La vita e la carriera dell’allenatore newyorkese sembrano il soggetto di una qualsivoglia pellicola hollywodiana: colpi di scena, cambi di casacca repentini, sfuriate e riappacificazioni. Per raccontare tutto, c’è bisogno delle parole di un regista a lui molto vicino.


“Tutti vogliono psicanalizzarmi, non so come mai.”

La vita e la carriera di Lawrence Harvey Brown si potrebbero tranquillamente riassumere in questa frase da lui pronunciata qualche tempo fa.


Da sempre, infatti, più che ai suoi successi – è, ad esempio, l’unico allenatore ad aver vinto sia la NCAA che NBA, nonché ad aver portato otto franchigie diverse ai Playoffs – la stampa pare interessarsi alle sue fragilità, al suo carattere forse nevrotico, al suo cattivo rapporto con i giocatori più giovani.

Il lavoro di Brown sembra inevitabilmente condannato a soffrire di quel morbo contemporaneo che è la fusione tra l’artista e l’arte. Quella convinzione dogmatica che il successo debba per forza derivare da una figura limpida, centrata, inattaccabile.

Il coach, tuttavia, non si scompone mai. Ad 81 anni continua a lavorare sul campo – da assistente di Penny Hardaway all’Università di Memphis – cercando, come ripete spesso, di seguire le ombre di grandi allenatori del passato, che, terminata la propria carriera da capo allenatore, si sono dedicati all’insegnamento nei confronti delle nuove generazioni.

La sua sardonica indifferenza alle critiche in nome dell’amore verso il proprio lavoro non è casuale, ma il frutto della comunità dove è nato ed è cresciuto: la Brooklyn ebraica della metà del secolo scorso, un centro nevralgico, in cui si sono riunite alcune delle più grandi personalità del Novecento.

Filosofi, poeti, drammaturghi e professionisti hanno portato nel distretto tutte le loro conoscenze artistiche, economiche ed intellettuali, ma anche il proprio recato di sofferenza, persecuzione, endemica disillusione. I personaggi di seconda generazione, esclusi dalla barbarie sovietica o nazifascista, colgono e rielaborano questo trascorso tormentato, adattandolo alla nuova realtà americana.

Larry Brown è in qualche modo un rappresentante ed un prodotto di questa cultura nell’ambito cestistico, un personaggio perfetto per un film diretto da Woody Allen, forse il più grande fotografo di quella Brooklyn così complessa. Proprio con le frasi del regista, cercheremo di ripercorrere la sua storia.

Formazione: “Money is better than poverty, If only for financial reasons.” (Whithout Feathers, 1975)

La storia di Larry Brown, in piena tradizione ebraica, è una storia di discendenza femminile. Mamma Ann è l’unica figlia femmina degli Hittelman, importante famiglia di fornai bielorussi alle dipendenze, si dice, anche dei Romanov. Arrivati nella Grande Mela, conoscono dopo qualche anno la famiglia polacca dei Braun, il cui cognome era stato da poco anglicizzato ad Ellis Island.

Ann, ventiseienne, perde la testa per Milton Brown, venditore di mobili nell’area del New England. I due si sposano pochi mesi dopo l’inizio della propria frequentazione, generando due figli: Herb, il serio e responsabile fratello maggiore, e Larry, da sempre preferito di Ann e intoccabile ribelle.

A Milton, tuttavia, la magra vita di Brooklyn sta stretta; cultore del sogno americano, papà Brown arriva a fare il pendolare tra New York ed il West Virginia pur di vendere e migliorare la propria condizione. Nel 1947, tuttavia, un attacco di cuore gli mostra come percorrere giornalmente tutte quelle miglia non sia un’attività sostenibile; la famiglia si trasferisce quindi a Pittsburgh, dove l’esplosione dell’industria siderurgica e la vicinanza a tutti i centri nevralgici della Pennsylvania possono garantire un mercato più ampio.

Nella città dell’acciaio, il padre introduce Herb e Larry alla pallacanestro, giocando con loro per interi pomeriggi e spiegandogli i primi fondamentali. I fratelli comprendono quindi da subito la dimensione didattica del Gioco, l’importanza di insegnare e digerire concetti chiari e ripetibili; un’inclinazione nei confronti della Palla a Spicchi che manterranno per tutta la propria carriera futura. Purtroppo, tuttavia, Milton non farà mai in tempo a terminare le proprie lezioni: stroncato da un aneurisma nel 1947, lascia i due figli con un vuoto che li accompagnerà – e dividerà – per tutta la vita.

Larry, tuttavia, ricorda quel periodo come un momento di grande solidarietà. Gli Hittelman richiamano a Brooklyn mamma Ann, prendendosi cura della famiglia Brown, in precarie condizioni economiche. Un legame familiare forte alla cui base c’è il sostegno reciproco, una costante relazionale che Larry cercherà in tutte le persone con cui avrà a che fare nel mondo della pallacanestro.

“Ho perso mio padre, ma ho trovato  i miei zii, i miei cugini, i miei nonni. Tantissime persone si sono interessate a me.”

(Larry Brown)

La famiglia, dopo qualche tempo, decide di trasferirsi a Long Island. Mamma Ann lavora ininterrottamente dalle 6 del mattino alle 10 di sera nel nuovo negozio, mentre Larry passa le giornate dopo la scuola a tirare da solo nei vicini campi di Central School. L’allenamento, sentito come un modo per riconnettersi con Milton, lo aiuta a diventare una stella del liceo locale, tanto da essere chiamato all’Università di North Carolina dal leggendario coach Frank McGuire, che vede in lui la point guard del futuro per i Tar Heels.

Dopo la prima stagione, tuttavia, coach McGuire è chiamato a guidare i Philadelphia Warriors di Wilt Chamberlain. A succedergli è un giovane assistente di Emporia, Kansas, che avrà un discreto impatto tanto su UNC quanto sulla vita di Brown: Dean Smith.

FOTO: USA Today

Larry, che dopo la fine della sua esperienza da giocatore – condita da oro olimpico a Tokyo ’64 – rimane a Chapel Hill come assistente, impara dal coach una lezione fondamentale:

“Non dovresti aspettarti della riconoscenza per aver fatto la cosa giusta, dovresti semplicemente farla.”

(Dean Smith)

È l’inizio del concetto di Playing the Right Way, un dogma indiscutibile della pallacanestro browniana che vede nella semplicità dei concetti e nella continua aggressività difensiva le proprie applicazioni. Larry, tuttavia, non lo applicherà mai con la costanza e la metodicità del proprio mentore, come ricorderà egli stesso in occasione della morte di Smith, avvenuta nel 2015.

“Non c’è giorno in cui io non provi ad essere come lui, fallendo sempre.”

 College Basketball: “Eternal nothingness is OK if you are dressed for it” (Getting Even, 1971)

Forse la frase di Woody Allen che più si addice al protagonista della nostra storia. Gli anni alla corte di Dean Smith, infatti, lasciano a Larry un altro insegnamento fondamentale, che lui come al solito rielaborerà alla luce del proprio surrealismo newyorkese: bisogna essere sempre vestiti di tutto punto quando si va ad allenare

“Dean era convinto che dovessimo avere sempre giacca e cravatta, perché se le nostre famiglie fossero entrate per farci una sorpresa avremmo dovuto sembrare professionali.”

Brown sceglierà quindi sempre con estrema cura i propri outfit da panchina, tanto da diventare – appena iniziata la propria carriera da capo-allenatore – l’icona cestistica della moda Anni Settanta. Le stranezze del coach di Brooklyn, tuttavia, non riguardano unicamente papillon oversize e bretelle discutibili, come dimostra la prima esperienza su una panchina collegiale del figlio di Ann.

Nell’aprile 1969, grazie a qualche spintarella dell’amico Smith, la prestigiosa università di Davidson decide di affidare la panchina a Larry.

l fratello di Herb si presenta alla conferenza stampa raggiante, lanciandosi da subito come leader indiscusso del programma.

“Allenerò in una scuola che ho sempre rispettato e spero che riusciremo a portare avanti la nostra grande tradizione.”

L’allora 28enne, tuttavia, non dirigerà mai una sola sessione di allenamento dei Wildcats, rassegnando le proprie dimissioni solo 91 giorni dopo la propria nomina per delle incomprensioni con l’amministrazione scolastica. È questa la prima replica del più grande tormentone di Brown: la fuga inaspettata a metà percorso, forse retaggio dell’inquietudine insita nelle proprie origini.

Qualunque sia la ragione, Davidson è solo la prima di 8 – su 15 totali – panchine lasciate in fretta e furia e senza avvisare nessuno.

Terminata la brevissima esperienza in North Carolina, Brown si accasa per sette stagioni in ABA, dove guida i Carolina Cougars e i Denver Nuggets. Nonostante i buoni risultati ottenuti con entrambe le franchigie, tuttavia, il richiamo del college basketball è troppo forte per un “insegnante” del Gioco come Larry, che decide con entusiasmo di accettare l’offerta di UCLA nel 1979.

Il primo anno in California, dove eredita la tradizione di un squadra con 13 partecipazioni consecutive alla March Madness, sembra idilliaco: la squadra vince – 17-9 il record a fine anno- convince e arriva ad una sola partita dal titolo nazionale, perso in finale contro Louisville. Nell’annata immediatamente successiva a questo manifesto della Right Way, tuttavia, i Bruins sono protagonisti di una stagione che si potrebbe tranquillamente collocare in una qualsiasi pellicola surrealista.

FOTO: Getty Images

A metà stagione Kenny Fields viene messo fuori squadra per aver battibeccato in allenamento con il coach, che dichiara che il centro non avrebbe più giocato per lui dopo aver tenuto quell’atteggiamento. Dopo 9 giorni ed una minaccia di morte recapitata a Brown, tuttavia, il freshman viene reintegrato, con tante scuse da parte dell’allenatore

“Ho fatto quello che era giusto, ma sono imbarazzato dall’aver pronunciato frasi così nette. Anche io ho sbagliato in passato, e le persone mi hanno sempre dato una seconda possibilità. Non voglio portare via un sogno a questo ragazzo.”

Terminata questa diatriba, Brown ci tiene a promettere a tutti a mezzo stampa che, nonostante le voci ricorrenti, non ha nessuna intenzione di accettare eventuali offerte di lavoro dai New Jersey Nets prima della fine della stagione di college basketball. Dopo poco più di due settimane – complici anche le prime indagini sui metodi di reclutamento fraudolenti di Brown– Larry è il nuovo allenatore dei New Jersey Nets.

Anche l’esperienza in New Jersey vive delle medesime contraddizioni: una prima stagione che vede la squadra in grande crescita e qualificata ai Playoffs per la prima volta dall’ingresso in NBA contrapposta ad una seconda stagione caotica, con Brown dimissionario a 6 gare dalla fine dopo uno sfogo del proprietario Joe Taub, venuto a conoscenza dei contatti segreti tra il proprio allenatore e l’Università del Kansas, prossima meta di Larry.

Kansas e NBA: “What a wonderful thing to be conscious, I wonder what people in New Jersey do.” (Without Feathers, 1975)

I Jayhawks arrivano alla stagione 1983 con molti più dubbi che certezze dopo due stagioni decisamente negative. Coach Brown, tuttavia, riuscirà a portare la squadra a cinque apparizioni consecutive al torneo NCAA e a due Final Four, vincendo il titolo nel 1988 grazie all’apporto decisivo di un giocatore centrale per la sua pallacanestro come Danny Manning.

A impressionare maggiormente degli anni a Lawrence, tuttavia, sono le menti cestistiche formate dal nativo di Brooklyn. Tra gli assistenti di Brown in quegli anni, figurano futuri Hall of Famer come John Calipari e Bill Self, allenatori NBA come Alvin Gentry e Bob Hill, general manager come RC Buford ed un ex-allenatore di college di Division III probabilmente addestrato per diventare un agente della CIA: Gregg Popovich.

I peculiari metodi di Brown sono alla base della formazione di queste figure di spicco della NBA contemporanea. Larry, per esempio, faceva correre in piena notte giocatori e staff in modo da scoprire i pensieri del proprio entourage (“correndo in shorts si dicono cose che incravattati in un ufficio non si dicono”), partecipava a feste poco istituzionali a casa di R.C. Buford e Bill Self e organizzava sessioni di allenamento di quattro ore in cui correggeva ogni singolo movimento sbagliato dai propri giocatori.

Anche in questo apparente locus amoenus, tuttavia, ci sono dei lati oscuri: dopo aver vinto il titolo nazionale nel 1988, quindi, Brown e i suoi lasciano precipitosamente Kansas per accasarsi ai San Antonio Spurs (dove un paio dei suddetti ex-assistenti faranno una discreta carriera).

Alla base di questa decisione c’è, probabilmente, la consapevolezza del fatto che la NCAA stia già indagando per ulteriori scorrettezze di Brown nel processo di reclutamento dei giocatori. Poco dopo le dimissioni, infatti, verrà contestato al coach di New York un pagamento di oltre 1200 dollari fatto nel 1986 al prospetto Vincent Askew.

La debole difesa di Brown – che afferma che si trattasse di un favore per permettere al giocatore di visitare la nonna malata – non sarà convincente e l’Università verrà punita con tre stagioni di esclusione dal Torneo.

Il decennio successivo è forse il più anonimo per Brown, ormai stabilmente nel giro degli allenatori NBA. La svolta arriva nel 1997, a seguito di un incontro decisivo con il front office dei Philadelphia 76ers.

Philly: “To you, I am an atheist; to God, I am the Loyal Opposition (Stardust Memories, 1980)

Al centro del nuovo progetto in Pennsylvania c’è senza ombra di dubbio Allen Iverson, al tempo dell’arrivo di Brown un sophomore che pochi mesi prima ha scioccato la NBA con un crossover iconico ai danni di Michael Jordan. Larry ed AI sono a primo sguardo quanto di più diverso possa esistere: metodico, figlio della Grande Mela e cultore della Right Way Larry; vittima del Sud razzista, incostante e cultore della My Way Allen.

FOTO: Sports Illustrated

Eppure, se si supera il primo strato, si possono iniziare a notare diverse somiglianze, tecniche ancor prima che umane: entrambi sono stati due playmaker sottostimati a causa della propria altezza, entrambi adorano una pallacanestro rapida e di pick-and-roll, entrambi sono troppo testardi per ammettere di aver bisogno dell’altro per portare Philadelphia ai vertici della NBA.

Le prime due stagioni, nonostante i continui litigi e le altrettanto continue richieste di trade, licenziamento o taglio di uno nei confronti dell’altro in maniera indistinta, sembrano essere di coesistenza pacifica, con i Sixers che tornano ai Playoffs nel 1999. L’anno seguente si ha invece il primo, emblematico episodio della loro relazione a corrente alternata.

Nel dicembre del ’99, infatti, dopo l’ennesimo litigio e richiesta di licenziamento altrui, i due vengono convocati dal plenipotenziario della franchigia Pat Croce, deciso a risolvere una volta per tutte la situazione. Il colloquio tra i due è un manifesto delle loro personalità.

“Larry voleva che scambiassi Allen il giorno stesso, e Allen che licenziassi Larry. Allora ho preso il toro per le corna: ‘Larry, Allen ti paragona alle guardie carcerarie.’

‘Allen, come pensi che si senta Larry quando lo riempi di insulti perché ti toglie due minuti dal campo?’

Appena ho finito di parlare vedo Allen alzarsi, fare il giro del tavolo e abbracciare Larry. É stata la svolta.”

(Pat Croce)

Per quanto la scena – per di più natalizia – sprizzi un certo romanticismo, quella concordata nell’ufficio di Croce è una tregua armata, che permette ai Sixers di vincere 32 delle 50 partite giocate nel 2000 e di arrivare fino alle Semifinali della Eastern Conference.

A lanciare la volata del 2001, però, è un altro episodio, che ha come protagoniste le uniche due persone realmente in grado di portare alla ragione AI e coach Larry: le loro madri, che per un caso del Destino portano entrambe il nome di Ann.

Secondo quanto riportato da un pezzo dell’epoca di Sports Illustrated, infatti, dopo una tiratissima vittoria nel 2000 la distinta 92enne di origine bielorussa e l’orgogliosa 39enne discendente da una lunghissima genealogia di schiavi del Sud si sono incontrate nel tunnel che porta agli spogliatoi.

Dopo diversi minuti dall’uscita della maggior parte dei giocatori, i due figli, decisamente accigliati, escono – sorprendentemente insieme – dallo spogliatoio. Le donne si illuminano.

“Quello è mio figlio, ha vinto la partita.”

“Quello è MIO figlio e la partita l’ha allenata, sono Ann, la madre di Larry Brown.”

“Anche io mi chiamo Ann! Sono la mamma di Allen.”

“Oh, io lo conosco Allen, hai proprio un gran bravo ragazzo.”

Ann Iverson, a queste parole, dà a mamma Brown il proprio rosario, che Larry, ebreo praticante cresciuto in Sinagoga, porterà con sé per tutta la famosa Playoff Run del 2001. Al contempo, la madre di AI riceve un bigliettino con il numero della casa di riposo, per poter telefonare nei giorni successivi.

Dire che la scalata alla Eastern Conference del 2001 inizi in quel tunnel sarebbe offensivo nei confronti della pallacanestro giocata dai Sixers, ma è indubbio che per unire quei due playmaker così apparentemente dissimili ci sia voluto l’intervento delle figure cardine della loro esistenza.

Dopo la delusione patita contro i Lakers, tuttavia, il rapporto Iverson-Brown, seppur consolidato, si incrina nuovamente. L’apice di questo nuovo scontro è senza dubbio il 7 maggio del 2002, il giorno del famosissimo “Practice Rant” di AI. Larry, a posteriori, sembra ricordare quei momenti con una diversa consapevolezza:

“Io sono un coach. Per me devi venire a lavorare in allenamento e raggiungere gli obiettivi. Ripensandoci oggi credo che Allen mi abbia reso una persona ed un allenatore migliore. I miei giocatori si sono sempre allenati, ma lui era un tipo diverso, non mi vergogno di dire che non lo allenavo come gli altri.”

I Sixers, nonostante le continue ricomposizioni tra i due, sono stanchi dell’improduttivo battibeccare delle due figure che dovrebbero essere al centro del proprio progetto. Proprio per questa ragione, nel 2003 Larry Brown lascia, dopo 7 stagioni, la franchigia della Pennsylvania, per accasarsi a Detroit.

Pistons: “I should stop ruining my life searching for answers I’m never gonna get, and just enjoy it while it lasts.” (Hannah and her sisters, 1986)

Larry arriva nel 2003 in una franchigia, i Pistons, che ha davanti a sé due grandi sfide, presentate dal general manager Joe Dumars al coach di Brooklyn a partire dal loro primo incontro: scegliere un giocatore generazionale al Draft del 2003, dove Detroit ha la seconda scelta, e cercare di capire se Mehmet Okur e Tayshaun Prince, i due sophomore della squadra, siano in grado di essere un valore aggiunto per la franchigia.

Brown, grazie alle sue deansmithiane conoscenze in giro per la NCAA, è certo che l’uomo da prendere sia Dwyane Wade da Marquette, con Carmelo Anthony come alternativa. I Pistons tuttavia, sono convinti che il giocatore del futuro sia Darko Milicic, diciottenne che ha incantato sia nelle serie minori serbe che nei primi workout.

Per risolvere lo stallo, front office e allenatore decidono di richiamare i tre giocatori – insieme a Chris Bosh, altro papabile – per un ulteriore allenamento di prova.

I tre americani si presentano, mostrando alcune incertezze che non convincono un coach come Brown, per cui i giocatori devono entrare nella Lega già formati; Darko, invece, temporeggia, evitando la prova. Larry si convince, pur malvolentieri, della bontà di Milicic. Il resto, come ben si sa, è storia.

Nonostante l’affaire-Darko, tuttavia, il gruppo che si presenta davanti a Larry sembra nato per giocare la sua pallacanestro e per diventare quella famiglia cestistica che egli ha sempre ricercato. I giocatori-chiave sono tre:

Rasheed Wallace: come Brown, un uomo di Dean Smith che ha condito di inconsapevolezza i rigidi insegnamenti del coach di UNC; forse il primo stretch-four realmente minaccioso da tre della Lega.

Chauncey Billups: compìto e ordinato playmaker reduce da una burrascosa rottura con i Minnesota Timberwolves e desideroso di prendersi la propria rivincita. Giocatore difensivo per cui il coach stravede.

Ben Wallace: Undrafted, àncora difensiva della squadra, per Brown la vera ragione per cui la spedizione risulterà vincente.

Nonostante l’ottima stagione regolare, chiusa con 54 vittorie, ai Playoffs i Pistons non partono come favoriti. Secondo molti osservatori, infatti, a primeggiare ad Est saranno i Pacers o i Nets, avversari dei Lakers alle Finals negli anni immediatamente precedenti. Detroit supera entrambe, vincendo alla settima una serie di Semifinale combattutissima contro il gruppo guidato da Jason Kidd e superando in tranquillità Reggie Miller e compagni al turno successivo.

Sulla strada del Titolo, però, c’è quella che era già stata definita la squadra del secolo: i Lakers di Kobe, Shaq, Malone, Payton, Fisher e Phil Jackson. I gialloviola sono in realtà funestati da problematiche croniche esplose lungo il corso di tutta la stagione: il processo per violenza sessuale – tenuto in Colorado – a Kobe Bryant, le continue liti tra il numero 8 e Shaq, la totale precarietà fisica di Karl Malone, ormai lontano dai 20 punti di media tenuti solo un anno prima a Utah.

FOTO: Robyn Beck

Gara-1, aperta nel punteggio da una tripla di Rasheed, quasi a mostrare fin da subito le peculiarità di quei Pistons, viene vinta da Detroit per 87-75 in piena Right Way. Nella seconda partita, invece, accade qualcosa di inedito per quel gruppo: un litigio tra Larry e i giocatori. Sopra di 3 a pochi secondi dalla fine, infatti, il coach chiede conservativamente che venga speso un fallo per evitare un eventuale tripla del pareggio. Il gruppo, però, si rifiuta.

“La sconfitta in Gara-2 è stata colpa mia, perché eravamo avanti di 3 a fine gara e nel timeout ho detto alla squadra che avremmo dovuto fare fallo, perché sapevo che Kobe in momenti come quello sarebbe salito di livello e probabilmente avrebbe segnato da tre, il che ci avrebbe mandati al supplementare. I ragazzi però non erano d’accordo con me, perciò non abbiamo fatto fallo: Kobe ha segnato da tre e abbiamo perso in overtime. Mi ricordo che sul viaggio di ritorno verso Detroit ho chiesto scusa a tutti, ma mi hanno detto di tornare al mio posto e che non saremmo più tornati a Los Angeles. Ed è quello che è successo perché abbiamo vinto le successive tre partite.”

Dopo la vittoria, tuttavia, la dirigenza Pistons decide di smantellare parzialmente il supporting cast che era valso il Titolo. Una decisione che Brown reputa ancora oggi scellerata e che ritiene sia alla base del mancato Repeat. Sebbene il cambio di roster e la diversa profondità di Detroit possano essere inseriti tra le ragioni della sconfitta nelle Finals 2005, alla base c’è soprattutto una gestione decisamente più browniana della comunicazione.

Si parte – seppur lontano da Detroit – con la pessima spedizione olimpica di Atene di cui Brown è head coach.

Appena cominciata la stagione poi, manco a dirlo, c’è Malice At The Palace, datata 19 novembre 2004. Si prosegue con le continue richieste di tagli e acquisizioni da parte di Brown, che nel frattempo ritiene opportuno comunicare alla stampa di sperare di allenare i Knicks la stagione seguente. Si chiude, infine, con l’insensato aiuto di Rasheed Wallace, che consegna a Robert Horry la tripla del Titolo. Insomma, niente di nuovo sotto il sole.

I desideri di Brown si avverano, e nell’estate del 2005 il figlio di Ann viene chiamato ad allenare per la prima volta la squadra della sua città. I Knicks, in piena coerenza col proprio personaggio, arrivano da una stagione travagliata e piena di inutili stravolgimenti interni.

Dal punto di vista tecnico, il leader della franchigia è Stephon Marbury, forse – insieme ad Iverson – il giocatore meno adatto per il suo sistema. Brown sbatte la porta alla fine del primo anno, dopo aver chiesto un rinnovo accompagnato dal taglio integrale di tutto il roster, per un totale di 150 milioni di dollari di spesa senza alcun tipo di asset in cambio. Da lì in poi, nonostante qualche esperienza tra Charlotte ed il Front Office di Philly, la sua carriera NBA è essenzialmente conclusa.

Torino: “I am not saying I didn’t enjoy myself, but I didn’t.” (The Curse of the Jade Scorpion, 2001)

Se questo fosse realmente un film di Woody Allen, saremmo arrivati alla scena in cui – attraverso un simpatico disclaimer – l’autore avvisa il pubblico del fatto che da qui in poi si spoglierà dei suoi panni di narratore imparziale, non potendo accantonare la propria fede sportiva.

Nell’estate del 2018, Brown – che sta fuggendo dalla propria panchina di Southern Methodist University per l’ennesimo caso di reclutamento illegale – viene ingaggiato dall’Auxilium Torino in un pirotecnico tentativo di entusiasmare un pubblico avvilito da una stagione carica di contraddizioni e colpi di mano della proprietà.

Il suo arrivo, insieme a quello di mostri sacri del basket nostrano come Matteo Soragna in dirigenza e ad una campagna acquisti all’apparenza faraonica, suscita l’effetto sperato, diventando un caso mediatico anche negli Stati Uniti.

La realtà, tuttavia, sarà ben diversa dall’apparenza: il gruppo-squadra si rivela molto meno talentuoso del previsto, ed il pubblico, sempre molto esigente, inizia a disertare il Palavela, ipertrofico palazzo del ghiaccio dalla struttura completamente inadatta alla Palla a Spicchi. Larry, poi, fa continuamente la spola con il North Carolina per sottoporsi a dei trattamenti medici, lasciando di fatto la squadra a coach Paolo Galbiati, vincitore della prima storica Coppa Italia dei gialloblu l’anno precedente.

Il finale è perfetto per un personaggio Alleniano: malinconico, amaro, realistico. La squadra fallisce per problemi fiscali – dopo aver dato spettacolo per tutto l’anno con litigi a mezzo stampa e risse in spogliatoio – mentre Brown si separa dalla società prima che la nave affondi.

Non si poteva che chiudere così: l’ultimo colpo di testa di una vita da film.