La storia d’origine di un supereroe dentro e fuori dal campo: Dwyane Wade è Flash, e vogliamo celebrarlo così su AtG

FOTO: NICOLA ALBANESE

Nell’immaginario comune sono sempre Batman e Superman gli eroi senza macchia e senza paura che risolvono la situazione. Ognuno con le sue peculiarità, ognuno con la sua caratterizzazione, ma comunque sempre gli indiscussi protagonisti. I top player, potremmo dire in termini sportivi. Chi invece ha una conoscenza più intima del mondo dei fumetti sa che molto spesso i più grandi cambi di scenario avvengono grazie ad un altro nome, altrettanto conosciuto ma probabilmente meno considerato rispetto ai suoi illustri fratelli maggiori: Flash.

Ora, di base il suo dono è estremamente semplice. Corre, corre, corre più veloce della luce. Quando si entra nel complesso però questo potere lo porta a piegare le leggi del tempo e a poter cambiare il corso degli eventi. Questo reset, questa tabula rasa, nei fumetti viene chiamato Flashpoint.

Cosa c’entra tutto questo con Dwyane Wade? Quando Shaquille O’Neal gli ha dato il soprannome che lo ha accompagnato per tutta la carriera, ha pensato soltanto alla sua velocità di pensiero e azione probabilmente, non sapendo che i due personaggi sono molto più legati di quanto ci si possa aspettare. Perché nella vita di Wade ci sono stati parecchi momenti che hanno cambiato il corso della storia, la sua storia. Ma come per ogni supereroe che si rispetti, parte tutto da una storia d’origine.


Chicago, 1990

Sono passati otto anni da quando Jolinda e Dwyane Sr si sono separati, otto anni dalla nascita di Dwyane Tyrone Jr.

Jolinda non regge la pressione di essere una madre single e l’ambiente di South Side Chicago le offre la più facile delle soluzioni. Non sono poche le notti in cui Dwyane aspetta con l’orecchio teso a cogliere il minimo rumore, il segno che la mamma è tornata a casa dopo aver vagato chissà dove in cerca di una dose.

Qualche notte l’ho passata sul portico, sperando di vederla girare l’angolo e tornare a casa. Appoggiavo la testa alla finestra per sentire il suono della sua voce o uscivo fuori dalla porta per vederla coi miei occhi.

In casa tutti sanno quello che sta succedendo. Perfino i figli sono testimoni costanti del passaggio di spacciatori che vengono a portare il sollievo momentaneo sotto forma di eroina, cocaina e alcol. Non passa molto tempo prima che i poliziotti irrompano nella casa, puntando una pistola alla testa di Dwyane, ancora troppo piccolo per poter capire cosa stia effettivamente succedendo.

Per sua sorella Tragil, questo è troppo. Con la scusa di portarlo al cinema lo allontana definitivamente dalla madre, accompagnandolo sulla soglia di Dwyane Sr. É il primo Flashpoint.

Passano pochi anni e Jolinda viene arrestata per possesso di crack con intenzione di spaccio; da lì in poi è l’inizio di un dentro-fuori dal sistema giudiziario, non si riesce a trovare una soluzione, ogni volta che esce di prigione passa il suo tempo a vagabondare per le strade in cerca di droga.

E intanto Dwyane cresce, ormai consapevole di quello che sta succedendo a sua madre, ma protetto il più possibile dalla figura paterna che lo invoglia a lanciarsi nello sport. Ha solo l’imbarazzo della scelta, viste le sue doti. È veloce, molto veloce. Sul campo da football è quasi imprendibile, potrebbe tranquillamente fare il Wide Receiver ad alti livelli, ma dopo aver accarezzato il cuoio della palla da basket per la prima volta il suo destino è segnato. Nasce Dwyane Wade, giocatore di basket.

Il miracolo

Parlare di Wade come prospetto universitario è facile, le statistiche sono alla portata di tutti. Nei due anni a Marquette University coi Golden Eagles ha tenuto quasi 20 punti, 7 rimbalzi e 4 assist di media, classificandosi come uno dei migliori giovani in odore di NBA. Ma non è sul campo che sono arrivate le sue più grandi soddisfazioni del periodo.

Ricordo ancora il suo sguardo mentre mi portavano via o quando venivano a trovarmi in prigione. Sembrava chiedersi: “Perché la mamma è lì?”. Non capiva il perché io fossi dall’altra parte del vetro, e non potevo che essere arrabbiata con me stessa.

Finalmente, dopo lunghi anni passati a lottare contro il demone della dipendenza, Jolinda trova la sua strada nella chiesa dell’istituto correzionale. Pochi mesi dopo viene rilasciata per l’ultima volta, giusto in tempo per vedere suo figlio brillare coi colori giallo-blu dell’università del Wisconsin. I Golden Eagles raggiungono le Final Four NCAA, e lei è lì per vederle.

Non tutte le storie però, sono perfette. Il sogno di Marquette si infrange ad un passo dalla vittoria finale, ma va bene così. Per Dwyane è solo un ulteriore stimolo a non mollare, così come non ha mai perso le speranze verso sua madre.

Tutti pensano che sia io il miracolo nella mia famiglia. Per me lei lo è”.

The Theater, Madison Square Garden, 26 giugno 2003

Ho parlato di come cambiano gli eventi e il loro corso. Alle volte questi cambiamenti dipendono da noi, altre volte dipendono da altri. Ci si chiede spesso cosa sarebbe successo se una scelta al Draft fosse uscita prima o dopo nel più proverbiale dei “What If”, ma nel caso di Wade mi piace pensare che sia stato il fato. Un Flashpoint del destino.

Chi sia la prima scelta del 2003 lo sanno anche i sassi, se devo davvero specificarlo forse avete sbagliato sport. LeBron James? Suona qualcosa? Ok, potrei capire molto di più la reazione per la seconda scelta dei Detroit Pistons, Darko Milicic. Soprattutto vedendo chi è stato scartato per prendere lui: Carmelo Anthony, Chris Bosh e, come quinta scelta, Wade.

È Pat Riley l’uomo che vede in lui quel qualcosa in più, e Pat di talento per le mani e sotto gli occhi ne ha avuto parecchio avendo allenato i Lakers dello Showtime, i Knicks di Ewing e Starks, e avendo vinto un titolo NBA da giocatore con Jerry West e Wilt Chamberlain.

Badate bene, se Miami è lì a poter scegliere così in alto c’è un motivo: in Florida non si vedono i Playoffs da due anni, passati abbondantemente sotto il cinquanta percento di vittorie. Niente di anomalo se si pensa che solo sei stagioni sulle tredici giocate dalla loro nascita sono riusciti a salire sopra, alle volte giusto per un paio di partite. E quindi Dwyane sale sul palco, stringe la mano a David Stern e indossa il cappellino dei Miami Heat. Nessuno in quel momento si rende conto di quanto la scelta di Riley influenzerà il corso del basket da lì ai prossimi dieci anni.

LeBron è Rookie of the Year a fine anno, Melo, Bosh e Wade gli uomini franchigia. Ma per gli Heat non è abbastanza ricostruire, si vuole puntare al titolo e lo si vuole fare in fretta, per salvare le sorti della franchigia. E quando si vuole salvare qualcuno, chi chiamiamo se non Superman?

Superman

Estate 2004. I Lakers vengono da una bruciante sconfitta in finale contro i Pistons, Kobe Bryant e Shaquille O’Neal sono ai ferri corti, mettendo i giallo-viola sotto scacco: non si può andare avanti con entrambi e quindi è necessario fare una scelta. Ad essere sacrificato è Big Diesel, Shaq, che trova in Riley un estimatore. Poche mosse e O’Neal è il nuovo centro titolare degli Heat.

Un bello show con un camion a diciotto ruote, pistole d’acqua e la promessa di portare il titolo in Florida, e Shaq comincia la sua esperienza al fianco della stellina della squadra.

Mi ricorda quei film di supereroi in cui il ragazzino cresce e comincia a fare strane cose, non sapendo da dove arrivino quei poteri fino a quando non incontra una potente figura che gli dice “Ehi! Sei come me!”. Gli ho visto rubare una palla e schizzare a canestro alla velocità della luce, mi sono detto “Il ragazzo sembra Flash!” e din don, il nome ha preso piede.

Adesso però è il momento di mantenere le promesse e vedere quanto la coppia di supereroi possa andare fino in fondo. Il primo anno insieme è ottimo ma non abbastanza da mettere l’ennesimo anello al dito di Shaq e Riley, e il primo al dito del nostro protagonista. Il secondo è tutta un’altra storia.

Secondi nella Eastern Conference, gli Heat si fanno largo tra Bulls, Nets e Pistons per raggiungere in finale i Dallas Mavericks di Dirk Nowitzki. Servono sei partite per superare l’ostacolo e l’ultima sequenza è di una follia che solo le NBA Finals sanno regalare.

A pochi secondi dalla fine di Gara 6, Wade è in lunetta e sbaglia tutti e due i tiri liberi. Chissà cosa sarà passato nella sua testa in quella frazione infinitesimale. Tutta la fatica, tutte le difficoltà che ha dovuto superare nel corso della sua vita, magari. Quanto puoi essere forte col tuo trascorso alle spalle sapendo che probabilmente non ci può essere più niente di peggio? Anche essendo uno che non molla mai, che non si arrende, un minimo cedimento può essere concesso in un momento del genere.

FOTO: HOT HOOPS

Haslem prende il rimbalzo e gli viene fischiata una generosa infrazione di passi, che concede a Dallas l’ultimo tiro. Jason Terry, The Jet, prende la palla dalla rimessa, si alza, tira… e sbaglia. La palla finisce nelle mani di Dwyane che la scaglia in aria e salta dalla gioia. Un effetto sicuramente diverso rispetto al dover tornare a casa a rimuginare su due tiri liberi sbagliati.

Non importa. Miami è sul tetto dell’NBA, Riley e Shaq hanno un altro anello da aggiungere alla collezione. E per Wade? Il primo anello, il primo premio di Finals MVP. Tra tutti i prospetti fenomenali del 2003, lui è stato il primo a raggiungere questo traguardo. Il primo o, possiamo dirlo, il più veloce.

Da Flash a Robin

Avanti veloce, perdonate il gioco di parole, all’estate del 2010. È la free agency più chiacchierata di sempre, probabilmente perché tra tutti i giocatori in scadenza di contratto ce n’è uno che spicca sugli altri. Sempre lui, sempre LeBron.

Ne hanno parlato, ne hanno discusso, si sono cercate soluzioni per giocare insieme. Avevano valutato Chicago, soluzione gradita a Dwyane per un ritorno a casa (e la presenza di Rose all’apice della forma), ma alla fine casa è dove è il cuore. E il cuore è a Miami.

Su tutti gli schermi americani, ESPN proietta LBJ e la famosa “Decision”.

Uno spettacolo, vero Dwyane? Giocare insieme ad un amico, anzi due visto l’arrivo di Chris Bosh. Giocare insieme a quello che passerà alla storia come uno dei più grandi di sempre. Uno spettacolo, sì, però…

Però un pensiero nasce spontaneo, com’è normale, probabilmente solo per un attimo: sarai un secondo violino, gli Heat non saranno più la “tua” squadra, ma la squadra di D-Wade e LBJ. E non ti illudere, non sarai tu la prima soluzione, non avrai questo privilegio nonostante tu abbia già portato un titolo. Quando giochi con il migliore, tu passi in secondo piano. Fugacemente, velocemente, ma un minimo ci avrai pensato. E dopo tutto quello che hai passato per arrivare in cima, nessuno ti può biasimare.

Ma tu sei migliore di così proprio perché sai cosa voglia dire sacrificarsi per un bene superiore. D’altronde non è stato proprio il pensiero di vederti andare via che ha aiutato tua madre a risollevarsi? Volente o nolente hai scatenato una reazione che ha portato la donna più importante della tua vita a rimettersi in carreggiata. Sicuramente più importante che fare da secondo in una città che già ti ama alla follia. Ci possono essere cose ben peggiori. Anche perché gli Heat dei Big Three vincono. Eccome se vincono.

LeBron è indubbiamente la stella ma gli altri non sono meno importanti, in un sistema che in quattro anni domina la Eastern Conference e la lega in generale. Quattro apparizioni alle Finals, due titoli. Un bottino meno ricco di quanto ci si sarebbe aspettato forse, ma non per questo meno rilevante.

Sono tre anelli per Flash. Tre come il suo numero di maglia, non scelto a caso. Da devoto cristiano, per lui rappresenta la Trinità, ma il destino ha voluto riproporre quel numero più e più volte nella sua carriera. Porta Marquette alle Final Four nel 2003 con una tripla doppia, draftato nel 2003, vince il suo primo titolo al suo terzo anno e alla fine ne metterà in bacheca altri due per arrivare, come detto, a tre.

Alla fine del breve ciclo però si torna al punto di partenza, come prevede il Flashpoint. Si torna indietro nel tempo: LeBron torna a Cleveland, Dwyane torna ad essere il leader assoluto della squadra. Ma non per molto.

Sweet Home Chicago

L’estate del 2016 non porta bei ricordi a nessuno in Florida probabilmente: il 15 luglio Wade firma un contratto con i Chicago Bulls. Perché? Questa è la versione ufficiale del nostro eroe:

Non avrei avuto una carriera completa, se non avessi giocato almeno una volta a Chicago. Si è presentata l’opportunità e ho voluto coglierla al volo.

La verità? Il contratto offerto da Pat Riley non era neanche lontanamente vicino al valore del giocatore. Dwyane però è nella fase calante del suo ciclo, cominciano ad arrivare gli acciacchi, gli infortuni aumentano e Riley decide di puntare verso una nuova direzione.

All’apparenza sono tutti contenti: gli Heat possono ricostruire, Wade è tornato a casa. Ma i sorrisi sono di circostanza. Cosa vuol dire casa in questa situazione? Il posto dove hai probabilmente i ricordi peggiori della tua vita? Va bene, le cose ora sono migliorate, ma il passato non cambia.

E i Bulls? C’è Jimmy Butler, leader vocale, Most Improved Player, giocatore all-around (scherzo del destino, adesso in forza ai Miami Heat); c’è Rajon Rondo, campione NBA e uno dei migliori passatori della lega. Ma non è abbastanza. Anche qui si accumulano gli infortuni, non c’è sintonia, non c’è chimica di squadra. La parentesi è ai limiti del disastroso e dura solo un anno.

Casa è dove è il cuore, e il cuore di Wade non è a Chicago.

Famiglia

Parlando del cuore di Dwyane, prima di tornare al basket, devo soffermarmi un attimo sulla sua famiglia. Ho già parlato dei genitori. Ho già parlato della sorella Tragil, ma c’è anche un’altra sorella, Deanna.

Deanna ha un figlio, Dahveon, ma non riesce ancora a provvedere a lui. Wade diventa il suo tutore legale per tenere la famiglia unita. Non basta a definire l’influenza della sua vecchia vita su di lui? Errore mio, rimedio subito.

Non sorprende che un’infanzia del genere abbia portato a una vita privata non convenzionale. Wade si sposa nel 2002 con la fidanzata del liceo, in un quadretto tipicamente americano; il suo primo figlio, Zaire, è lì con lui al Draft 2003.

Nel 2007 arriva Zion. Qualche anno dopo, nel 2020, farà coming out come ragazza transgender, identificandosi pienamente con pronomi femminili e cambiando legalmente il nome in Zaya. Per molti è una sorpresa, per Dwyane un orgoglio. Per un padre vedere la propria figlia prendere in mano la sua vita così giovane, così decisa, dev’essere stato un momento stupendo:

Amiamo e accettiamo i nostri figli, non c’è niente di rivoluzionario. Per alcuni tutto questo è folle ma io non posso che ammirare il suo coraggio. Io, un adulto, ci ho messo anni solo per dire al cuoco che non mi piaceva il condimento dell’hamburger, mia figlia invece a otto anni ha avuto talmente fiducia da poter dire: “Ok, questa sono io, questo è quello che voglio essere.”

Per Flash non c’è niente di sorprendente, com’è giusto che sia. Per un buon genitore non c’è niente di più importante che supportare i figli, una lezione che lui stesso ha imparato duramente e che ha messo in pratica ogni giorno della sua vita da padre.

Non tutti i matrimoni sono fatti per durare e lui lo sa meglio di tutti: poco dopo l’arrivo della secondogenita, divorzia ottenendo la piena custodia di Zaire e Zaya. Nel 2008 incontra Gabrielle Union, da cui si allontana nel 2013 per un periodo. In quel lasso di tempo però frequenta un’altra donna da cui ha un altro figlio, Xavier. Qui, per un momento, tornano gli spettri: Wade è combattuto, vuole provvedere al bambino ma non sa come dirlo a Gabrielle. È molto più facile prendere un tiro decisivo in una Gara 7 che stravolgere completamente la vita di una famiglia ma, come un grande giocatore si prende la responsabilità di quel tiro, non si tira indietro.

Ancora una volta il destino gli sorride: Dwyane e Gabrielle tornano insieme, si sposano e accolgono nel 2018 la piccola Kaavia. Perché non c’è nulla che valga più di una famiglia che rimane insieme nelle difficoltà. Gli errori dei genitori ricadono sui figli troppo spesso, ma per fortuna alcuni figli ne fanno tesoro e ribaltano completamente la situazione per far sì che nessun altro debba passare quello che hanno passato loro. Anche questo è un traguardo per Dwyane, ben più importante di anelli, trofei e statuette.

In questa favola c’è un lieto fine, insomma. Ma sul campo?

Flashpoint

Alle volte ci vuole, purtroppo, un fatto tragico per poter risanare i rapporti. Nel caso di Wade e Riley, si tratta della scomparsa dell’agente di Dwyane, un amico che lo ha accompagnato per tutta la sua carriera e gli è stato vicino in tutte le situazioni dentro e fuori dal parquet.

Al suo funerale i due tornano a parlarsi, mettono da parte le divergenze e decidono di ripartire insieme. Nel febbraio del 2018, alla trade deadline, i Miami Heat riaccolgono il figliol prodigo: Dwyane Wade veste di nuovo la maglia numero 3, il tempo si riavvolge a qualche anno prima, sembra che nulla sia cambiato.

La stagione non è nulla di entusiasmante per gli Heat, che mancano i Playoffs, ma per Flash è l’ultimo sprint e ogni partita si traduce in un farewell tour in cui ogni squadra gli rende omaggio. Ma non pensate che sia un addio stentato, dalla panchina, con pochi minuti a disposizione giusto per un saluto alla folla.

Dwyane gioca 72 partite e decide di regalare sprazzi del vecchio supereroe che tanto aveva viziato Miami. Il 27 febbraio 2019 l’American Airlines Arena si gode un buzzer beater da cineteca contro i Warriors di Curry e Durant; nell’ultima gara casalinga strapazza i Sixers chiudendo con 30 punti; per la sua ultima partita in assoluto, una sfida contro i Nets, accorrono tutti gli amici storici: LeBron James, Chris Paul, Carmelo Anthony.

Il finale è quasi hollywoodiano: punto dopo punto, assist dopo assist, rimbalzo dopo rimbalzo, Wade mette a referto una tripla-doppia, la prima da dieci stagioni. Gli Heat perdono ma non importa, la standing ovation è d’obbligo, si chiude un ciclo. Un ciclo durato 17 anni.

Move forward

Miami, 22 febbraio 2020. Stai guardando la tua maglia che sale verso l’alto, tua moglie e tuo figlio che tirano le corde che portano il numero 3 insieme ad altri mostri sacri della squadra. Ma non confondiamoci, sei tu la punta di diamante. Hai frantumato record su record di franchigia, portato il primo titolo e poi altri due, hai regalato un finale stupendo a chi ti ha seguito e amato per anni.

Noi pensiamo sempre che la vita di un atleta sia sempre rose e fiori, e tu sei la prova che non è sempre così, che si può partire lenti, rimanere indietro, faticare fuori dal campo. E poi cominci a correre, correre, correre finché non recuperi tutto il tempo perduto, aggiustando tutto quello che è da aggiustare. In pieno spirito fumettistico, salvando chi è in difficoltà. La tua famiglia, ad esempio.

E adesso hai smesso di correre, ti sei fermato, ti sei seduto a riprendere fiato e puoi finalmente guardare cos’hai ottenuto. Tuo padre e tua madre sono lì con te, questo vale più di tutto. I tuoi figli sono con te e, altrettanto importante, tu ci sei sempre per loro. Gabrielle è al tuo fianco nonostante le mille difficoltà.

Certo, ci sono anche un tris di anelli e qualche trofeo. Amici che hai conosciuto durante il tuo percorso nel basket, un altro paio di eroi. E probabilmente ripensi a tutto questo e a tutti loro mentre guardi quella maglia salire.

Il finale. Gli Heat. I titoli. L’emozione al Draft. Marquette. Chicago.

La porta da cui speravi di veder rientrare tua madre e quella di tuo padre, davanti alla quale sei stato lasciato per difenderti da un’infanzia terribile.

Missione compiuta, Dwyane. Sono tutti salvi, la corsa è finita.

FOTO: MIAMI HERALD