Dalle vette della NBA a Los Angeles al rischiare di perdere tutto, anche la vita: questa è la storia di Magic Johnson agli albori degli Anni Novanta.

Magic Johnson nella copertina di California Love

È il 1991. Hai 32 anni, cinque titoli NBA alle spalle, tre premi come MVP della stagione. Sei uno dei migliori giocatori in circolazione e lo hai dimostrato anche senza il tuo compagno storico. Fai parte di una delle dinastie che passeranno alla storia, hai portato un’onda inarrestabile di spettacolarità nella lega che ha addirittura preso un nome: “Showtime“.

Ne hai fatta di strada da Lansing, una cittadina di 116 mila abitanti nel cuore del Michigan. Hai mosso lì i tuoi primi passi su un campo da basket, è lì che hai guadagnato il soprannome che tutto il pubblico grida dagli spalti del Forum di Inglewood. È lì che hai vinto un titolo NCAA con gli Spartans.

È lì che hai conosciuto per la prima volta il razzismo.


Magari all’epoca non avevi dato peso alla cosa, mentre salivi sull’autobus insieme ad altri ragazzi neri per andare in una scuola di ragazzi neri, mentre pensavi quanto sarebbe stato bello giocare per un liceo più prestigioso però, ahimé, esclusivo per bianchi. Certo, un pensiero lo avrai avuto mentre trascinavi la Everett High School ad un successo dietro l’altro a colpi di giocate spettacolari, triple doppie e perché no, un tocco di magia.

Ma erano altri tempi, le cose stavano così e basta, c’erano troppe poche persone che si battevano per i diritti degli afroamericani, e probabilmente la tua voce non sarebbe servita a nulla. O forse è quello che ti raccontavi per metterti tutto alle spalle, continuare a sorridere, divertirti e giocare a basket.

Qualche anno prima, nel 1967, si era tenuto a Cleveland un incontro tra gli atleti afroamericani più illustri per mostrare supporto a Muhammed Alì, pugile nero privato del titolo mondiale per il rifiuto di combattere nella guerra del Vietnam. Tra i tanti intervenuti quel giorno, tra cui Bill Russell, c’era un giovanotto di vent’anni da UCLA, futura prima scelta al Draft NBA, all’epoca ancora conosciuto come Ferdinand Lewis Alcindor. Nel 1971 si converte all’Islam prendendo il nome che il mondo ricorderà non solo per le sue straordinarie imprese sul campo da basket ma anche il suo impegno costante nella lotta per i diritti civili, per le battaglie volte a promuovere l’uguaglianza: Kareem Abdul-Jabbar.

Tu invece non ne vuoi sapere. Le problematiche sociali non sono una novità per nessuno; ti arrabbi, certo, ne soffri, ma chiudi tutto in un angolo della mente. Esistono solo le influenze positive, le belle esperienze, gli amici, le feste.

Perché d’altronde per Earvin “Magic” Johnson è tutto così lontano.

O no?

Rodney King

È il 3 marzo 1991 quando Rodney King, tassista afroamericano, viene fermato dalla polizia di Los Angeles per guida in stato di ebbrezza dopo un lungo inseguimento. I poliziotti coinvolti, convinti della pericolosità dell’uomo per via di alcuni gesti male interpretati, lo colpiscono con i manganelli in quello che sfocia in un violento pestaggio.

King ne uscirà vivo ma con undici fratture e altri danni fisici.

George Holliday, venditore e videografo amatoriale, riprende il tutto dalla finestra di casa. Tenta di contattare il dipartimento per mostrare le prove della brutalità ma nessuno sembra interessato; si rivolge allora alla stampa e dopo due giorni il mondo viene a sapere di quanto successo nella San Fernando Valley, a mezz’ora di distanza dal Forum.

FOTO: NBC

Le scene purtroppo non sono distanti da quelle che tutti noi ricordiamo il 25 maggio 2020, giorno della morte di George Floyd.

Nel mondo sportivo molti sono sconvolti ma pochi pensano di fare effettivamente qualcosa. Craig Hodges, guardia dei Chicago Bulls, propone di protestare durante le Finals NBA che coinvolgevano proprio i Bulls di Michael Jordan e i Lakers di Johnson. In particolare i losangelini avrebbero avuto più di tutti una prospettiva privilegiata per mandare un messaggio forte. Ma la risposta di Magic è tanto breve quanto indicativa: “È troppo estremo”.

“Sapevo che avrebbero rifiutato ancora prima di chiedere. La cosa buffa è che è durato tutto neanche un paio di minuti. Michael non voleva, Magic ha detto che era troppo estremo. Chicago e Los Angeles erano i due volti sportivi più conosciuti del paese, che effetto avrebbe avuto un messaggio del genere?”

Hodges non verrà rinnovato dai Bulls dopo aver commentato così lo scarso coinvolgimento di Jordan nella vicenda.

“Che effetto avrebbe avuto un messaggio del genere?”. Se lo devono essere chiesti anche i Milwaukee Bucks dopo che alcuni poliziotti avevano sparato a Jacob Blake a Kenosha, Wisconsin, nell’agosto del 2020, lasciandolo paralizzato. La NBA aveva già cominciato ad usare la bolla di Orlando e le partite a porte chiuse per mandare messaggi di sensibilizzazione e il dramma di Blake ha trovato risonanza mediatica in tutto il mondo grazie alle proteste messe in atto proprio dai giocatori della lega e dalle giocatrici della WNBA che avevano interrotto il campionato.

Il pestaggio di King non basta invece a smuovere la coscenza sociale di Magic. Anche questa volta, come in adolescenza, sembra volersi voltare dall’altra parte, ma è il primo colpo inferto dalla realtà. Il primo ma non certo l’ultimo.

Showtime

Sole, mare, belle ragazze, discoteche e locali a non finire. Chi non vorrebbe vivere in California negli Anni ’80? È in questo scenario che Jerry Buss, dottore in chimica divenuto poi multimilionario grazie ad un innato fiuto per gli affari nel mercato immobiliare, decide di comprare i Los Angeles Lakers nel 1979. Piccola nota: per arrivare all’accordo, il dottor Buss ha dovuto comprare e immediatamente vendere il Chrysler Building. Sì, il Chrysler Building che svetta nello skyline di Manhattan. D’altronde cosa sono 58 milioni?

Il suo primo passo al volante della squadra losangelina è chiamare Magic come prima scelta assoluta. È il tassello mancante ad una franchigia la cui pietra angolare era stata posta anni prima con l’acquisto di Jabbar, già vincitore di un campionato NBA e di cinque premi come MVP. Nasce lo Showtime.

Ora il cambio di scenario è incredibile: dal freddo gelido della regione dei Grandi Laghi a LA, a Hollywood. E un proprietario che invece di allontanarti dalle distrazioni ti porta nella villa di Hugh Hefner, la Playboy Mansion.

FOTO: LOS ANGELES TIMES

Sei giovane e sei uno dei giocatori più famosi del paese, come fai a non approfittarne? Non pensi certo alle possibili conseguenze. Forse a posteriori sarebbe stato meglio, ma ehi, alla fine sono sempre gli Anni ’80. Tutto questo non influenza nemmeno il tuo gioco perché tu continui a vincere, vincere, vincere.

Il primo anno è un trionfo: i Lakers tornano sulla cima dell’NBA dal 1972 con un basket veloce, dinamico e spettacolare che li accompagnerà negli anni a venire sotto la guida di Pat Riley.

MJ (perché all’epoca era lui MJ, prima che arrivasse un ragazzo da North Carolina) è MVP delle Finals dopo aver giocato da centro nella gara decisiva in assenza di Jabbar. Ma è solo la punta dell’iceberg. Nel giro di pochi anni i gialloviola conquistano altri quattro titoli, arrivano altri due Finals MVP per Johnson e, a cavallo tra gli Anni ’80 e ’90, le già menzionate statuette di MVP.

È un successo costante, non certo privo di drammi dentro e fuori dal campo. Ma siamo a Hollywood, cosa vi aspettate? Come in ogni film che si rispetti c’è un colpo di scena, anche in questa storia se ne presenta uno dal risvolto scioccante e dall’esito quanto mai incerto.

“La vita va avanti”

“Che cosa sta succedendo? Non ha l’influenza, abbiamo fatto gli esami due settimane fa. Se avesse avuto qualcosa lo avremmo visto. E poi ho capito. C’era un secondo esame fatto dalla compagnia assicurativa oltre i nostri. Non sapevo il risultato ma ho pensato ‘ok, può essere questo’. E per settimane abbiamo raccontato la storia dell’influenza, solo sette persone sapevano la verità. Abbiamo mentito al mondo.”

Così Gary Vitti, preparatore atletico, ricorda i giorni precedenti alla conferenza stampa organizzata il 7 novembre del 1991, pochi mesi dopo le brutalità subite da Rodney King. Tutti sono ancora scossi da quelle immagini e per il mondo sportivo lo shock non è ancora finito:

“A causa del virus dell’HIV che ho contratto devo ritirarmi dai Lakers oggi stesso. Non è come se la mia vita fosse finita, non lo è. Continuerò a vivere. Mi mancheranno le battaglie con i ragazzi ma la vita va avanti. L’unica cosa che posso fare è guardare i lati positivi. Non so ancora cosa farò, ci vorrà tempo”.

FOTO: NBA

Magic Johnson, il giocatore, il campione, l’uomo, annuncia al mondo di doversi confrontare con la propria mortalità. Pochi giorni dopo – il 24 novembre – Freddy Mercury muore per una broncopolmonite aggravata dall’AIDS.

Tutti si stringono intorno a MJ, dai compagni alla società, con una maschera di ottimismo e forza nascondendo i timori e i dubbi sulla riuscita dell’impresa. C’è ancora molta confusione tra HIV e AIDS, la disinformazione è alta sia sulle vie di contrazione che sulle possibili cure.

Quasi tutti, da chi ne è affetto a chi gli è vicino, la considerano una condanna a morte praticamente certa. E Magic torna ad essere Earvin Johnson per un momento. La magia è finita, il tempo sembra agli sgoccioli. Non si sa quanto ancora ne venga concesso e allora tanto vale sfruttarlo al meglio.

Apre la Magic Johnson Foundation con lo scopo primario di combattere i pregiudizi e le informazioni sbagliate che circolano intorno al virus. All’inizio del 1992 entra in un comitato governativo, il National Commission on AIDS, creato con lo stesso scopo: ne uscirà pochi mesi dopo perché scontento dello scarso impegno della Casa Bianca nel soddisfare alcuni dei punti fondamentali del progetto, tra cui l’accesso alle cure per persone dei ceti sociali più bassi.

Il 16 febbraio i Lakers ritirano la sua maglia. Jeanie Buss, figlia di Jerry ed erede designata al trono di famiglia, racconta commossa che è lo stesso Magic a chiedere di anticipare la cerimonia perché “voleva essere ancora con noi per vivere quel momento”. Il tutto si svolge tra le lacrime dei partecipanti, da Kareem a Jerry Buss, dai compagni fino al pubblico e allo stesso Magic. Viene vissuta più come una commemorazione che come una celebrazione e le sensazioni che lascia sono le stesse. Malinconia, senso di perdita, dolore.

Per il ragazzo di Lansing quel momento così vicino alla fine diventa un inizio.

Perché a questo punto fare qualcosa non è abbastanza. Per Magic non esistono più il voltarsi dall’altra parte, ignorare quanto succede intorno per vincere un titolo in più, il divertimento, le feste. Non si nasconde dietro scuse banali, il confronto con la realtà diventa invece più serrato che mai. E, come capita poche volte nella vita, il destino gli mette davanti la possibilità di rifare una scelta.

Le rivolte di Los Angeles

Dopo quanto accaduto a Rodney King parte un processo durato un anno in cui si mettono alla sbarra i poliziotti artefici del pestaggio con le accuse di aggressione e uso eccessivo della forza. Vengono ascoltati testimoni oculari, mostrati i video, prodotte prove.

Il verdetto, arrivato il 29 aprile del 1992, lascia una buona parte dei losangelini a bocca aperta: non colpevoli.

Quattro poliziotti bianchi che vengono filmati mentre colpiscono ripetutamente un nero disarmato vengono lasciati andare. È la scintilla che scatena la fiamma.

Già dopo pochi minuti dal verdetto, più di trecento persone si ammassano fuori dal tribunale di LA per protestare. Il sindaco Tom Bradley, primo afroamericano a ricoprire quella carica, esprime pubblicamente indignazione per quanto accaduto. In poche ore la città diventa una polveriera.

Non solo le gang ma anche cittadini comuni cominciano ad aggredire i bianchi per le strade. I poliziotti provano ad intervenire arrestando un sedicenne ma questo non fa che aumentare il tumulto. Tra la Florence e la Normandie la rivolta si inasprisce con lanci di sassi verso le auto, rapine, saccheggi, incendi.

Contemporaneamente, al Forum, distante solo quindici minuti da tutto questo, si sta giocando Gara 3 dei Playoffs contro Portland. Ai tifosi e ai giocatori viene chiesto di non uscire o di prendere determinate strade per tornare a casa, ma non viene data una motivazione. A fine partita finalmente si riesce a capire il perché.

Byron Scott non trattiene la rabbia e l’emozione e empatizza con i protestanti. Inutile dire che le sue parole non vengono apprezzate dalla parte bianca della NBA, ma anche qui bisogna contestualizzare: si tratta di un giocatore afroamericano che si unisce alle proteste di altri afroamericani in materia di diritti civili. Lui stesso ribadisce il concetto spiegando che ovviamente condanna le rivolte e la violenza, ma non può negare le basi da cui partono.

FOTO: SLATE.COM

E Magic? Quanto può essere cambiato in un anno il suo approccio da quel “È troppo estremo”? La risposta non si fa attendere e non arriva tramite la stampa.

“Tra le tante cose, quello che non mi è piaciuto è che stavamo distruggendo la nostra stessa comunità. Davamo fuoco ai nostri negozi, abbiamo fatto del male a South Central, a Compton, a noi stessi. È stato un altro segnale che le cose andavano cambiate.”

Il primo pensiero è quello di aprire un cinema a South LA, nel cuore dei quartieri controllati dalle gang, per dare una svolta, un segnale di cambiamento importante, un punto di ritrovo per tutti. Sembra una cosa futile o una mossa di business ma parliamoci chiaro: chi pensa di andare a fare soldi in un quartiere povero in mano alla criminalità?

Ed è per questo che Magic si siede con i due capi dei Bloods e dei Crisps e mette le carte in tavola:

“Non sono qui per mancarvi di rispetto ma quello che ho intenzione di fare può davvero essere di aiuto alla comunità nera. Voglio che voi veniate, voglio che vengano le vostre famiglie. Ma dovete essere d’accordo sul non usare violenza né dentro né fuori. Ci saranno posti di lavoro, se avete ragazzi che vogliono rimboccarsi le maniche mandatemeli e verranno assunti.”

Certo, il fatto che a parlare fosse una leggenda dei Lakers ha sicuramente aiutato, ma il risultato è lo stesso. Magic ci mette la faccia e ottiene qualcosa di ben più importante dei suoi cinque anelli, per sé stesso e per gli altri. Perché, ancora una volta, da quel 7 novembre 1991, dimostra quanto sia possibile cambiare la propria rotta, aprirsi agli altri, ai drammi della realtà.

È servita una scossa forte, fortissima, per arrivarci, e forse ad alcuni può sembrare un processo egoistico, ma ora è evidente. L’Earvin Johnson che voltava le spalle e nascondeva i problemi sotto il tappeto non c’è più.

Magic

Badate bene, il fatto di essersi aperti non vuol dire certo avere la vita facile. A Magic lo ricordano bene i suoi compagni e colleghi.

Nel 1992, a pochi mesi dalla conferenza stampa, viene votato come titolare all’All Star Game di Orlando. Scott, AC Green e Karl Malone sono solo alcuni che si oppongono alla partecipazione dell’ex Lakers, impauriti dalla possibilità della contaminazione.

Gioca comunque le Olimpiadi quell’estate arrivando all’oro con il fenomenale Dream Team. L’idea di calcare di nuovo il campo non lo abbandona mai, ma si spegne sul nascere agli albori della stagione ’92-’93, quando le continue pressioni lo spingono a mettere da parte il pensiero: “Lo faccio per il bene del gioco”.

Ci prova da allenatore, sempre per i Lakers ovviamente, ma anche qui dopo un inizio incoraggiante il sogno si infrange. Magic non è ancora pronto per sedersi in panchina e dare direttive a compagni con cui ha condiviso il parquet fino a poco tempo prima. Ed è per questo che, dopo un’estate passata a lavorare duramente per recuperare la condizione, ritorna al Forum di Inglewood per guidare ancora una volta i gialloviola da giocatore.

Gioca solo trentadue partite ma grazie anche al suo contributo i Lakers centrano i Playoffs da quarta forza ad Ovest, evitando anche lo sweep al primo turno contro i campioni in carica, gli Houston Rockets. Ma, ahimé, un 3-1 è comunque una sconfitta pesante che, unita alle varie vicissitudini extra cestistiche dei losangelini, porta Magic a ritirarsi nuovamente e in via definitiva.

“Questa volta vado via alle mie condizioni e va bene così, è un lusso che non ho potuto avere quando mi sono allontanato nel ’92”

E adesso, ventisei anni dopo, può sedersi e guardare quali sono i più grandi successi della sua carriera.

Cinque anelli di campione NBA, tre MVP della stagione regolare e delle Finals, dodici volte All Star e due volte MVP dell’All Star Game. Campione NCAA, per non farsi mancare nulla.

Ma anche il J.Walter Kennedy Citizenship Award, conferito dalla NBA a chi si prodiga per la comunità.

Il Jackie Robinson Sports Award, premio della NAACP dato agli atleti che promuovono la giustizia sociale.

Un Grammy Award, nientemeno, per la migliore opera narrata dopo la pubblicazione di “What You Can Do to Avoid AIDS

La sua legacy comprende gli anelli e i trofei, indubbiamente, ma va ben oltre lo sport: la sensibilizzazione sull’AIDS e sull’HIV ad esempio, spiegando e dimostrando come queste malattie sempre associate all’uso di droga e all’omosessualità fossero in realtà un potenziale problema di tutti, aiutando a combattere la discriminazione e raccogliendo fondi per migliorare le cure e i trattamenti, cure a cui lui stesso continua a sottoporsi per tenere sotto controllo il virus.

Le sue parole e il suo comportamento contro Howard Stern, dopo essere stato sbeffeggiato dallo stesso durante il suo programma “The Magic Hour”, e contro Donald Sterling, ex proprietario dei Clippers allontanato a vita dalla NBA per commenti razzisti, sono altri esempi di come il girarsi dall’altra parte non sia più un’opzione per lui. E il momento della consapevolezza per un uomo è un traguardo più importante di ogni record o titolo.

Il nostro punto di arrivo non è mai lo stesso del nostro inizio. Parti da giovane, con la tua spensieratezza che è quasi arroganza, nella sua impressione di invincibilità; niente ti può fermare, ci sei solo tu e la strada aperta davanti a te. Poi la vita ti mette davanti qualche ostacolo e quella strada che prima era sgombra comincia ad essere tortuosa, difficile. Ti costringe a rivedere il percorso e a rivedere te stesso. E magari nel processo ti accorgi che intorno a te ci sono anche altri che affrontano la stessa strada con le stesse difficoltà. Può succedere a tutti, no?

Può succedere a me, può succedere a voi. Può succedere ad un ragazzino di Lansing che diventa uomo in una vita piena di triple doppie, sorrisi, spettacolo, drammi, ostacoli.

E, perché no, un po’ di Magia.