide di affidarsi a quel playmaker dalla carriera così imperscrutabile, dandogli per la prima volta la stabilità tanto agognata: 48 milioni di buoni motivi in quattro anni convincono Kyle a rimanere in Ontario e fare uno sforzo in più con il compagno di backcourt, da quel momento migliore amico in campo e fuori, nonché ancora dei suoi successi.

La ritrovata armonia nel gruppo guidato, già da diversi anni, dall’ex-offensive assistant dei Mavs campioni, Dwane Casey, porta Toronto alle Finali di Conference del 2016 e alle Semifinali nei due anni successivi, aggiungendo pezzi importanti alla rotazione come l’acerbo ma dinamico Pascal Siakam. L’assalto all’Ultimo Atto, tuttavia, mancherà sempre, a causa di un incubo che si manifesterà sotto forma di maglia numero 23 dei Cleveland Cavaliers: “LeBronto”.

La Stagione 2018-2019

La stagione 2018-2019 si apre con il botto il 18 Luglio, quando gli Spurs accettano l’offerta dei Raptors che coinvolge Demar Derozan, Jakob Poeltl e una prima scelta per arrivare a Kawhi Leonard e Danny Green.

È un distacco difficile e incompreso per i fan dei Raps, nonostante fosse ormai chiaro da tempo che il gruppo si fosse rivelato incapace di compiere quell’ultimo salto per competere. La squadra dell’Ontario, ora guidata dall’ex-assistente ed icona del basket britannico Nick Nurse, scambia il proprio miglior realizzatore di sempre, nonché trascinatore nelle ultime stagioni, per un giocatore fortissimo ma reduce da un infortunio e una querelle di oltre un anno e su cui si nutrono seri dubbi sul rendimento in campo.

Demar viene quindi costretto a lasciare la città che lo aveva accolto nella massima lega cestistica, abbandonando anche Kyle, che lancia più di una bordata a mezzo stampa contro la scelta di Ujiri:

“Mi sento tradito perchè DeMar si sente tradito. […] Lui è il president of basketball operations, e basta. Io vengo qui e faccio il mio lavoro.”

-Kyle Lowry

Le prime uscite, tuttavia, fugano ogni dubbio sulla bontà tecnica della scelta: Toronto trova nel quintetto Lowry-Green-Leonard-Siakam-Valanciunas una certezza granitica, vincendo 16 delle prime venti uscite stagionali e scoprendo nel percorso alcune giovani perle che si riveleranno utilissime per la second unit come Og Anunoby e lo specialista Fred VanVleet, autore di una stagione di primissimo livello.

La data da cerchiare in rosso nel calendario, tuttavia, è il 23 febbraio. DeMar e gli Spurs arrivano a Toronto, con il californiano che viene accolto da un video tributo commovente e da un particolare invito a cena di Lowry, il quale al momento del conto adduce a questioni macroeconomiche per dileguarsi.

“Ora lui gudagna in dollari americani, è più forte.”

La partita, tiratissima, viene vinta per 120-117 dai Toronto Raptors, che nel frattempo hanno aggiunto pochi giorni prima al proprio roster un altro tassello rivelatosi alla fine cruciale: Marc Gasol, prelevato dai Memphis Grizzlies in cambio di Jonas Valanciunas e Delon Wright.

Anche in Pennsylvania gli scambi sembrano farla da padrone, con Brett Brown e management fermamente convinti che il 2019 sia l’anno giusto per l’assalto all’argenteria

Il 12 novembre i 76ers scambiano Robert Covington e Dario Saric per Jimmy Butler (reduce da una scissione interno con lo spogliatoio di Minnesota), creando un terzetto di all-star che non si vedeva da tempo a Philadelphia; a questa trade si aggiunge quella con cui Phila preleva Tobias Harris e Boban Marjanovic: un all-in quantomai palese.

L’inizio dell’avventura è il più philadelphiano possibile: lacrime sugli spalti dopo la prima vittoria, con Allen Iverson che abbraccia e bacia ripetutamente un Jimmy Butler già migliore amico di tutti dopo all’incirca 45 minuti di conoscenza. Il finale, tuttavia, è altrettanto philadelphiano, con la squadra che si divide in poco tempo in fazioni contrapposte: Jimmy e Joel Embiid da una parte, Ben Simmons e Tobias – accusati con poco garbo di scarso impegno – dall’altra. Si tratta ovviamente di mere speculazioni, ma tanto basta a creare più di una preoccupazione allo staff dei Sixers in vista dei Playoffs.

La stagione finisce e vede entrambe le squadre ai vertici della classifica: i Raptors sono secondi con un record di 58-24 e i 76ers terzi con un record di 51-31.

Iniziano i Playoffs

Entrambe le squadre passano agilmente il primo turno, scacciando per qualche momento le paure. Philadelphia vince 4-1 contro i Brooklyn Nets, mentre Toronto batte 4-1 gli Orlando Magic. Il destino però vuole che solo una delle due squadre possa continuare il proprio cammino verso le NBA Finals. La semifinale di conference è infatti Philadelphia-Toronto, con gli ultimi che hanno il vantaggio del fattore campo a disposizione.

La serie si presenta equilibrata. Kawhi infiamma Gara 1 con una prestazione da 45 punti, a cui i Sixers riescono a rispondere con una prestazione corale in Gara 2.

Ci si sposta quindi nella Città dell’Amore Fraterno. Embiid risponde a Leonard, il tabellino dice 33 punti per entrambi, ma 116-95 per i 76ers, che passano sul 2-1. Altri 39 punti dello stesso Leonard, tuttavia, impediscono ai Sixers di allungare il vantaggio, riportando la serie in parità e con Gara 5 da disputare a Toronto. I 76ers perdono con un margine di 36 punti e a Philadelphia si inizia già a creare malcontento. I Sixers però riescono a riportare la serie sul 3-3 grazie alla grande prestazione offerta davanti al proprio pubblico.

Rimane solo Gara 7 da giocare. Entusiasmi accesi da entrambe le parti.

Da una parte del Quadrato, una città, Philly, dove il tifo è sempre stato caldo e che ha atteso tanto, troppo tempo per rivedere la propria realtà lottare per arrivare in finale dopo aver sofferto per 5 stagioni ( e anche qualcosa in più) e pronta a sostenere la squadra con più hype dell’intera lega.

Dall’altre parte, un intero Paese, il Canada, che ha sempre trattato il basket come uno sport secondario e che ora si ritrova con una speranza in mano grazie allo stile di gioco di Nick Nurse, all’esplosione di giocatori come Fred Vanvleet e Pascal Siakam, grazie all’esperienza di Marc Gasol, alle prestazioni di Kyle Lowry, ma soprattutto grazie alla grandezza di Kawhi Leonard.

L’inizio di Gara 7 non tradisce le aspettative elevate: prima fase aggressiva per Philadelphia, con una rapida risposta da parte di Toronto. Ritmi che, però, sembrano abbassarsi subito dopo, lasciando spazio alla tensione e ad un poco esaltante 18-13 al termine del primo quarto. Il pubblico canadese esulta ad ogni canestro, lanciando la propria squadra verso la vittoria, ma Philadelphia tiene bene, soprattutto in difesa, e dopo il secondo quarto il tabellino recita ancora vantaggio Raptors, ma di poco: 44-40.

Al rientro degli spogliatoi, i Raptors sembrano essere più in gioco degli avversari, firmando subito un +9 e costringendo Brett Brown ad un timeout dopo il quale Phila firma un parziale di 16-0, che però non riesce a mantenere a causa di qualche difficoltà nella lotta a rimbalzo; anche il terzo quarto è chiuso a -3 dalla franchigia canadese.

L’ultima frazione sarà la fine dei giochi per una delle due compagini. È una lotta punto a punto: a trascinare le due squadre vi è da un lato Kawhi Leonard e dall’altro Jimmy Butler.

Entrambi tuttavia non sono al meglio: Leonard non sta tirando benissimo e Butler è vittima di una distorsione alla caviglia. Proprio gli errori di entrambi permettono alle due squadre di arrivare sul punteggio di parità per 85 a 85. I Sixers però sembrano stanchi in difesa e a rimbalzo. Toronto allunga sul +4, rendendo la vita complicata a Philly.

I Raptors non concedono tiri da tre e difendono divinamente. Due liberi per Butler, che ne sbaglia uno. Toronto non riesce a segnare nel successivo possesso e così Embiid trova due punti dalla lunetta. Punteggio quindi sull’89-88 per i padroni di casa, con Kawhi Leonard chiamato a tirare due liberi.

Segna il primo ma sbaglia il secondo concedendo così una ripartenza a Jimmy Butler che non sbaglia e porta la gara in parità sul 90-90 a 4.2 secondi dalla fine. Il resto della storia lo conosciamo tutti: ultimo possesso Raptors, palla a Kawhi. “It’s off to Leonard, defended by Simmons. Is this the dagger?” Tutta l’arena viene avvolta dal silenzio. La palla rimbalza sul ferro per la prima, la seconda, la terza, la quarta volta e poi entra. Il pubblico non ci crede, ha bisogno ancora di un attimo per realizzare e poi esplode nel boato più liberatorio di sempre lì a Toronto.