La neve, il buio, gli infortuni, Denver, le sue prime NBA Finals: la storia di Jamal Murray è tutto questo, e anche di più.
“Come to decide that the things that I tried
Were in my life just to get high onWhen I sit alone, come get a little more known
Red Hot Chili Peppers – Snow
But I need more than myself this time”
Mi piace pensare che per una serie di fortuite coincidenze Jamal Murray abbia almeno una volta pensato a questa canzone nel corso del suo lungo e faticoso percorso di riabilitazione. La stagione 2021/22 lo ha visto seduto tutto il tempo dopo la rottura del crociato avvenuta nell’aprile dello stesso anno, e di pensieri negativi a riguardo ce ne saranno stati, eccome.
Rabbia, frustrazione. Rammarico, anche? Sì, perché tutto questo arriva dopo soli quattro mesi da che il nativo di Kitchener, Ontario, ha messo in mostra tutto il suo arsenale nel corso dei Playoffs della bubble di Orlando. “Playoff Jamal” comincia ad essere chiamato, finalmente a riconoscimento delle sue doti, specialmente quando la palla pesa. E i Denver Nuggets hanno appena vinto due serie in Gara 7 dopo essere stati sotto 3-1, cosa che non si vede tutti i giorni.
Murray ha scoccato frecce a raffica per tenere i suoi compagni a galla in momenti delicati: 50 e 42 punti contro Utah, 40 contro i Clippers. Denver si deve arrendere solo ai futuri campioni, i Lakers, ma “Playoff Jamal” è già nella storia.
Poi l’infortunio. Un infortunio che non è facile superare e da cui non tutti tornano uguali a prima. Ma Jamal Murray non è “tutti”. Non per come è stato cresciuto.
“Me lo fai rivedere?”
Piccolo passo indietro: siamo a Kitchener, cittadina di 200.000 abitanti ad un’ora di macchina da Toronto. Il piccolo Jamal, figlio di Roger, ex atleta e giocatore di basket, e Sylvia, cameriera di Tim Horton’s (il corrispettivo canadese di Starbucks, ma con un caffè ben peggiore), non molla un secondo la palla a spicchi fin dalla tenera età.
Roger, assolutamente contento che il figlio voglia seguire le sue orme e spingersi anche più lontano, lo sottopone a dure prove, prove che lo stesso Jamal è lieto di accogliere: per incrementare la sua resistenza gli fa fare flessioni nella fredda neve del Canada, sprintare nelle piste gelate per aumentare la velocità e il controllo, arriva a bendargli gli occhi in sessioni di tiri liberi in modo che diventi un automatismo per lui, cercare di avere il massimo del controllo.
“Perché, papà? Non lo fa nessuno questo allenamento!” – gli chiedevo, e lui mi rispondeva: “Certo che non lo fa nessuno, ma questo è quello che provi quando non sei in controllo. Giochi alla cieca.” E in tutto questo mi parlava, cercava di distrarmi, di entrarmi in testa.
Leggenda vuole che in un allenamento a Kentucky abbia segnato 270 liberi consecutivi.
Non fraintendete, per quanto sembri una tortura o un metodo sicuramente estremo, c’è un motivo dietro a tutto questo. Oltre ad idolatrare Michael Jordan (per ovvi motivi) e Vince Carter, figlio adottivo e prediletto di Toronto, Jamal guarda per ore e ore i film di Bruce Lee, tanto da chiedere al padre più informazioni sull’artista marziale di Hong Kong. Assorbe tutto, dai metodi di allenamento alla meditazione, riguarda le scene in slow-motion insieme al padre per immergersi ancora di più in questo mondo e in questa filosofia. Da qui parte il regime di allenamento che ho spiegato poco fa: non è un’imposizione genitoriale, come spesso accade, ma il frutto della volontà di essere migliori:
Chiedevo a mio padre di riavvolgere il nastro, farmi rivedere ogni scena a rallentatore. E volevo sempre sapere di più su come avesse fatto a rafforzarsi così tanto mentalmente. Indipendentemente da quello che gli capitava davanti, non aveva mai paura.
A differenza di tanti canadesi, che nascono coi pattini da ghiaccio ai piedi, Jamal non è un ottimo giocatore di hockey ma decide comunque di lanciarsi anche nel passatempo preferito a nord del confine americano. Si mette in porta e qui testa e allena i suoi riflessi al meglio. Per i meno abituali: contate che il puck, il dischetto, è una cosina di 7 cm per 2 di altezza sparata a un’ottantina di chilometri orari. Il portiere non è proprio il mestiere più facile del mondo, quindi.
Lo stesso Roger Murray ha commentato così gli esercizi con cui metteva alla prova il figlio:
L’idea era quella di fargli bloccare quello che provava sul momento, fargli capire che il dolore era temporaneo. Molti bambini prendono un colpo o si tagliano, e immediatamente pensano che sia più grave di quello che è in realtà. Ho cercato di mostrargli che il dolore è qualcosa che arriva per tutti, che è parte della vita. Se alla fine non ti spaventa, puoi superarlo.
Ma lui non si fa problemi, è tutto per un fine più alto: rinforzarsi, fare ogni passo possibile per essere la migliore versione di sé e perché no, nel mentre diventare anche la miglior versione di un giocatore di basket.
Oggetto danneggiato
Ed è con queste premesse che arriviamo all’infortunio, al fatidico 2021. Il 13 aprile, Jamal si rompe il legamento crociato anteriore in una partita contro i Golden State Warriors e viene dichiarato out per il resto della stagione.
Il suo calvario non finisce qui, però. La stagione successiva passa interamente senza di lui in campo, costretto a guardare le speranze dei compagni spegnersi senza poter fare nulla. E qui qualcosa si incrina.
Partiamo dal presupposto che per un ragazzo cresciuto com’è cresciuto lui, non deve essere facile arrivare al punto di rottura. Jamal è un giocatore forgiato nel freddo e nelle condizioni climatiche più proibitive, abituato a meditare 30-40 minuti al giorno e possibilmente prima di ogni partita, abituato a pensare quotidianamente a quello che è riuscito a maturare e fare suo con l’aiuto del padre: “Il dolore è temporaneo“.
Un allenatore gli aveva sequestrato le scarpe per impedirgli di strafare e farsi male. Due ore dopo Jamal era sul parquet, scalzo, a lavorare sul suo gioco. Eppure qui non è soltanto una questione di dolore fisico. È la sensazione di non sentirsi più utili, la sensazione di non poter tornare più come prima, la sensazione che ogni sforzo (e come avete visto non sono stati pochi) alla fine non sia servito a nulla. Tutto questo si insinua sotto la pelle e crea una spaccatura nella corazza.
Coach, la verità: verrò scambiato? Dopotutto, a questo punto, sono solo un oggetto difettoso…
Con le lacrime agli occhi, seduto nel bus della squadra, Jamal chiede a coach Michael Malone del suo futuro. L’allenatore dei Nuggets, a Denver dal 2015, ha avuto Murray con sé sin dai suoi primi passi in NBA e solo dieci giorni fa ha raccontato questo aneddoto di quel periodo:
Ricordo che ero nel bus con lui, aveva gli occhi lucidi e quella era la sua preoccupazione. “Ti riprenderai da tutto questo, vedrai. E non solo ti riprenderai, ma tornerai anche più forte di prima”, gli ho detto. L’ho abbracciato e ho ribadito: “Assolutamente no, sei con noi, ti vogliamo bene e ti aiuteremo a ritornare, e tu sarai un giocatore migliore per tutto questo”.
La canzone dei Red Hot sembra cucita per questo momento: “Quando mi siedo in solitudine mi conosco un po’ di più, ma stavolta ho bisogno di qualcosa di più di me stesso”. “Snow”, uno dei loro capolavori, comincia esattamente con le parole che Jamal può aver pensato in quel momento. Caso vuole che “snow” sia stato anche il suo primo campo di allenamento, quello dove ha imparato che sì, il dolore è temporaneo.
Playoff Jamal
555 giorni dopo, Jamal Murray torna in campo. Salta dieci giorni a febbraio, ma a parte quelli e qualche riposo occasionale gioca 65 partite, tutte e 65 da titolare inamovibile. È lo stesso, eppure un po’ diverso.
I punti a referto sono in linea con le medie tenute fino a quel momento, un ottimo risultato per un giocatore di rientro da un infortunio così grave, ma Jamal coinvolge di più i compagni: statisticamente parlando, i suoi assist sono un career-high, 6.2 a partita, ma il significato e il modo di giocare sembrano dire “voi vi siete fidati di me, io mi fido di voi”.
Quando segna non vuole strafare necessariamente, anche se le serate storte capitano, ma anche qui sembra esserci un messaggio: “Ci penso io a voi, devo farmi perdonare la lunga assenza”. Ed essere decisivo in una squadra che può contare su uno dei migliori giocatori (se non il migliore) del basket odierno, Nikola Jokic ovviamente, la dice veramente lunga.
E così, tre anni dopo abbiamo finalmente rivisto “Playoff Jamal”. Dopo un infortunio che lo ha tenuto fermo per un anno e mezzo, ci siamo potuti godere di nuovo la miglior versione della Freccia Blu di Kitchener. O meglio, dovrei correggere il tempo verbale, non sto parlando di ere geologiche indietro, sta succedendo tuttora.
Nei passati Playoffs sta viaggiando a 26.1 punti, 5.7 rimbalzi e 7.1 assist di media, quasi tutti massimi in carriera (solo nel 2020 ha fatto poco meglio a livello di punti). I 32.5 punti tenuti contro i Lakers nello sweep rifilato ai losangelini sono il suo picco più alto, oltretutto in una finale di Conference al sapor di vendetta. In Gara 2, in un momento delicatissimo per i Nuggets, ha realizzato 23 punti con 4/5 da tre, 6/7 dal campo e due palle rubate. Quel momento delicatissimo era il solo quarto quarto.
E insieme a Jokic ha trascinato i Nuggets alle prime NBA Finals della loro storia. Se ci fosse un premio come Miglior Attore Non Protagonista in NBA, a questo punto sarebbe il suo, perché in una squadra che può contare sul centro serbo è difficile emergere come stella della squadra, eppure lui a tratti ci è anche riuscito. Ed è perfettamente consapevole di quello che può fare e dare alla squadra, come ha detto recentemente ad Andscape:
Non penso di ricevere la considerazione che dovrei ricevere. Sono migliore di molti giocatori in questa lega. E ogni volta che vedo i ranking penso “E’ una follia”. Forse è perché sono stato fuori per molto tempo. Ma se vinciamo il titolo, cambierà tutto.
Ho sempre creduto in me stesso. Il compito era provare a tutti gli altri che potevo ancora giocare a questo livello. Anche la squadra ha sempre avuto fiducia in me, mi hanno sempre supportato in questo viaggio. Quindi, sono felice che tutto ciò si veda su questo palcoscenico.
David Thompson, Alex English, Carmelo Anthony, Allen Iverson, Dikembe Mutombo: questi sono solo alcuni dei grandi nomi che in passato hanno indossato la maglia della franchigia del Colorado. All-Star, Hall of Famer, vincitori di innumerevoli premi individuali. Eppure nessuno di loro è riuscito a compiere quello che il nuovo, vecchio dinamico duo ha messo in cantiere.
E Roger Murray può sorridere. Lo spirito di perseveranza che ha mostrato suo figlio è il suo più grande riconoscimento come padre. Le ore passate nella neve, i sacrifici fatti – e soprattutto fatti fare al piccolo Jamal – e le giornate passate a schernirlo mentre colpiva il primo ferro, tirando bendato…
Volevo che tutto quello che faceva avesse uno scopo.
Duro, sì. Eccessivo per qualcuno. Eppure Jamal non ha mai parlato male di tutto questo, non ha mai mostrato rimpianti per un allenamento e un allenatore non convenzionale, molto simile al King Richard di Will Smith sotto certi aspetti. Nel raccontare la sua esperienza e il rapporto con suo padre, non c’è mai stato un pizzico di astio o di irriconoscenza. Anzi, il contrario.
E uno scopo Jamal ce l’ha, ce l’ha sempre avuto. Provare ad essere la migliore versione di sé stesso come uomo e giocatore di basket, obiettivo da oggi coronato con un anello al dito e un Larry O’Brien in bacheca. E ci è riuscito pur avendo davanti un performer come Jimmy Butler, un altro che quando legge la parola “Playoffs” si accende immediatamente.
E una cosa è sicura: Jamal Murray ci riproverà, che i Nuggets quest’anno si ripetano oppure no. Perché il dolore, anche quello di una sconfitta, è temporaneo.