Dall’ascesa di Gregg Popovich e Tim Duncan, passando per la nascita dei Big Three, ripercorriamo venti anni ineguagliabili di una franchigia capace di vincere cinque titoli e di rappresentare un modello di organizzazione sportiva e culturale.

La Spurs Culture è senza dubbio la chiave della longevità di San Antonio. Tanti sono gli elementi che portano a questo tipo di ecosistema sportivo. Abbiamo più volte parlato della capacità di gestione del roster, fatta di scelte mirate sui giocatori, garantendo uno zoccolo duro – i Big Three – a cui aggiungere i giusti giocatori, pescandoli dal Draft o dal mercato dei Free Agent. Una scelta sempre molto complessa e non chiara ai più fin da subito: le scelte al Draft sono sempre state basse e i giocatori acquisiti non molto conosciuti. Dal mercato poi sono sempre arrivati atleti non impattanti, ma con caratteristiche precise e idonee a potersi ben inserire in un contesto adatto a esaltarle. Non solo qualità tecniche sotto la lente d’ingrandimento degli executives, ma anche quelle comportamentali: il saper aspettare il proprio momento, il non pretendere minuti o responsabilità – i rookies in genere non entrano nemmeno in rotazione, salvo poi aumentare progressivamente il proprio tempo sul parquet con il passare degli anni. La tanto discussa ricerca di suddette caratteristiche è la chiave di tutto. Lo scouting a livello mondiale amplia il bacino di ricerca, permettendo di avere maggior materiale umano a disposizione rispetto alla concorrenza. La Spurs Culture è anche un modello comportamentale, fatto di grande rispetto dei ruoli e discrezione nel rilascio delle informazioni. Per non parlare della gestione medica degli atleti, visti i costanti turni di riposo concessi ai giocatori per alleggerire i carichi di una stagione, anche a discapito di alcune vittorie. Tale pratica è oggi comunemente adottata anche dalle altre ventinove franchigie.

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Il Draft 2011 è un evento fondamentale per gli Spurs del futuro. La squadra ha subìto una cocente sconfitta al primo turno dei Playoffs contro Memphis per 4-2, un incredibile upset tra prima e ottava. Nell’ambiente NBA iniziano a circolare le malelingue che ritengono i nero-argento un team ormai vecchio e superato. Come sempre non curante delle voci provenienti dall’esterno, lo staff sta lavorando per una mossa ritenuta importante per il futuro. C’è la volontà di arrivare a mettere le mani su Kawhi Leonard, appena uscito da San Diego State. Nonostante non venga dato tra le primissime scelte, gli Spurs sono certi che non raggiungerà mai la fine del primo giro e imbastiscono uno scambio per ottenere una buona scelta. L’accordo viene trovato con gli Indiana Pacers per la pick numero 15, ma il sacrificio è grande in quanto viene ceduto, con enorme sofferenza di Popovich, George Hill. Leonard è un ala di 2.01, con un apertura alare degna di un airone e due mani enormi. È un giocatore con ampi margini di miglioramento e R.C. Buford in lui ha visto qualcosa. Al high shool giocava addirittura da centro, salvo poi passare alla posizione di ala. Non ha grande tiro, ma porta incredibili doti difensive, propensione al lavoro duro e un carattere molto “duncaniano”, riservato e poco evanescente. Perfetto!

La stagione è contraddistinta da un nuovo lockout che fa slittare l’inizio delle operazioni a dicembre, ma i texani non si fanno trovare impreparati, chiudendo la Regular Season col primo record a Ovest. A guidare la cavalcata ci sono sempre i Big Three, anche se gli infortuni non garantiscono quella continuità richiesta. Vinti facilmente i primi due round per 4-0 contro Jazz e Clippers, in finale della Western Conference arrivano i giovani e arrembanti Thunder del trio Durant-Westbrook-Harden. Dopo il 2-0 Spurs che sembra indirizzare la serie verso Fort Alamo, arrivano quattro vittorie consecutive per OKC, che accede alle finali. Troppo forti fisicamente e atleticamente i Thunder per la squadra di Peter Holt. Inutile dire che i commenti al vetriolo sulla possibile fine della Dinastia si sprecano.


Coach Pop continua imperterrito il proprio lavoro, senza badare troppo alle voci fuori dalla training facility (in perfetto stile Spurs Culture). La stagione 2012/13 vede San Antonio ancora ai vertici della Lega, concretizzando la quattordicesima stagione consecutiva con almeno 50 vittorie. Il quintetto base adottato da coach Pop è figlio del lavoro svolto negli ultimi anni, perché oltre a Duncan e Parker, ci sono Danny Green, Tiago Splitter e Kawhi Leonard, con Ginobili ormai cucito nel ruolo di sesto uomo. Con solo due sconfitte gli Spurs tornano alle Finals dopo sei anni. Ad attenderli i Miami Heat dei nuovi Big Three, James-Wade-Bosh. La serie vede contro due squadre che si basano su filosofie di gioco diametralmente opposte: da una parte i texani con la loro esecuzione corale e una difesa profondamente organizzata, dall’altra la squadra della Florida, che vive prevalentemente delle iniziative individuali delle proprie stelle.

In Gara 1 Duncan e soci espugnano il campo ospite grazie a un acrobatico canestro di Parker a 5.2 secondi dalla sirena, ma già in Gara 2 gli Heat pareggiano i conti vincendo 103-84 grazie a un parziale di 33-5 nel secondo tempo. Tornati all’AT&T Center i nero-argento avvertono il profumo di casa e hanno la meglio di addirittura 36 punti, crivellando di triple il canestro di Miami – 13/19 solo per la coppia Gary Neal-Danny Green. Gara 4 però riporta il vantaggio del fattore campo dalla parte di Miami, con le tre star ospiti che capitalizzano 85 punti sui 109 complessivi della squadra. La quinta partita sempre in Texas vede coach Pop lanciare Ginobili nello starting five e l’argentino risponde con 24 punti e 10 assist e trascina i padroni di casa al successo, di concerto con i 26 punti di Parker. Gara 6 è la più bella della serie. Gli Spurs vogliono chiudere i conti, gli Heat lottano per sopravvivere.

Duncan guida i suoi al +10 all’inizio dell’ultimo periodo. Mike Miller segna un’incredibile tripla senza una scarpa, che da spinta emotiva ai ragazzi di coach Spoelstra. Tuttavia gli ospiti sono ancora in vantaggio 94-89 a 28 secondi dalla fine e 95-92 nell’ultimo possesso Heat. LeBron James tira da tre per il pareggio, sbagliando. Nella tonnara a rimbalzo ha la meglio Bosh, Ray Allen alla velocità della luce si fionda nell’angolo destro, correndo all’indietro. Riceve e in un centesimo lascia andare il tiro con la morbidezza che ha contraddistinto tutta la sua carriera. Non appena la palla lascia i suoi polpastrelli si intuisce subito che non potrà finire da nessuna parte se non in fondo alla retina.

Si va al supplementare dove Miami riesce ad avere la meglio e a pareggiare la serie. Per gli Spurs è una mazzata psicologica tremenda. Due giorni dopo, in Gara 7, nonostante un punteggio sempre in bilico, la squadra della Florida cavalca l’onda dell’entusiasmo e conquista il Titolo. Secondo molti è l’ultimo ballo della squadra del Texas.

Non è questo però il pensiero dei diretti interessati. Popovich, nonostante la delusione, è convinto che i suoi possano fare meglio l’anno successivo. Una delle caratteristiche del coach è sempre stata quella di coltivare un rapporto molto particolare coi i propri giocatori. Ormai celeberrimo è il suo “going serbian”, riferito a quel momento in cui Pop prende di mira un proprio giocatore, massacrandolo, urlandogli contro ed elencandogli ogni tipo di errore commesso e l’influenza negativa provocata sul resto della squadra. Il tutto non fatto per umiliare il malcapitato, quanto per metterlo alla prova, per testarne le capacità di reazione e di gestione delle emozioni sotto stress. Lo potremmo quasi definire un rito a cui tutti, nessuno escluso, deve sottostare. Dall’ultimo della panchina fino allo stesso Duncan, nessuno è riuscito a scampare all’ostile trattamento. A questa aggressività del coach di East Chicago, si contrappone anche un atteggiamento premuroso, a volte perfino protettivo nei confronti di alcuni giocatori. È per questo che molti atleti allenati da Pop, lo hanno definito come una figura paterna, fortemente severa ma al contempo comprensiva. Proprio per questo suo atteggiamento, l’ex agente della CIA è pronto a rimontare in sella alla caccia del Titolo, nonostante la cocente sconfitta patita contro Miami.

La convinzione nel roster porta a una conferma in blocco degli uomini ha disposizione, ma Buford riesce a trovare un’aggiunta importante direttamente dal mercato dei Free Agent: il nostro Marco Belinelli, che viene da una stagione molto convincente in maglia Bulls. Inoltre si lavora fortemente col materiale umano a disposizione. Chip Engelland, dopo gli ottimi risultati ottenuti con Parker, allena incessantemente Leonard per costruirgli un tiro temibile. I risultati non tarderanno ad arrivare e saranno positivamente inaspettati. Gli Spurs che si apprestano ad affrontare la stagione 2013/14 sono il vero prodotto della Spurs Culture. Vantano infatti ben otto giocatori non statunitensi a roster – Baynes, Belinelli, Diaw, Ginobili, Joseph, Mills, Parker e Splitter.

La prima cosa che viene fatta dal coaching staff il primo giorno di allenamento, è proiettare le immagini della sconfitta patita alle ultime Finals. L’idea è quella di dare una forte motivazione ai giocatori, se mai ce ne fosse bisogno, ma soprattutto quella di far metabolizzare definitivamente l’epilogo della passata stagione. Il risultato è presto raggiunto. San Antonio gioca alla grande, chiude l’anno solare con un fantastico record di 35-7. La panchina da’ un contributo fondamentale alle prestazioni di squadra e Belinelli ricopre un ruolo fondamentale. L’azzurro si inserisce con sorprendente rapidità nel complesso gioco degli speroni, dimostrando gran gioco senza palla oltre alla consueta abilità nel tiro dalla lunga. Tanta precisione da oltre l’arco gli valgono l’invito per il 3-point Contest dell’All-Star Game di New Orleans, che Marco riesce a vincere in un avvincente shoutout contro Bradley Beal.

San Antonio chiude la Regular Season col miglior record di tutta la Lega (62-20) e si prepara ad affrontare agguerrita i Playoffs. Il primo turno si rivela più ostico del previsto. Servono sette gare per vincere il derby texano contro Dallas, che si era portata anche in vantaggio per 2-1. Se il secondo round vede una Portland eliminata senza troppa sofferenza, la finale della Western Conference propone finalmente la rivincita contro i Thunder. Nuovamente sul 2-0, gli Spurs subiscono la rimonta di OKC e i fantasmi del passato si riaffacciano minacciosi. La storia tuttavia non si ripete e i nero-argento chiudono i conti in Gara 6. Si torna alle Finals ed è ora di definire le questioni rimaste in sospeso. Dall’altra parte ci sono ancora i Miami Heat.

Gara 1 si contraddistingue per il malfunzionamento dell’aria condizionata dell’AT&T Center, con temperature estreme e seri problemi per i giocatori, in particolare per LeBron James. I Big Three degli Spurs combinano per 56 punti sui 110 della squadra e portano a casa il risultato. Gara 2 è diversa, James è incontenibile e guida una Miami che tira con una percentuale reale del 58,6%, pareggiando la serie. In Florida inizia il vero show targato San Antonio: la mossa di coach Popovich è spostare Diaw in quintetto al posto di Splitter, per garantire maggior movimento di palla. Il risultato è sconvolgente per Miami. Gli ospiti giocano una pallacanestro celestiale, precisa e concreta e vanno all’intervallo col vantaggio record di 21 punti. La sirena finale suggella il dominio texano, con Leonard autore di 29 punti e una difesa monstre su James.

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In Gara 4 la musica non cambia, Leonard e soci sono incontenibili per i padroni di casa. Si torna quindi in Texas col primo match point per la squadra di Fort Alamo. I campioni in carica non vogliono cedere lo scettro prima del dovuto, partono fortissimo nel primo quarto con un parziale di 22-6, ma i padroni di casa rispondono con un break di 37-13 che li riporta ad un vantaggio di sicurezza. Leonard è ancora una volta fondamentale (22+10), ma la panchina riveste un ruolo decisivo, in particolare grazie a Ginobili e Mills. Il quinto titolo nella storia della franchigia è finalmente realtà. Kawhi Leonard è giustamente nominato MVP delle Finals. È stato decisivo a livello offensivo a partire da Gara 3, oltre ad aver splendidamente limitato James nella metà campo difensiva. È il trionfo della Spurs Culture. Il prodotto di San Diego State è stato fortemente voluto dalla dirigenza, su di lui si è investito e lavorato tanto, ma nessuno immaginava che i progressi sarebbero stati così grandi e repentini.

San Antonio è ormai presa come riferimento per il gioco espresso, la stagione 2014/15 li vede come favoriti per la conferma del titolo. Stessi giocatori al servizio di Pop, ma l’aggiunta di coach Ettore Messina nel coaching staff. La Regular Season tuttavia si rivela più avara di vittorie rispetto al previsto. Anche se viene abbattuto il muro delle 50 vittorie per il sedicesimo anno di fila, il record finale vale solo il sesto seed a Ovest. Al primo turno arriva una pesante delusione contro i Clippers, che eliminano i campioni in 7 gare. Nonostante la continua crescita di Leonard, ormai stella della squadra presente e futura, è evidente che i Big Three siano nella fase calante della carriera, a dispetto della leadership emotiva.

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Ecco che durante l’estate 2015 viene fatta una caccia serrata a uno dei Free Agent più ambiti, LaMarcus Adridge. La sua firma sul contratto comporta una grossa novità rispetto al passato: vengono messe le mani su un all-star, un giocatore già al top a livello NBA, senza che questi sia cresciuto in casa Spurs. Il texano è visto come colui che dovrà rimpiazzare Tim Duncan. Se da un punto di vista di leadership è praticamente impossibile, sotto l’aspetto tecnico si crede che possa dominare il pitturato e riportare, insieme a Leonard, la squadra alla conquista dell’anello. All’addio di Belinelli, coincidono poi due arrivi importanti a roster, il veterano David West e Jonathon Simmons. Il numero 17 ha una storia incredibile alle spalle: anni prima ha pagato di tasca propria 150 Dollari per un provino per entrare nella D-League, compiendo poi tutta la gavetta nella Lega di Sviluppo fino a essere notato da R.C. Buford. Un tipico prodotto da Spurs Culture.

Gli speroni ritrovano lo smalto di un tempo e chiudono la stagione regolare 2015/16 con un ottimo record di 67-15, secondi solo al fantascientifico risultato dei Golden State Warriors (73-9). Nonostante questo, i Playoffs non regalano ancora la gioia sperata. Superato agilmente il primo turno contro una Memphis falcidiata dagli infortuni, le semifinali della Western Conference vedono come rivali i soliti Oklahoma City Thunder. Ancora una volta i ragazzi di Popovich si spengono improvvisamente a metà serie, passando dal vantaggio per 2-1 a una cocente sconfitta per 2-4. Non è tuttavia una eliminazione come tutte le altre. Nessuno sa che Gara 6 è l’ultima partita della carriera di Tim Duncan.

Il giorno 11 luglio 2016 il caraibico annuncia ufficialmente il suo ritiro dal basket giocato. È la fine di un’epoca. Il numero 21 ha indossato la canotta per ben 19 anni, costruendo la storia della franchigia di Peter Holt. Se ne va un giocatore unico, un autentico talento che ha dominato i parquet NBA per anni, due volte MVP della Lega, un leader molto silenzioso che è comunque riuscito a essere un punto di riferimento anche senza usare la voce. Il suo rapporto con Pop è qualcosa di unico ed estremamente profondo. La sua maglia viene ritirata quasi subito, il 18 dicembre 2016.

La prima stagione senza il proprio leader, la 2016/17, viene affrontata egregiamente dagli Spurs. Oltre alle solite acquisizioni mirate di giocatori come Pau Gasol o David Lee, ci sono anche importanti conferme come Davis Bertans. Il lettone è stato scelto nello stesso anno di Leonard e sta lentamente entrando nei meccanismi e nella rotazione della squadra. Il Draft poi ha regalato, con la scelta numero 29, il playmaker Dejounte Murray. In termini numerici, l’annata vede i texani nuovamente dietro i Warriors, seppur con un notevole record di 61-21. Vale la ventesima qualificazione consecutiva ai Playoffs, un record assoluto fra gli sport professionistici americani. La fortuna tuttavia non aiuta la franchigia di Fort Alamo.

Superati i primi due round di Post-Season contro Grizzlies e Rockets, nella finale della Western ci sono gli imbattibili Warriors. La squadra della Baia è favorita sulla carta, ma San Antonio può competere per accedere alle Finals. In Gara 1, nel terzo quarto di gioco, Leonard tira dall’angolo e ricade sul piede di Zaza Pachulia, infortunandosi una caviglia già malconcia. Le polemiche sulla volontarietà o meno del gesto del georgiano non si placheranno nemmeno a fine stagione, fatto sta che l’ex San Diego State chiude anzitempo i propri Playoffs. Senza il proprio leader offensivo gli Spurs si sciolgono e il 4-0 per Golden State è servito. L’estate nero-argento si contraddistingue per il caso Aldridge. Il numero 12 è sfiduciato, non contento della propria gestione tecnica e vorrebbe essere ceduto. Popovich mette in mostra la propria genialità e capacità di gestione dei giocatori e va a cena col texano. Il coach riconosce di non essere pienamente soddisfatto di LaMarcus ma ammette di averlo mal gestito. È un nuovo inizio, perché le cose tra i due iniziano a funzionare.

La situazione vissuta con l’ex Blazers non è niente in confronto alla tempesta che sta per abbattersi su San Antonio. Leonard inizia la nuova stagione infortunato. Come da tradizione, da casa Spurs le informazioni arrivano col contagocce, ma passano le settimane e il giocatore rimane a bordocampo. Iniziano a trapelare indiscrezioni: Kawhi è stato dichiarato pronto dai medici, ma il ragazzo non si ritiene guarito. Il mistero si infittisce, inizia una telenovela che accompagnerà la squadra per tutto l’anno. Un fatto totalmente insolito nel panorama degli Speroni. Il numero 2 gioca solo 9 partite in stagione, ma dal proprio entourage circola chiara la volontà di una cessione. Per l’intero pianeta San Antonio è un duro colpo: un giocatore figlio della Spurs Culture e designato per guidare la franchigia negli anni a venire che vuole essere ceduto. La squadra ne risente in campo. Si qualifica per il rotto della cuffia per i Playoff ma viene eliminata subito dai Warriors. L’estate del 2018 è una rivoluzione totale.

Ginobili decide di appendere le scarpe al chiodo. Se ne va un altro leader tecnico ed emotivo, un giocatore unico logorato nel fisico da anni di battaglie. Anche Tony Parker, l’ultimo dei Big Three, firma per Charlotte, motivato da voler cercare nuove sfide tecniche e maggiori minuti in campo, data l’ascesa in termini di prestazioni di Dejounte Murray. Il nuovo play titolare tuttavia si infortuna in pre-season e deve saltare l’intera stagione. Si concretizza infine la cessione di Leonard che vola a Toronto insieme a Danny Green, in cambio di DeMar DeRozan. È la fine della dinastia.

La Spurs Culture è stato ed è un fenomeno inimmaginabile e totalmente vincente, mai replicato in nessun altro contesto sportivo. Contro ogni denigratore pronto ad accusarla di essere ormai un ricordo dei bei tempi che furono, la franchigia avrà adesso una chance di rinnovarsi grazie all’aggiunta di Victor Wembanyama. Il tutto, come sempre, sfruttando a pieno i regolamenti, massimizzando il potenziale messo a disposizione e, soprattutto, sapendosi reinventare adattandosi alle evoluzioni del gioco o lanciando nuove tendenze tecniche. Una storia incredibile iniziata da oltre venti anni, che aspetta soltanto un sequel. E che, con ogni probabilità, riserverà ancora mille sorprese.


Questo è il terzo capitolo di una collana di 3 storie. Le altre due: