Da Tomball, Texas, al sole della Florida: la storia di Jimmy Butler in un rollercoaster tra tanto genio ed eccentricità.

Underdog s. f. e m. Chi, partecipando da sfavorito a una competizione, sportiva o extrasportiva (per es., elezioni politiche), riesce a sovvertire i pronostici. | Persona svantaggiata. | Enciclopedia Treccani

Se oltre alla definizione ci fosse un’immagine, non sarebbe un crimine trovare la foto di Jimmy Butler. Perché di questo si tratta, una persona partita senza nessun favore del pronostico, con pochi appoggi e solo una grande, grandissima forza di volontà.

Qualche tempo fa Sam Quinn, articolista per CBS Sport, ha definito Jimmy un “Underdog leggendario”, e come biasimarlo. Butler non ha ribaltato le carte in tavola una volta, non due, non tre: un’infinità di volte. Non si riesce neanche a trovare il momento preciso in cui da sfavorito è passato a capotavola, ci è arrivato e basta, lo ha reso comune, normale in ogni cosa che fa.


Vedi una delle sue prestazioni ai Playoffs e pensi “ok, questo è il suo massimo”, e pochi giorni dopo vieni smentito. A quel punto pensi “bene, è la sua miglior post-season” e l’anno dopo vieni di nuovo smentito. Non ti resta che accettare il fatto che non c’è limite a quello che il prodotto di Marquette possa fare, sederti e godertelo al suo massimo. Perché Jimmy Butler sovverte pronostici da tutta la vita.

“Non mi piace la tua faccia”

Suona scontato ma comincia tutto in un quartiere malfamato, Tomball per la precisione, piccolo sobborgo di 11.000 abitanti poco lontano da Houston, sua città natale. La storia è nota, ormai: Jimmy Sr e la madre Londa si separano quando Jimmy è ancora un bambino, il padre decide di lavarsene le mani e abbandona la famiglia mentre la madre si ritrova a dover crescere un figlio da sola. Niente di nuovo, purtroppo, direte voi. Storie così si sentono ogni giorno.

Senonché anche Londa si stufa molto presto del piccolo Jimmy e alla veneranda età di 13 anni viene cacciato di casa perché alla madre “non piaceva il suo aspetto”. Potendo contare sull’aiuto di alcuni amici, il ragazzo riesce sempre a mettere un tetto sopra la testa e un pasto caldo in pancia. Anni dopo, parlando di tutto questo, dirà:

Non ho mai vissuto sotto un ponte, quello è essere un senzatetto. Non ho mai chiesto l’elemosina all’angolo della strada. Non fraintendetemi, non voglio dire che sia stato un periodo facile, ma avevo una casa. O case.

Non c’è mistificazione, non c’è esaltazione del superamento di un’infanzia difficile. È quel che è. E ho portato questo esempio non per cominciare una lunga e noiosa biografia romanzata, ma per dare un contesto a quello che è il personaggio sfaccettato di Jimmy Butler.

Tutto questo non lo segna in maniera evidente e, alle volte, dirompente com’è per altre stelle. Il carattere è sicuramente duro, qualche volta anche sopra le righe, ma rimane comunque nei limiti del consentito perché non ha bisogno di strafare per mettersi in mostra o “stuzzicare gli orsi” per darsi un tono (a differenza di alcuni stimati colleghi – vero, Dillon?).

Il suo modo di essere gli fa ritagliare un dignitoso spazio a Marquette University, alma mater di Dwyane Wade; dignitoso al punto da ottenere una chiamata in NBA al Draft 2011 da parte dei Chicago Bulls: non alta, la trentesima, ma per un underdog non è niente di nuovo non essere tenuto in grande considerazione.

Most Improved Bucket

Inizio sfavillante nella lega più bella del mondo, squadra sulle spalle, premi a fiotti e tanta fiducia da parte di tutti. Questo è quello che aspetta le prime scelte solitamente. Ma Jimmy non è una prima scelta e tutto questo non lo vede neanche per sbaglio.

I primi due anni passano dovendo sudare per un posto da titolare: scampoli di partita con statistiche decisamente non memorabili a referto in regular season ma molto più convincenti ai Playoffs. In tutto questo tanto cuore, tanta grinta, tanta cattiveria agonistica, di quelle che piacciono a Thibodeau, allora allenatore a Wind City. I Bulls sono indiscutibilmente in mano a Derrick Rose, fresco del premio di MVP, il più giovane della storia, e Jimmy si mette al servizio della squadra come meglio può.

La mano del destino arriva però sotto una delle forme più crudeli: in Gara 1 dei Playoffs 2012, Rose subisce l’arcinota rottura del legamento crociato, concludendo anzitempo non solo la partita ma anche l’annata successiva, non tornando mai più il giocatore splendido visto fino ad allora. Ma questa è un’altra storia…

Thibs a questo punto non può fare altro che affidarsi al resto della squadra e alla verve difensiva del ragazzo di Tomball. L’attacco non è ancora al cento percento il suo pane, nonostante sia un giocatore più che dignitoso e quindi vira su quello che è sempre stato il suo punto di forza: cercare di ottenere il massimo spingendosi oltre l’ostacolo, a tutti i costi. Strappare con le unghie e con i denti quello che serve per ottenere il risultato. In questo caso, si tratta della palla a spicchi.

L’inserimento nell’All-Defensive Team 2014 è solo il primo riconoscimento di questo carattere indomito. La stagione successiva lo vede portarsi a casa la statuetta di Most Improved Player, forte di prestazioni decisamente sopra le sue medie sia in stagione regolare che, di nuovo, ai Playoffs. Perché è lì che viene fuori il vero Jimmy. “Jimmy Buckets“, come viene chiamato. Il primo alter ego di quello che, in questi giorni, viene etichettato con un altro nome.

Sì, nel mezzo ci sono anche delle convocazioni alla Gara delle Stelle, ma l’All-Star Game non è di nessun interesse per lui: lo si vede nei gesti, nel linguaggio del corpo che sembra quasi dire “sì ok, facciamo in fretta e togliamoci il dente”. Non c’è niente da ottenere lì, non c’è niente per cui valga la pena lottare.

Tutti questi riconoscimenti non valgono poco. A fine anno arriva un sontuoso contratto per lui, che a questo punto si sente tranquillo nell’investire in un terreno di milleduecento metri quadri, con villa a nove stanze, quattordici bagni, piscina e giardino esotico: bella vita per uno partito dal nulla, indubbiamente. Ma Jimmy non dimentica da dove viene, non dimentica chi lo ha accompagnato e sostenuto in questo percorso. A vivere con lui ci sono Jermaine e Ifeanyi, due amici di lunghissima data, “fratelli” come li presenta lui. Parlando di quanto ottenuto include sempre loro, usando il “noi”, mai “io”. Quando parla dei suoi successi in campo non parla di talento innato, di percorso scritto da Dio o altri cliché. Di nuovo, non c’è mistificazione.

Non starò qui a dire che sapevo che avrei segnato più di venti punti di media in una lega competitiva come questa, era una cosa che non mi riusciva dai tempi del liceo per la verità. Non avevo idea che ci sarei riuscito. Cerco solo di giocare a basket e aiutare i compagni. Adesso se guardo a tutto questo penso solo “wow”.

E come un ragazzino, se la gode. La villa, le amicizie famose (Mark Wahlberg e Neymar, per dirne un paio), finché si tratta di divertirsi fuori dal parquet Jimmy non si fa davvero mancare nulla. Poi però si torna in campo.

“Quanto mi paghi?”

Con un’idea ben precisa, ossia associare un tre volte All-Star, All-Defensive e All-NBA a due giovani promettenti come Towns e Wiggins, i Minnesota Timberwolves decidono di tentare l’assalto ai Playoffs firmando il nostro Jimmy a 18 milioni, riunendolo con Thibodeau, da poco alla guida della squadra. L’esperimento riesce fino ad un certo punto. La franchigia di Minneapolis raggiunge effettivamente il primo turno in post-season dopo tredici anni di assenza, ma qualcosa all’interno dello spogliatoio si spacca. E volente o nolente, al centro di tutto c’è sempre Jimmy Buckets.

Facciamo ordine: arrivata l’estate si ricomincia la discussione dei contratti e i T-Wolves sembrano intenzionati ad investire ingenti somme sui suoi giovani pupilli. Non solo per una questione di soldi ma anche di atteggiamento, tutto questo a Jimmy non va giù per niente. I 110 milioni offerti dalla dirigenza (non certo bruscolini) non sono sufficienti per placare le ire di Butler, convinto di meritare ben più di quella cifra e, neanche troppo tra le righe, ben più di Towns e Wiggins, rei di scarsa professionalità e svogliatezza.

Per dimostrare tutto il suo disappunto – testimonianza di Jeff Teague, allora in forza a Minnie – Jimmy strappa il nome dalla divisa della squadra e affronta i titolari in un allenamento divenuto materia di leggenda. Umiliati i suoi compagni di squadra, sia verbalmente che sul campo (Teague giura di aver sentito un “Guarda quanto fanno schifo, avete bisogno di me” urlato a Thibs e al GM Layden), Butler abbandona la sessione a metà, raggiunge Rachel Nichols e si sfoga ai suoi microfoni sparando a zero su colleghi e dirigenza. Inutile dire che il rinnovo non arriva e dopo dieci partite della stagione Jimmy porta i suoi talenti a Philadelphia per costruire un superteam insieme a Embiid, Simmons e Tobias Harris.

Anche qui, nonostante il talento smisurato della squadra, Jimmy trova una situazione non ideale per lui: è il terzo violino di lusso sulla carta, ma è costretto nuovamente a cucirsi addosso la veste di leader emotivo vista la carenza di autorità dei padroni di casa, Embiid e Simmons. In più di un’occasione si carica la squadra sulle spalle con tiri pesanti, giocate difensive e strigliate ai compagni a tutto volume.

Ma anche qui il suo massimo non basta. Le velleità dei Sixers si spengono sul leggendario buzzer beater di Kawhi Leonard in Gara 7 delle semifinali di Conference, e Jimmy Buckets è di nuovo free agent in estate. E anche in questo caso, non le manda a dire. In una chiacchierata con JJ Redick, suo compagno a Phila, esprime piuttosto veementemente la sua opinione sulla situazione nella Città dell’Amore Fraterno (o quasi):

Non sapevo chi cazzo fosse al comando, questo è stato il mio problema. Non sapevo mai che cazzo aspettarmi ogni volta che entravo in palestra, in aereo, in partita. Pensavo solo “merda, sono confuso tanto quanto i miei compagni”. Ai Playoffs hanno tolto la palla dalle mani di Ben che era stato il playmaker tutto l’anno, che senso ha?

Nonostante l’ottimo rapporto con Embiid, Butler non viene confermato dalla dirigenza e torna quindi a testare il mercato da free agent. E a recapitargli l’offerta che aspettava, per fare di lui l’uomo giusto nel posto giusto al momento giusto, ci pensa Pat Riley.

Il cacciatore di giganti

Se c’è una cosa che si può dire di Riley è che di campioni per le mani ne ha avuti a profusione: dai Lakers dello Showtime agli Heat del 2006, fino ai Big Three di Miami con LeBron, Wade e Bosh. Pat Riley ha fiuto per il talento ed è una presenza nel gioco da tempo immemore, due qualità che per un GM sono tutto fuorché trascurabili.

Ed è per questo che, per dare un tono alla squadra, Riley decide di puntare su Jimmy. Stavolta non è il Robin di turno, o un terzo violino di lusso: la squadra è sua, è il leader designato, è nel ruolo che più gli si addice. I Miami Heat non contano su un roster di nomi altisonanti e stelle, ma a Butler va benissimo così. Sono degli underdog esattamente come lui. E lui si sente a casa. Non c’è nessun favore del pronostico quando si entra nella stagione 2019/20, eppure…

La stagione è lunga, difficile, mentalmente drenante per via di tutto quello che consegue lo scoppio della pandemia. La bubble di Orlando è la soluzione in extremis per permettere l’incoronazione di una squadra, e Miami ci arriva al quinto posto.

Jimmy non riesce ad essere banale in nessun contesto, anche con il mondo bloccato in uno dei suoi momenti peggiori e la squadra in un mare di incertezze. Nel parco di Disney World, con tutti i giocatori lontani da alcune comodità, decide di aprire il suo banchetto di caffè alla modica cifra di 20 dollari a tazza, indipendentemente dalla misura e quantità.

Non è inusuale che qualcuno dei multimilionari chiusi nella bolla si presenti a pagare al banco del Big Face Coffee con banconote da 100, al punto che Jimmy comincia a non dare nemmeno il resto. “Mi spiace, non ho contanti, hai appena pagato 100 dollari per un caffè”. Quello che sembrava un innocuo – se non per le tasche dei giocatori – passatempo diventa poi un brand internazionale che Butler cura nel suo tempo libero. Ma in tutto questo, c’è della pallacanestro da giocare.

Gli Heat spazzano via Indiana al primo turno con un secco 4-0, eliminano gli strafavoriti Bucks con un 4-1 e si mettono Boston alle spalle in sei partite per raggiungere delle quantomai sorprendenti NBA Finals. Sorprendenti per quasi tutti tranne che per Pat Riley, seduto comodamente in tribuna a sghignazzare sotto la mascherina chirurgica.

E Jimmy Butler alza l’asticella. Per se stesso, per i compagni, per tutta la squadra. 40 punti in Gara 1 contro Milwaukee, 19 di media con 6 rimbalzi e 4 assist contro i Celtics, favoriti sulla franchigia della Florida. Si arriva in finale e ad attenderlo trova LeBron James, Anthony Davis e i Lakers dati per vincenti senza troppo diritto di replica, ma anche qui J-Buckets non ci sta, non si arrende, non vuole che essere lo sfavorito lo penalizzi un’altra volta.

Le prime due sfide sono a senso unico, gli Heat perdono anche Adebayo e Dragic, fino ad allora fidi scudieri del nostro eroe, ma lui rimane comunque sempre l’ultimo ad alzare bandiera bianca. In Gara 3, sotto 2-0 e con le rotazioni decimate, arriva il primo colpo di reni: 40 punti, 11 rimbalzi e 13 assist con il 70% al tiro. 2-1, Miami è ancora viva, Butler più che mai. I Lakers però passano sul 3-1 e si vedono già l’anello al dito; nessuno infatti in questi Playoffs è mai riuscito a batterli due volte.

Jimmy ha altre idee: Gara 5 è un altro clinic e un’altra tripla-doppia da 35 punti, 12 rimbalzi e 11 assist, a cui unisce anche 5 palle rubate. Dà veramente tutto quello che può per non perdere ed emblematica resterà sempre la sua foto, esausto e appoggiato al parapetto di fondocampo, a pochi secondi dalla fine mentre sta ribaltando il risultato con uno sforzo titanico:

Jimmy Butler alle Finals NBA
FOTO: NBA

Butler trascina gli Heat oltre l’ostacolo, ma non basta: i Lakers sono troppo forti, troppo completi, in missione per riportare il titolo a Los Angeles. La serie si chiude in sei garem ma Jimmy dimostra una cosa a tutta la NBA: anche il più grande e forte dei giganti può sanguinare.

Playoff Jimmy

Si sente spesso parlare di “Playoff Jimmy” e, dopo la prestazione-monstre in Gara 4 contro i malcapitati Milwaukee Bucks (sì, ancora), lui stesso ha commentato così:

Playoff Jimmy non esiste, non è una cosa reale. Gioco semplicemente a pallacanestro. Non c’è stato un momento in cui ho pensato “questa sarà una serata speciale”. Gioco a pallacanestro, rimango aggressivo e prendo i tiri che la difesa mi dà, e oggi molti sono entrati. Amo l’aspetto competitivo dei Playoffs, è dove i migliori giocatori si mettono in mostra, e io voglio essere visto come uno di quelli.

Ma perché Playoff Jimmy? Perché Gara 4 non è un caso isolato, anzi.

Ho già parlato dei Playoffs 2020, ma quelli dello scorso anno non sono stati da meno: Butler ha ancora trascinato gli Heat in Finale di Conference a più di 25 punti di media, con 41 per aprire le danze in Gara 1 e 47 per portare la serie contro i Celtics a Gara 7. Tutto questo dopo aver annichilito Atlanta al primo turno e poi indicato la porta d’uscita ai Sixers (27.5 punti contro la sua ex squadra).

Lo scorso anno il suo esordio in pre-season è stato presentarsi con dei fantasiosi dreadlock e un look completamente nuovo. Il motivo? “Adesso che mi hanno fotografato così, questo look ridicolo rimarrà per tutta la stagione nelle grafiche e nelle schermate”.

Perché finché la palla non pesa, non c’è bisogno della miglior versione di Butler. Non c’è bisogno di Jimmy Buckets, non c’è bisogno di Playoff Jimmy. Miami ne ha richiesto i servigi a pieno regime per il finale di stagione, finale che tra l’altro rischiava di vedere gli Heat fuori dalla contesa per i Playoffs. Ma che post-season sarebbe, senza uno dei suoi migliori interpreti? 31 punti per Butler nella partita del Play-In e biglietto strappato per un soffio, come ottava. Ad attenderli, ci sono ancora i Milwaukee Bucks, miglior squadra della Eastern Conference.

Ora, immaginate di essere i Bucks, forti del primato e con tutte le carte in regola per arrivare fino in fondo anche abbastanza agevolmente. Come vi sentireste se tutti gli sforzi fatti venissero vanificati dall’ultima della classe? Ci sono state tante risposte a questa domanda dopo che Miami ha messo negli annali uno degli upset più sorprendenti degli ultimi anni, battendo la franchigia del Wisconsin 4-1. La parola che mi viene in mente in risposta a questa domanda è: impotenza. Ed è così che sono apparsi i Bucks nelle ultime cinque partite della loro stagione: totalmente impotenti.

Nelle quattro vittorie degli Heat, Playoff Jimmy ha realizzato 35, 30, 56 e 42 punti. Come lo fermi? Non puoi. Cosa puoi fare effettivamente? Quello che facciamo noi spettatori da casa: ti siedi e lo guardi. Da avversario speri che passi in fretta il momento in cui dovrai affrontarlo o che quel momento non arrivi neanche.

E anche qui, vi prego di credermi, non c’è la costruzione di un mito che non esiste. Semplicemente Jimmy Butler esce al suo massimo quando il momento è carico di significato, quando la palla scotta. Si rimbocca le maniche e va al lavoro. Non c’è bisogno di fanfare ed esaltazioni, perché per lui non è effettivamente niente di che. Sa che può farlo e soprattutto sa che è suo compito.

E nel mentre fa la storia: i 35+5+5+5 con cui ha sporcato tutte le stats in Gara 1 lo collocano insieme a Jordan e Iverson come record ai Playoffs. I 56 punti di Gara 4 sono il record di franchigia per gli Heat, una squadra che ha visto passare LeBron James, Dwyane Wade, Shaquille O’Neal e altri grandi del passato. A Miami sapevano già, Riley sapeva già. Il resto del mondo forse aveva ancora qualche dubbio, ma ci ha pensato Jimmy a fugarli.

Se ne sono accorti anche i Knicks, al secondo turno, nonostante una resistenza ben più strenua delle aspettative. Il duello con Jalen Brunson e Julius Randle però si è risolto ancora una volta in favore della compagine di Spoelstra. E chiudo, per riportarci nel presente, con i Boston Celtics, freschi di qualificazione dopo sette partite contro i Sixers.

Potrei dirvi di nuovo per chi è il favore del pronostico, ma se avete prestato attenzione a quanto ho scritto finora posso anche risparmiarvelo. Quello che vi dico, e che probabilmente sapete già, è che Jimmy li ha accolti a braccia aperte nella loro stessa casa del TD Garden: 35 punti, 5 rimbalzi, 7 assist, 6 palle rubate: avete presente quel record che ho menzionato prima? Ecco, lui l’ha replicato in due serie diverse.

In Gara 2, Miami si è trovata ad inseguire in una partita che Boston sembrava avere in controllo. Grant Williams comincia un trash talking con Jimmy che lo guarda appena, sorridendo. Nel possesso successivo Butler realizza un and-one dritto in faccia al giocatore dei Celtics e i due finiscono testa contro testa. La gara si accende, gli Heat si accendono, Jimmy si accende. Grant ancora non lo sa, ma è già finita.

Il tabellino finale di Jimmy recita 27 punti, 8 rimbalzi, 7 assist e 3 palle rubate. Quattro canestri consecutivi per riportare Miami sopra la linea di galleggiamento e per strappare un’altra vittoria, e di conseguenza il fattore campo, ai Celtics.

Ha segnato un tiro importante e ha cominciato a parlarmi. A me piace molto questa cosa, mi carica, mi fa pensare a cosa devo fare per vincere. Mi fa anche sorridere. Se le persone cominciano a provocarmi va bene, sono un giocatore decente e se scegli proprio me per parlare… Rispetto molto Grant, è una parte importante di quello che sta costruendo Boston, ma non credo di essere la persona giusta da provocare.

Perché non c’è veramente limite a quello che può fare Jimmy Butler, non c’è una sfida che non sia pronto a raccogliere. Non c’è pressione che lo possa schiacciare, non c’è fatica che lo possa fermare, non c’è trash talker che gli possa entrare nella testa. C’è solo il prossimo gigante da cacciare.