Una breve storia di quattro eroi moderni, riusciti a portare lo sfrontato stile di strada sui campi della NBA.

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Negli ultimi vent’anni, i giocatori NBA con una forte impronta da playground sono diminuiti drasticamente. Per impronta da playground non si intende il semplice fatto di aver giocato tanto per strada, anche perché nessun professionista, a nessun livello, in nessuna parte del mondo si è mai privato di questa gioia e questa stimolante possibilità di allenamento gratuito.

La caratteristica principale del basket che si gioca nei campetti a tutte le latitudini è la totale libertà, l’immediatezza e la spontaneità delle partite giocate su quei campi in cemento, che d’estate diventano forni ustionanti e d’inverno piste di pattinaggio.

La strada costringe a distinguersi, a stupire, soprattutto in realtà in cui il basket è capillare e ha la stessa diffusione e popolarità del calcio in Brasile o del cricket in India.


Negli Stati Uniti, l’epica attorno ai playground ha riempito pagine di letteratura ed è stata rappresentata al cinema in tutti i modi, rendendo leggendari luoghi come Rucker Park e The Cage a New York, Venice Beach a L.A., The Dome a Baltimora o il Conrad Playground di New Orleans.

N.Y.C. è senza dubbio la capitale del basket di strada, la città che ha prodotto il maggior numero di talenti, sia tra quelli che non hanno avuto una carriera professionistica sia tra quelli che invece ce l’hanno fatta.Perché per ogni Earl Manigault, Pee Wee Kirkland o Joe Hammond, leggendari big if del gioco rimasti impelagati nel crimine e nella droga, le strade di New York hanno visto nascere gente come Dr. J, Nate “Tiny” Archibald o Kareem Abdul Jabbar.

La differenza chiaramente la fa la disciplina: per le leggende di cui sopra è stato importante scrollarsi di dosso l’apparente patina inconcludente del playground e adattarsi al professionismo, seguendo i sacrosanti diktat di allenatori e tecnici.Però, diciamocelo: anche l’occhio vuole la sua parte, trascurare completamente l’aspetto estetico del basket a scapito della mera efficacia non porterebbe che alla sua rovina.

L’NBA moderna è terreno fertile per lo spettacolo, e lo è da ormai diverso tempo.Ma l’impronta di strada, quella spigolosità e quella libertà del basket che si gioca sui playground di tutto il mondo sta inevitabilmente sfumando.

Cerchiamo di ricordare, dunque, alcuni eroi degli ultimi anni, riusciti a portare la libertà e la fantasia dei loro giorni sui playground direttamente sui parquet NBA, costretti a vivere uno sdoppiamento di personalità tra giocatori educati al servizio della squadra e leggende di strada, che avevano incantato i quartieri delle loro città.

GOD SHAMMGOD 

Innanzitutto, no: God Shammgod non è un nome d’arte, è quello che trovate scritto sulla sua carta d’identità. Secondo, no: non si può parlare di un giocatore dalla carriera folgorante nella Lega, visto che ha messo piede in NBA solo una ventina di volte nella stagione 1997/98 per i Wizards, esclusivamente nel garbage time.

Eppure, se chiedete a diversi campioni NBA, All Star e Hall of Famer chi è il giocatore col miglior ball handling di sempre, la risposta sarà univoca: God Shammgod.

Si forma sui campi della Grande Mela, crescendo tra Brooklyn e Harlem, il Rucker Park sono i suoi giardinetti sotto casa. Fin dalla tenera età è esposto ai consigli di Nate “Tiny” Archibald, che gli ricorda che “finchè saprai trattare il pallone, ci sarà sempre spazio per te in qualche squadra”. È una misteriosa miscela di creatività, reattività e faccia tosta: la natura gli ha donato braccia lunghe che gli permettono di tenere la palla ancorata al terreno, rendendo virtualmente impossibile ai suoi avversari portargliela via.

Al liceo è compagno di Ron Artest, col quale gioca dei pick and roll indimenticabili, in cui spezza raddoppi e caviglie come fossero grissini e lascia andare deliziosi palloni per il futuro signor World Peace, aiutandolo considerevolmente a metterlo sulla mappa degli scout NBA.

Proprio in quegli anni, pare che Jellybean Bryant gli abbia chiesto di aiutare suo figliolo a migliorare il controllo di palla, tanto che il giovane Kobe lavorò duramente proprio sul cercare di abbassare il palleggio.

Riceve una borsa di studio da Providence College, trascinando i Friars fino alle Elite Eight nella stagione 1997, salvo perdere dai futuri campioni di Arizona.La partita però, trasmessa in diretta nazionale e persa solo dopo un tempo supplementare, è l’opportunità per tutto il paese di vederlo all’opera, soprattutto di essere testimoni della sua mossa caratteristica, già sulla bocca di tutti: The Shammgod, appunto.

Si tratta di portare la palla avanti con una mano, quasi scoprendola all’avversario, per poi riprenderla e riportarla verso di sé con l’altra.

I più attenti avranno notato come questo palleggio a frusta fosse già presente nel basket europeo, sorto, ovviamente, nella rigogliosa terra balcanica. Un filmato testimonia come un Petrovic neanche maggiorenne lo avesse già nel suo bagaglio, probabilmente appreso dal compagno di squadra al Cibona Danko “El Killer del Perimetro” Cvjetićanin o da un altro croato di una generazione precedente, Dragan Kicanovic. In tempi più recenti, sempre nel vecchio continente, questo trick ha preso il nome di Bodiroga move o El latigo – la frusta, appunto -, perché mostrata sovente dal grande Dejan.

Fatto sta che al di là dell’Atlantico tutti la conoscono come The Shammgod, entrata nel bagaglio della maggior parte delle point guard NBA: da Lillard a Kyrie, da Westbrook a Chris Paul, a Jamal Crawford, che venera Shammgod come il suo nome suggerirebbe di fare.“Il suo controllo di palla era semplicemente superiore, probabilmente le due mani più incredibili ad aver mai toccato un pallone da basket”.

Il passaggio al piano di sopra, dopo un solo anno di college, risulta, col senno di poi, prematuro: una carriera universitaria più lunga probabilmente gli avrebbe permesso di costruirsi un futuro più roseo, rispetto alle peregrinazioni da missionario del bel gioco tra Cina, Arabia Saudita, Polonia e Croazia.

Ma nonostante la trascurabile carriera NBA, la sua eredità ha attraversato generazioni e in fondo, a pensarci bene, non tutti possono vantare una giocata ribattezzata col proprio nome…

RAFER ALSTON

È il 1998, anno spartiacque del secondo addio di Jordan e del primo lockout NBA.

In quell’estate tumultuosa, diventa virale – ante litteram – un VHS sgranato che raccoglie le migliori giocate del neanche ventenne Rafer Alston, per tutti Skip To My Lou, che mostra le sue abilità al Rucker Park, la Mecca di ogni giocatore di strada d’oltreoceano.

Verso la fine dell’anno successivo, The Skip Tape, poi noto come AND1 Mixtape Volume 1, ha venduto più di 100mila copie.

Per chi non ne fosse colpevolmente a conoscenza, gli AND1 Mixtape erano raccolte in video di partite organizzate nei migliori playground d’America dai migliori streetballer del paese: un carrozzone à la Harlem Globetrotter in salsa hip hop che ha esportato in tutto il mondo – compresa una memorabile tappa, il 7 ottobre 2003, al Palalido di Milano – quello stile di pallacanestro tipico dei playground statunitensi, fatto di perculate, ball handling celestiale, no look pass e schiacciate fantasiose.Tutto nasce dalle mani di Skip To My Lou, point guard nata e cresciuta nel Queens, che ha tormentato i suoi avversari con crossover da ricovero in ortopedia, passaggi dietro la schiena e provocazioni a non finire.Ma al di là del lato istrionico e sfacciato, Alston è riuscito, passo dopo passo, a costruirsi una sontuosa carriera da professionista, per nulla scontata per una tale leggenda di strada come lui.

Dopo diverse peregrinazioni tra Community College, riesce a disputare un anno alla Fresno State, buono abbastanza da ricevere la chiamata dal piano di sopra da parte dei Milwaukee Bucks, che lo scelgono al secondo giro.Dopo un anno nella lega di sviluppo, approda ai Bucks, dove soffrirà tremendamente.Mai titolare, mai decisivo, gioca svogliati scampoli di partita in cui ogni tanto Skip To My Lou torna a fare capolino, perché il richiamo della strada è troppo forte, pur sapendo di non attirare molte simpatie nella Lega.

Negli occhi la frustrazione di chi non può esprimersi del tutto, di chi non si sente al posto giusto, pur dotato di tutto il talento del mondo. Perché il professionismo non può essere divertente come i duelli nei playground di New York.Invece negli anni successivi, Alston riesce a dimostrare a Miami prima, poi Toronto e infine Houston, di poter essere una più che discreta point guard titolare della NBA. E proprio in Texas che vive i migliori anni della carriera, sotto la guida di coach Jeff Van Gundy, noto per aver sempre gestito al meglio giocatori dal carattere difficile.

Tanti, tantissimi i momenti in cui Alston ritorna Skip, sia come basket giocato, sia nell’atteggiamento provocatorio, ma per il bene della sua carriera – dunque delle sue tasche – sono relegati a singole, esilaranti occasioni. È soprattutto grazie alle solide abilità di playmaking e a un affidabilissimo tiro da tre che Alston è rimasto per oltre dieci anni, a pieno diritto, nella Lega, arrivando addirittura a giocarsi da titolare una finale NBA in quel di Orlando nel 2009.

Un traguardo tutt’altro che scontato, se non assolutamente impronosticabile.

JASON WILLIAMS

Pensate ai noiosi All Star Game degli ultimi anni. Bene: ora tornate al febbraio 2000.In quel di Oakland, sabato 12, Vince Carter rende tutti gli Slam Dunk Contest successivi delle ridicole pagliacciate. La sera prima, un ragazzotto della West Virginia, bianco come il latte e coperto di tatuaggi dal dubbio gusto, regala al mondo l’assist più incredibile mai visto su un parquet di professionisti.

L’elbow pass, come per The Shammgod, resterà per sempre legato al nome di Jason Williams, probabilmente la point guard più folle ed entusiasmante ad aver mai calcato i campi della NBA.White Chocolate è la summa di tanti suoi predecessori, una reincarnazione di Pistol Pete nel Gioco del nuovo millennio, ma una cosa lo distingue da altri colleghi: nessuno come lui è riuscito a mantenere il suo stile, rendendolo anche fruttuoso.

Quelli di Sacramento sono anni vincenti, oltre che belli da vedere.Si dirà: “Ma il titolo NBA del 2006 l’ha vinto a Miami, e i migliori anni statistici della sua carriera sono a Memphis, anni in cui J-Will si era già normalizzato”. Quei Kings, quelli del Greatest Show on Court, pur rimasti a bocca asciutta, sono riusciti in una missione ancor più difficile, quella di riportare grande attenzione e passione sincera attorno a uno sport che perdeva consensi, dopo l’addio di MJ, in un periodo in cui la maggior parte delle squadre giocavano in modo stagnate e noioso.

Gran parte del merito è di Williams, che ha trascorso ogni singolo istante in campo all’insegna del divertimento, della spontaneità e della creatività, non sapendo mai quello che avrebbe nell’azione successiva. E ciò traspare da ogni singola giocata.

“Ho capito fin da piccolo che non avrei fatto strada nel basket come realizzatore, ero troppo piccolo e non avevo una mano infallibile. Quindi mi concentrai su ball handling e passaggi, pensando che avrebbero potuto darmi un futuro”.

È l’unico di questo mini elenco di talenti di strada a non essere uscito dalla Grande Mela, formatosi per lo più in una palestra di cui il padre era custode e alla quale, dunque, aveva libero accesso a tutte le ore. I suoi allenamenti sul ball handling li compie con pesi legati ai polsi e guanti spessi alle mani, per allenare la sua sensibilità.

“Penso che se non fossi diventato un giocatore di basket professionista, sarei diventato un commesso di Foot Locker, o ancora meglio l’autista di un furgone delle consegne: tutto il giorno in giro, senza un capo attorno che ti rompa le palle, fai il tuo lavoro per bene e te ne torni a casa”.

La libertà di cui sopra. Genio.

JAMAAL TINSLEY

Verso la fine degli anni ’90, era inutile chiedere di Jamaal Tinsley sulle strade di New York: per tutti quel ragazzo di Brooklyn, East Flatbush, era già noto come Mel The Abuser, per il trattamento che riservava ai suoi avversari diretti.

È sempre allo storico Rucker Park, tappa necessaria per la costruzione di una street credibility degna di questo nome, che la sua personalità, cestistica e non, si sviluppa.

Diplomatosi al liceo però, nessun college lo ritiene degno delle proprie attenzioni, e Jamaal è costretto a passare dal purgatorio del Community College – come Skip To My Lou -, nel suo caso presso Mount San Jacinto, in California. Nel 1999, dopo due anni in cui riesce a mettersi in mostra, i Cyclones di Iowa State gli offrono una borsa di studio.I due anni ad Ames sono leggendari: Tinsley è la point guard più inebriante di tutta la NCAA, trascinando la sua scuola alla Elite Eight nel 2001, anno che concluderà da giocatore dell’anno della Big 12.

Si dichiara eleggibile al Draft di giugno, dove riesce a strappare una chiamata alla fine del primo giro dai Vancouver Grizzlies – che avevano ricevuto la scelta dai Lakers, via New York – che lo cedono ad Atlanta, che lo girano immediatamente ai Pacers: tutto chiaro, no?

Fatto sta che questo pacco indesiderato approda alla corte di Isaiah Thomas, uno dei suoi idoli d’infanzia, in un roster in cui sostanzialmente non ha concorrenza, diventando automaticamente la point guard titolare di Indiana.Da rookie, offre una stagione strepitosa, con due picchi memorabili: il record di franchigia per assist in una singola gara (23, contro Washington) e la partita da five-by-five contro Minnesota, diventando il più giovane di sempre a raggiungere questo traguardo statistico (12 punti, 9 rimbalzi, 15 assist, 6 rubate, 5 stoppate).

Gli infortuni al piede ne mineranno il prosieguo di carriera, che sarà comunque lunga e di tutto rispetto. Anche negli ultimi anni ai Jazz ha lasciato che Mel The Abuser prendesse il sopravvento di tanto in tanto, regalando ai tifosi di Salt Lake City – e non solo – un viaggio gratis al Rucker Park, in un qualsiasi pomeriggio estivo caldo e afoso, dove spiegava pallacanestro.

Una point guard sapiente, che sapeva sempre mettere in ritmo i compagni, anzi, viveva per farli felici: se poi, nel farlo, aveva la possibilità di rendere le giocate più elettrizzanti, tanto meglio.

“Noi cresciuti a New York sappiamo come far sembrare migliori i nostri compagni. Siamo creativi, passiamo tanto e bene, siamo in grado di pensare più svelto rispetto alla media dei nostri colleghi”.

La specialità della casa era senza dubbio il tunnel, non tanto fine a se stesso, quanto geniale modo di spezzare il raddoppio di un lungo in situazione di pick and roll.

Ma era la condotta di gara in generale, a renderlo speciale: ciondolante, rilassato, sempre in controllo, con quell’aria sorniona di chi sulle strade ne ha viste tante e non sarà certo una partita di regular season NBA a turbarlo.