Dall’ascesa di Gregg Popovich e Tim Duncan, passando per la nascita dei Big Three. Ripercorriamo venti anni ineguagliabili di una franchigia capace di vincere cinque titoli e di rappresentare un modello di organizzazione sportiva e culturale.

Subito dopo il suono dell’ultima sirena di Gara 6 delle NBA Finals 2003, Gregg Popovich e R.C. Buford si mettono a lavoro. Nemmeno il tempo di festeggiare il secondo titolo nella storia della franchigia texana, che già diventa necessario costruire gli Spurs del futuro. Il ritiro di David Robinson chiude definitivamente l’epoca delle Twin Towers. Seguendo i dettami del progetto iniziato anni prima, il coach e il GM vogliono concentrarsi sui soliti punti: estremizzare lo scouting a livello internazionale, massimizzare le scelte (basse) al Draft, e ottimizzare il roster con movimenti mirati dal mercato dei free agent e con scambi oculati. Una delle prime questioni riguarda come aiutare e favorire il gioco di Tim Duncan. Il caraibico è assolutamente immarcabile in situazione di single coverage, ma i New Jersey Nets in finale hanno mostrato le difficoltà che possono sorgere dalle difese che raddoppiano o triplicano il numero 21. La soluzione primaria è in famiglia e porta i nomi di Tony Parker e Manu Ginobili. Il francese al secondo anno nella Lega è già stato il secondo miglior marcatore della squadra, oltre ad aver mostrato ampi sprazzi del proprio talento. Il dubbio di coach Pop, riguarda la tendenza di TP a uscire spesso dallo spartito offensivo degli Speroni, intasando l’area che “appartiene” all’uomo di Saint Croix. A sciogliere la matassa ci pensa proprio l’ex Wake Foreset, che convince il coach, spesso furente per le improvvisate del transalpino, che le giocate di Parker sono perfette come alternativa nel gioco in post. L’ex Paris Basket Racing è incontenibile con la sua rapidità, segnando in coast to coast ma anche lasciando sul posto il proprio avversario nelle situazioni di 1-contro-1. Il tutto fornisce una maggiore completezza al gioco della squadra. Lo stesso dicasi per l’argentino da Bahia Blanca. L’ex Virtus Bologna ha mostrato tutta la propria classe nella stagione da rookie. Popovich fatica ancora a digerire le zingarate con cui Manu inventa un assist impensabile o una penetrazione mancina in mezzo a cinque uomini, ma allo stesso tempo tende a buttare via palloni o a ingolfare la perfetta macchina offensiva nero-argento. Già dai trascorsi italiani, il numero 20 si era fatto notare per l’incredibile fantasia del suo gioco, caratteristica che aveva fatto impazzire i tifosi italiani prima ed europei poi. Stante la mancanza di disciplina tecnica, è innegabile che El Narigon abbia caratteristiche fuori dal comune di grande importanza per la squadra. Nonostante i dubbi, il front office di San Antonio sa che i due internationals possono essere la chiave del futuro Spurs insieme a Timmy, e puntano decisamente su di loro.

Stephen Jackson accetta l’offerta di Atlanta, ma San Antonio non fa carte false per cercare di trattenerlo, con lo scopo di favorire il minutaggio di Ginobili. Via trade e dal mercato dei freeagent arrivano giocatori che formano un perfetto supporting cast per i nuovi Big Three: Hedo Turkoglu è un ottimo esterno in uscita dalla panchina, Rasho Nesterovic segna quella sorta di continuità sotto le plance, mettendo accanto al caraibico un centro di peso che permetta al n. 21 di continuare a giocare da power forward. La firma di Robert Horry, strappato ai rivali dei Lakers, è la ciliegina sulla torta. Il numero 5 è un’ala che sembra cucita su misura per il sistema Spurs. A causa della mini rivoluzione, i nero-argento non partono nel migliore dei modi, ma riescono comunque a oliare gli ingranaggi e a trovare ritmo, inanellando una striscia di 13 vittorie in gennaio.

La difesa è la chiave del successo, perché gli speroni sono i primi della Lega per punti concessi e per Defensive rating, dati che spiegano la ragione di numerose vittorie, nonostante la poco prolifica resa offensiva. La stagione regolare si chiude con un record di 57-25 e il terzo posto a Ovest. Superato agilmente il primo turno di Playoffs contro Memphis, eliminati in quattro gare, al secondo turno ci sono nuovamente i Lakers. La squadra di Los Angeles si schiera in versione Big Four, con l’aggiunta di Gary Payton e Karl Malone ai già noti Shaq e Kobe. Gara 1 e 2 vedono il successo Spurs, grazie al prezioso contributo franco-caraibico, che ben rispondono agli attacchi del n. 8 in maglia giallo-viola. Tornati in California, la squadra allenata da Phil Jackson ritrova concretezza sui 48 minuti, tirando sopra il 50% dal campo in Gare 3 e 4, pareggiando così la serie. In NBA si dice che una serie non cominci finché una delle due squadre non vince in trasferta. Gara 5 è senza dubbio una partita che rimarrà nella memoria negli anni a venire. Tutti i giocatori in campo sanno che si tratta di una pivotal game, decisiva per le sorti della serie. Le squadre ormai si conoscono alla perfezione, sul parquet del SBC Center prevale l’equilibrio, ma anche una gran tensione per la posta in palio, che genera scarse percentuali di realizzazione. È Kobe a prendersi le maggiori iniziative giallo-viola. Dall’altro lato i padroni di casa cavalcano da consuetudine Duncan in post, mentre Parker non riesce ad essere incisivo come al solito. I Lakers toccano anche il +9 alla fine del terzo quarto, ma gli Spurs riportano la partita sul filo. Il finale della gara entra di diritto nella storia dei Playoffs NBA. Non bastano le parole, servono le immagini.


Il canestro di Fisher è una doccia gelata per le velleità di San Antonio, una mazzata a livello psicologico da cui nessuno riuscirebbe a riprendersi. Gara 6 a LA, nonostante l’andamento punto a punto, vede l’inerzia in mano ai Big Four, che vincono partita e serie. Per i ragazzi di Pop la difesa del Titolo si chiude con l’onta dell’ennesima eliminazione da parte degli storici rivali, con un giocatore in particolare che mal digerisce l’eliminazione. Proprio quel Robert Horry grande ex, che aveva giurato amore eterno ai Lakers e che si era invece visto scaricato per far posto fisicamente e “salarialmente” a Karl Malone.

Nonostante tutto, in casa nero-argento rimane la ferma convinzione di aver intrapreso la strada giusta con i Big Three e prosegue la linea guida per la gestione del roster. All’addio di Turkoglu segue la firma del free agent Brent Barry. Dal Draft viene pescato lo sloveno Beno Udrih. I campioni NBA 2003 partono a razzo nella stagione 2004/05. Collezionano un record di 25-6 nei primi due mesi di campionato. Rimangono fortemente la prima difesa della Lega per punti concessi e per Defensive rating. Ginobili viene promosso nello starting five a tempo pieno e l’argentino ripaga con la miglior stagione in carriera, che genera la convocazione per l’All-Star Game di Denver, insieme a Tim Duncan. Ciò che sorprende maggiormente degli Speroni è il meraviglioso equilibrio in campo, dove ogni giocatore è cucito su misura per il ruolo ricoperto. Nonostante le qualità dei primi cinque, la panchina gioca un ruolo fondamentale, col nuovo arrivato Barry che si eleva a leader della second unit.

Proprio per rafforzare il contributo totale del roster e per non spremere troppo i titolari, R.C. Buford rimane sempre attivo e imbastisce uno scambio a febbraio che porta in città Nazr Mohammed, ottima alternativa a Nesterovic per capacità intimidatorie sotto le plance. San Antonio chiude seconda a Ovest e ai Playoffs supera agilmente i primi due turni, incrociando le armi con Phoenix nella finale della Western Conference. I Suns hanno dominato la Regular Season e attuano un gioco diametralmente opposto a quello dei texani, con Steve Nash a guidare l’attacco seven seconds or less. L’attitudine alla corsa e all’alto numero di possessi della squadra dell’Arizona mette non poco in difficoltà la difesa di coach Popovich, che subisce più di 100 punti di media in tutta la serie. Di contro, l’attacco Spurs riesce ad esprimersi al meglio e i Big Three portano la squadra alle Finals, vincendo la serie con un inaspettato 4-1. Ad attendere i neo campioni della Western Conference ci sono i detentori del titolo NBA, i Detroit Pistons.

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La squadra del Michigan presenta molte analogie con i rivali dell’ovest. Innanzitutto gli allenatori: il credo sportivo di Larry Brown, play the right way, ben si sposa con la visione della pallacanestro che ha Pop. I due sono anche grandi amici dai tempi in cui Gregg era assistente di Brown proprio a San Antonio. Ogni volta che le rispettive squadre si affrontano, sono soliti passare il post partita a bere buon vino parlando di qualunque cosa – poco di pallacanestro. Le due squadre poi sono costruite con una filosofia simile, con ogni componente del roster che ricopre un ruolo specifico e ben definito. Gioco molto concreto, per i veri puristi. Si prospetta una serie molto equilibrata. Saranno le Finali NBA tra le più belle di sempre.

Gli Spurs sfruttano il vantaggio del fattore campo nelle prime due partite, con un Ginobili particolarmente ispirato. I Pistons non sciorinano certo il loro miglior gioco, segnando solo 69 punti in Gara 2. La musica cambia radicalmente quando il circo NBA si sposta al Palace of Auburn Hills. Già con le spalle al muro, Detroit reagisce da campione in carica e annichilisce i texani. Sia Gara 3 che Gara 4 sono monologhi bianco-rosso-blu: tutto il roster è preciso e decisivo, con rispettivamente ben 5 e 7 giocatori in doppia cifra nelle due partite. Gara 5 è ancora la chiave di volta della serie. Entrambi gli allenatori vogliono prendere il comando e spremono fortemente i propri titolari, senza quasi utilizzare la panchina. Si viaggia punto a punto per tutti i 48 minuti, che tuttavia non sono sufficienti, si va al supplementare. Con 9.4 secondi sul cronometro dell’overtime e con gli Spurs sotto di 2 ecco che arriva l’eroe del clutch time. Big Shot Bob.

Robert Horry è per l’ennesima volta decisivo nei finali che contano (per lui 21 punti, praticamente tutti segnati tra quarto periodo e supplementare). Sembra fatta, ma incredibilmente Detroit espugna l’SBC Center in Gara 6 e si va alla decisiva Gara 7. È una partita spettacolare, incerta fino all’ultimo secondo. Duncan è favoloso, ma il vero eroe è l’uomo da Bahia Blanca, che segna 23 punti ed è decisivo nell’ultimo periodo, dove gli Spurs prendono il vantaggio decisivo. La squadra di casa conquista il terzo titolo della propria storia. Il caraibico viene eletto MVP delle Finals, anche se molti additano l’argentino come meritevole del premio.

San Antonio è ormai la franchigia di riferimento in tutta la Lega. Viene firmato il free agent Michael Finley e l’argentino Fabricio Oberto. La squadra è un rullo compressore da 63 vittorie nella stagione regolare 2005/06, ma al secondo turno dei Playoffs viene clamorosamente eliminata in 7 gare dagli arrembanti Dallas Mavericks, con Ginobili che commette un errore difensivo decisivo, concedendo un canestro con fallo a Nowitzki nell’ultima partita. La stagione successiva il roster rimane sostanzialmente identico, ma la grande novità è lo spostamento di Manu da titolare al ruolo di sesto uomo. Così facendo Popovich vuole dare ancora maggiore incisività alla second unit, col numero 20 che vince il Sixth Man of the Year Award.

Eliminati Nuggets, Suns e Jazz nella post – season, i nero-argento si ripresentano alle Finals dopo due anni, con avversario di turno i Cleveland Cavs di un giovane Lebron James. Il proscenio stavolta viene preso da Tony Parker. Il franco-belga ha iniziato già da un anno a lavorare intensamente con uno degli assistenti allenatori, che è e sarà un uomo chiave della famiglia Spurs: Chip Engelland.

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È stato un giocatore professionista ma mai a livello NBA, naturalizzato filippino per giocare con la nazionale del paese del Sudest asiatico. Una delle doti principali di Chip è la sua abilità nell’insegnamento del fondamentale del tiro, tanto da aprire un apposito camp nel 1993. Dal 2005 è entrato alla corte di coach Pop e sarà prezioso per la crescita tecnica di molti giocatori negli anni a venire. Engelland riprogramma completamente la tecnica di tiro di TP, con i risultati che non tardano ad arrivare. Adesso il numero 9, oltre alle proverbiali incursioni al ferro, ha aggiunto un mortifero jumper dal mid-range. In finale Parker è incontenibile per la difesa Cavs, che non ha di fatto gli uomini per poterlo fermare.

In Gara 1 e 2 si nota subito la differenza di esperienza con l’evento, con Cleveland alla prima partecipazione “all’ultimo ballo”. San Antonio ha vita piuttosto facile e il nativo di Bruges di fatto domina. Lebron prova inutilmente a guidare i suoi, anche se siamo lontani dal giocatore dominante di oggi. In Ohio la musica cambia solo leggermente. Gara 3 viaggia sul filo, James ha pure il tiro finale del possibile pareggio ma l’esito è negativo. I Cavs di fatto risultano inadatti a competere con i rivali, ben più esperti sia come gruppo che come numero di partecipazioni alle Finals. In Gara 4 la storia sembra non cambiare e gli ospiti raggiungono anche la doppia cifra di vantaggio. Un parziale di 14 punti da parte di Cleveland riapre i giochi, con i padroni di casa che ottengono, per la prima volta nella serie, il vantaggio nel secondo tempo della gara. Gli Spurs rispondono con un contro parziale di 12-3 e la franchigia del Texas conquista il suo quarto titolo in nove anni: un’autentica dinastia. Parker è giustamente eletto MVP, fatturando 24,5 punti col 56,8% dal campo.

I ragazzi di Pop sono ormai visti come un riferimento in tutta la Lega. La stagione 2007/08 inizia con la convinzione comune che niente potrà fermare i nero-argento. Tuttavia storicamente i neo-campioni non sono mai riusciti a portare a termine il back-to-back e nemmeno questa volta riescono a concretizzare il bis.

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Il roster è sostanzialmente invariato rispetto alla cavalcata vincente dell’anno prima, ma i sogni di gloria si spengono nella finale della Western Conference contro i Los Angeles Lakers. Gli anni successivi vedono San Antonio non più in grado di raggiungere le Finals, nonostante resti comunque ai vertici nella Lega. Si segnalano eliminazioni ai Playoffs con debacle clamorose, come lo 0-4 subito dai Suns nel 2010; veri upset come l’uscita al primo turno per mano di Memphis, testa di serie n. 8; o batoste incredibili come il 2-4 per mano dei Thunder con Duncan e soci in vantaggio per 2-0.

Nonostante non riesca ad aggiungere in bacheca un altro Larry O’Brien Trophy, R.C. Buford lavora costantemente per creare la squadra del futuro. In primis leggendo tra le righe del Draft. L’anno post titolo 2007 porta in dote il brasiliano Tiago Splitter come scelta numero 28. Nel 2008 con la numero 26 arriva George Hill, che non riuscirà mai a vincere un anello con la squadra, ma si costruirà un’ottima carriera in Texas, oltre a diventare un preziosa pedina di scambio futura. Negli anni le scelte hanno fruttato anche giocatori che hanno raggiunto un ottimo livello NBA, nonostante non abbiano mai indossato la canotta nero-argento. È il caso di Leandro Barbosa nel 2003, Goran Dragic al secondo giro nel 2008 o Luis Scola nel 2002. Anche il mercato vede una lenta ma proficua operatività, che porta alla costruzione di una nuova squadra da Titolo. Nel 2011 viene firmato Danny Green, parcheggiato subito in D-League perché ritenuto non pronto. Richiamato dai Reno Bighorns, Green diventa poco a poco elemento fondamentale del roster Spurs, rendendosi prezioso col suo letale tiro da tre. Riesce poi a conquistare il posto in quintetto quando Ginobili torna a ricoprire il ruolo di sesto uomo.

Nel 2011 si pesca ancora a piene mani dal mercato degli svincolati, acquisendo Boris Diaw e Patty Mills. Sono due giocatori che ricalcano l’idea voluta da Pop, in quanto funzionali al roster e dotati di alto QI cestistico. Il francese è da tempo nel mirino di R.C. Buford, ma le varie vicissitudini del mercato non avevano mai permesso di concretizzare il “matrimonio”. La storia di Mills è avvincente e ricca di tanta gavetta prima di poter diventare un giocatore NBA in pianta stabile. Cresciuto nella natia Australia, dedica l’adolescenza dividendosi tra basket e football australiano. Dedicatosi poi totalmente alla pallacanestro, viene notato per la prima volta nel continente americano quando gioca nella selezione World al Nike Hoop Summit 2006. Dopo aver frequentato Saint Mary’s College of California, viene scelto da Portland col numero 55 al draft 2009. Dopo un primo anno con grande alternanza tra NBA e D-League, e un secondo anno più concreto, nel 2011 torna in patria causa lockout. Gioca anche in Cina, prima di venir chiamato dagli Spurs sul finale di stagione e non lasciare più la squadra.

La valorizzazione delle skills di vari giocatori è un’altra caratteristica dello staff tecnico degli speroni. Si pensi a tal proposito a Gary Neal, prima protagonista in Europa e subito prezioso nella città di Fort Alamo. Oppure a role player come Matt Bonner, sempre utile quando chiamato in causa dal proprio allenatore. Questa profonda analisi dei giocatori per una loro selezione, scelta e lento inserimento nel roster è solo una piccola parte di un sistema nato e cresciuto dal progetto iniziale sviluppato da Gregg Popovich e R.C Buford. Tale sistema, altamente sviluppato e perfettamente operativo, è da anni osservato per essere applicato in vari contesti, non solo NBA, ma anche legati ad altri sport. È conosciuto da tutti con un nome ben preciso, destinato a far Storia: Spurs Culture.


Questo è il secondo capitolo di una collana di 3 storie. Le altre due: