Il basket non gli ha salvato la vita, ma gli ha dato la possibilità di ricostruirsene una dopo anni terribili: l’epico viaggio di DJ Mbenga, dalla prigionia in Congo al Titolo NBA.

A vedere il contagioso sorriso e la fanciullesca simpatia che ne ha contraddistinto la carriera NBA, sembra impossibile credere che il passato di DJ Mbenga sia stato così duro e violento.

Oppure il contrario, perché arrivare al massimo del professionismo cestistico mondiale dopo essersi ritrovato a vivere in un centro rifugiati, dopo una rocambolesca fuga dal proprio paese con una condanna a morte pendente e un padre trucidato, non può che essere un inno alla vita e alle sue misteriose strade verso la felicità.

Sia chiaro: quella di Congo Cash non è la storia di un grande campione, il suo impatto sul basket mondiale va ben oltre il risibile.


È semplicemente l’ennesima testimonianza di come la pallacanestro possa entrare in rotta di collisione con delle anime sperdute, rivoltando il loro destino come un calzino, illuminando un cammino fino a quel momento immerso nell’oscurità.

La storia di Didier Ilunga Mbenga comincia 40 anni fa a Kinshasa, capitale dell’allora Zaire, terza città più vasta e la più popolosa dell’intero continente africano, un dedalo infinito di strade affacciato sulla riva sud del mitologico fiume Congo, motore immobile dell’Africa centrale.

L’ex colonia Belga vive in un clima di tensione costante che aleggia inesorabile dalla notte dei tempi – recentemente tornato in prima pagina anche alle nostre latitudini per l’omicidio dell’ambasciatore Luca Attanasio, in un tentativo di rapimento finito in tragedia. In principio – dalla fine del’800 – furono le missioni di depredazione delle infinite risorse dell’area da parte degli emissari di Re Leopoldo II a scatenare il terrore.

Leopoldo fu un sovrano subdolo e crudele, che riuscì a impossessarsi di un territorio enorme – 76 volte più esteso del Belgio stesso. Attraverso una certosina campagna di pubbliche relazioni, riuscì a “vendere” all’opinione pubblica l’invasione e le atrocità commesse verso i popoli indigeni come esportazione della civiltà e del progresso.

La sfera d’influenza diretta di Bruxelles sul Congo prosegue sostanzialmente fino agli anni sessanta del XX secolo.

Da allora inizia un periodo di regimi, dapprima quello filocomunista di Lumumba, a seguire quello militare sostenuto dagli Stati Uniti dello spietato Generale Mobutu Sese Seko.

FOTO: africanexponent.com

Mobutu è stato un dittatore folle e sanguinario riuscito, in modo molto poco ortodosso, a mantenere una “pace” fino alla metà degli anni ’90 quando, sulla spinta della guerra civile nel vicino Ruanda, inizia un processo di rivoluzione anche nello Zaire, che costringerà Sese Seko a lasciare il potere dopo l’ennesimo golpe, guidato da Laurent-Désiré Kabila.

Gli anni che seguirono furono fatti di grande instabilità e violente rappresaglie, con sommarie esecuzioni di tutti i sostenitori e collaboratori dell’ex dittatore Mobutu: ecco che la Storia con la S maiuscola incontra le vicende della famiglia Mbenga. Il padre di DJ ha lavorato come funzionario governativo sotto Sese Seko per oltre vent’anni: cosicché l’infanzia di Didier non è stata certo paragonabile a quella della stragrande maggioranza dei suoi coetanei in quel di Kinshasa.

La sua è una famiglia benestante, che gli ha permesso di andare in ottime scuole, imparare sette lingue, dedicarsi allo sport – è cintura nera di judo – e vivere con serenità la propria giovinezza, mentre il resto del paese soffriva tremendamente.

Ma al momento della rivoluzione e dello scoppio della guerra civile l’idillio crolla rapidamente: il signor Mbenga viene arrestato e di lui sostanzialmente non si saprà più nulla.

Come per la tristemente nota vicenda ruandese, anche in Congo è la lotta tra le tribù rivali Tutsi e Hutu a scatenare una caccia alle streghe con scia di sangue annessa, ancora oggi non arrestata.

Didier, allora minorenne, viene ingiustamente accusato di essere un Tutsi e di lì spedito in prigione per direttissima con una condanna a morte che, presto o tardi, verrà emessa senza troppi complimenti.

Purtroppo – ma in questo caso per fortuna – nell’ex Zaire, come in molte altre regioni africane, la corruzione regna sovrana e non c’è nulla che una congrua bustarella non possa risolvere.

Grazie all’intervento del fratello e della madre, con i pochi risparmi rimasti elargiti alla guardia giusta, Didier riesce a scappare dal carcere, dopo ben 9 mesi di reclusione. La prima cosa che la famiglia Mbenga fa, una volta che DJ ha lasciato il penitenziario, è recarsi all’aeroporto N’djili di Kinshasa per salire sul primo aereo, destinazione Belgio, dove arrivati verranno registrati come prigionieri politici.

FOTO: Il centro per richiedenti asilo di Kapellen, Google Maps

Nel centro per richiedenti asilo di Kapellen, sobborgo alle porte di Anversa, la famiglia Mbenga riesce finalmente a trovare un po’ di stabilità e mentre il processo per il ricevimento della nazionalità belga comincia, DJ deve trovare un modo per passare le sue giornate.

Giornate difficili, in cui gli operatori del centro cercano di coinvolgere, soprattutto i più giovani, in varie attività volte anche all’elaborazione di ciò che hanno vissuto. Didier non è molto incline a parlare del proprio passato: vuole solo dimenticare e andare avanti con la propria vita.

Si aggira per la località delle Fiandre con gli occhi giganti e un sorriso infinito, quello di chi è riuscito a scappare dall’inferno, venendo istantaneamente “adottato” dalla popolazione locale.

Per altro, è piuttosto complesso non notarlo: grazie ai geni paterni, si ritrova un’armatura di 213 centimetri e oltre 115 kg scolpita nel marmo, una presenza che incuterebbe automatico timore se Didier non fosse un ragazzo estremamente educato e gentile. Il momento che cambia la sua vita è talmente randomico che se l’avessimo visto in un film avremmo pensato alla pigrizia dello sceneggiatore.

Mentre si trova sotto la pensilina della fermata di un bus in centro a Kapellen, l’ex nazionale di basket Willy Van Damme, residente nel paese e legato alla società del Racing Antwerp, lo scambia per un giocatore americano e lo approccia incuriosito.

DJ gli racconta sommariamente la sua storia e a questo punto Van Damme si convince di trovarsi all’appuntamento con il destino e che Mbenga, con quel fisico, possa essere un crack per il basket fiammingo.

Non fosse che Didier non ha mai neanche toccato un pallone prima di allora, alla vigilia del suo diciannovesimo compleanno.

È una missione quasi disperata, ma data la base di partenza fisica può valer comunque la pena tentare: Van Damme prende il telefono e contatta la leggenda del basket belga per eccellenza, Willy Steveniers – detto l’Imperatore – una sorta di Bob Cousy europeo, inserito nel 1991 nella lista dei 50 migliori giocatori della storia della FIBA.

 

Steveniers, che è un grande talent scout e ha lavorato con moltissimi prospetti del basket belga, decide di dare un’occhiata a questo ragazzone africano, dandogli appuntamento al campetto di Gemeentpark. Didier è molto motivato, ma i suoi primi approcci con la spicchia sono un disastro.

Ciononostante, Steveniers si convince di poter fare di lui un giocatore.

I primi esercizi con il pallone furono davvero al limite della comicità, ma Didier era uno degli atleti più clamorosi che avessi mai visto in Europa. Nonostante l’altezza e la stazza aveva una velocità di piedi incredibile: forza, controllo del corpo, agilità. Capii subito che poteva diventare un grande centro.

Tra i due nasce un rapporto simbiotico che va ben oltre quello di allenatore-giocatore, con Willy che diventa per Mbenga una nuova figura paterna.

Dopo neanche due anni di allenamenti, Didier ha basi sufficienti per giocarsela con i professionisti. Viene ingaggiato dallo Spirou Gilly, nella seconda divisione belga. Basta una stagione per essere notato da diverse compagini della massima serie: la prima a offrirgli un contratto sono i Bears di Leuven, con cui disputa il campionato 2002/2003. In quella stessa estate, su consiglio di Steveniers, DJ si dichiara eleggibile al Draft, assolutamente consapevole del fatto che non vi saranno molte possibilità di strappare una chiamata: la strategia è quella di lanciare il nome del congolese nel mondo del basket che conta, in modo che un numero maggiore di addetti ai lavori possa conoscerlo e fare qualche ricerca sul suo conto.

Le qualità del congolese sono prevedibili: rimbalzi, intimidazione, stoppate, blocchi granitici. A Mbenga non sono richiesti 20 punti a partita, la sua sola presenza in campo è sufficiente a influenzare gli attacchi avversari, soprattutto in un contesto di livello non eccelso come il campionato belga.

Nell’estate del 2003 Didier viene acquistato dallo Spirou Charleroi, una delle società più gloriose del paese, una seria contender per il titolo finale, che non a caso arriva alla fine dell’anno.

L’ascesa di DJ è vertiginosa: nel 1999 tocca un pallone per la prima volta, nel 2004 vince un titolo nazionale da protagonista. Senza neanche volerlo, le sirene della NBA cominciano a suonare.

Crescendo non sapevo neanche cosa fosse l’NBA. Il mio sogno era finire gli studi, laurearmi, trovare un buon lavoro, continuare con il judo, uno sport che amavo e che mi ha dato tanto. Ma quando ho trovato la pallacanestro ho abbracciato questo nuovo percorso, ho pensato fosse il volere divino. E la NBA a quel punto era il massimo a cui potessi aspirare.

Chi, se non Donnie Nelson, sempre così attento al basket del vecchio continente, poteva interessarsi a Mbenga. Nell’estate del 2004 DJ partecipa alla Summer League coi Mavericks, lasciando tutti a bocca aperta: da dove salta fuori questa forza della natura? Inoltre il suo atteggiamento, propositivo e aperto all’insegnamento, lascia ben sperare riguardo ai suoi margini di miglioramento.

I Mavs decidono di offrirgli un biennale da 3 milioni e mezzo di dollari, disegnando per lui un ruolo di rincalzo a Erick Dampier, visto che l’altro centro, Shawn Bradley, è a un passo dal ritiro.

L’arrivo al di là dell’Oceano segna anche la fine brusca e persino con strascichi legali del suo rapporto idilliaco con Willy Steveniers.

In un’intervista a un quotidiano locale, la leggenda del basket belga si lascia andare a dei commenti piuttosto pesanti nei confronti di DJ, definendolo “un ingrato”.

Non ha seguito le mie linee guida, ha scelto altre persone per seguire i suoi affari e sostanzialmente mi ha tradito. Ha cominciato a mentire, a firmare contratti alle mie spalle con agenti: mi ha ferito, gli avevo dato tutto.

Steveniers aveva fatto firmare a Mbenga un contratto dalla dubbia valenza legale per il quale il mentore del congolese avrebbe ricevuto un 10% di tutti guadagni futuri del suo discepolo. I due finiscono in tribunale, tra accuse di diffamazione e truffa. Conseguenze penali non ve ne saranno, eccetto un risarcimento economico che il congolese riceverà – ma il rapporto è compromesso per sempre e a quanto risulta i due non si parlano dall’estate 2004 quando, sulla terrazza del ristorante della famiglia Steveniers ad Anversa, DJ annunciò il suo prossimo approdo negli Stati Uniti.

Purtroppo le stagioni in Texas sono martoriate dagli infortuni, tra cui il tanto temuto ACL che gli salta nel febbraio del 2007, dopo che in estate aveva raggiunto un prolungamento di contratto. Perché negli scampoli di partita che è riuscito a giocare, Mbenga sembra comunque un ottimo fit per una second-unit NBA: fa quello che deve e torna a sedersi in panchina, perfetto uomo squadra, conscio dei propri limiti, dote sottovalutatissima ma fondamentale per assicurarsi un futuro roseo nella Lega.

Un episodio che riassume che tipo di presenza può essere in uno spogliatoio avviene durante una gara delle Western Conference Finals tra Dallas e Phoenix del 2006.

La moglie del coach dei Mavs Avery Johnson si avventura in un battibecco con due tifosi dei Suns leggermente su di giri: quando la situazione sembra farsi minacciosa, DJ si alza dalla panchina e corre sugli spalti, non con intenti aggressivi, ma solo per portare via la signora Johnson ed evitarle guai peggiori. Secondo le regole della Lega – che dopo i fattacci di Auburn Hills diffida i giocatori dal lasciare la loro aera tecnica – Mbenga viene sospeso per diverse partite, ma il gesto non viene condannato da nessuno della società: l’episodio, per altro, lo rese estremamente popolare tra i tifosi texani, con la sua maglietta che incredibilmente divenne tra le più vendute durante l’estate.

Nel novembre del 2007, recuperato il brutto infortunio, i Golden State Warriors lo mettono sotto contratto, salvo tagliarlo il giorno dell’Epifania. Il destino a questo punto non sembra dei più promettenti, ma una settimana dopo Andrew Bynum, il centro titolare dei Los Angeles Lakers con serie intenzioni di Titolo, si fa male al ginocchio, costringendolo a saltare il resto della stagione. Phil Jackson vuole un lungo in grado di dare minuti d’intensità sotto le plance e quella del congolese sembra una soluzione low cost del tutto percorribile. I gialloviola gli offrono un decadale, poi un secondo, finché a metà febbraio Mitch Kupchak gli fa firmare un contratto per il resto della stagione.

In California disputa due stagioni e mezzo, con tre Finals raggiunte e due anelli – dire da attore non protagonista è dir poco – ma la sua presenza nello spogliatoio è riconosciuta da tutti come positiva, impeccabile, determinante. Il suo rapporto con Kobe è di quelli preferenziali: il Mamba lo adotta e ne apprezza la fantastica etica del lavoro, conditio sine qua non per ricevere un trattamento di favore dal 24. Durante le Olimpiadi di Pechino del 2008 Mbenga scrive quotidianamente a Bryant, accertandosi delle sue condizioni psico-fisiche, tale è l’affetto sincero e l’ammirazione sconfinata nei suoi confronti.

Kobe ha sempre voluto imparare qualche parola dai propri compagni internazionali, per stimolarli con il loro idioma nativo quando ve ne fosse stata la necessità. Così che, quando durante un Celtics-Lakers, a Mbenga tocca l’arduo compito di marcare Kevin Garnett, il Mamba si girò verso DJ e in perfetto gergo Lingala a lui si rivolse dicendogli “Fatti trovare pronto”, lasciando il congolese e KG esterrefatti.

A Kobe si deve anche il soprannome con il quale tutti lo ricorderanno – Congo Cash – nato in allenamento per l’efficacia dei suoi movimenti e reso immortale dai due momenti più alti della sua carriera: una gara contro Minnesota e una contro New Orleans, in cui mostra tutta la sua devastante fisicità da rim protector.

La straordinaria finestra losangelina è chiaramente l’apice della carriera di DJ, che proseguirà con qualche manciata di minuti ancora in NBA – NOLA – e due avventure esotiche in Cina e Filippine, senza grandi picchi, prima di avviarsi sul viale del tramonto.

Spesso da molti giocatori si sente usare il luogo comune – non per questo meno vero – secondo il quale il basket ha salvato loro la vita, altrimenti destinata a esiti nefasti.

Nel caso di Didier non si può dire altrettanto.

La sua vita è stata davvero in pericolo diretto e per alcune circostanze romanzesche si è salvato. Sicuramente però, attraverso la pallacanestro – e le persone che lo hanno aiutato ad abbracciarla – è riuscito a lasciarsi il proprio passato alle spalle e a costruirsi un futuro radioso e pieno di straordinarie opportunità.

Opportunità che spesso molti giovani che arrivano in Europa nei centri per rifugiati non hanno, soffrendo particolarmente l’essere catapultati in una realtà cosi diversa, che sovente non li accoglie nel migliore dei modi.

Grazie al basket siamo anche venuti a conoscenza della sua storia, che per lui rappresenta ancora oggi un trauma difficile da superare: per anni raccontarsi è stato un vero tabù, come ogni manuale sulla sindrome da stress post traumatico potrebbe insegnare.

Dopo la carriera agonistica, DJ è tornato in Belgio, dal quale porta avanti il lavoro della Mbenga Foundation, lanciata una volta arrivati i primi soldi americani con l’obiettivo di aiutare i bambini della Repubblica Democratica del Congo. L’arrivo della pandemia, e la morte della sorella Yvonne proprio a causa del Covid, hanno fatto concentrare il lavoro della fondazione proprio sulle risorse per combatterla in Congo, donando milioni di mascherine, guanti e igienizzanti al suo paese d’origine.

È stata durissima vedere morire mia sorella qui in Belgio, il che mi ha fatto pensare a quanto potesse essere ancora più difficile la situazione in Congo. Faremo il possibile per aiutare tutti, soprattutto bambini, donne e anziani del mio paese. Il tutto nel ricordo di Yvonne”.

Come direbbe Kobe, ancora una volta: Congo Cash baby, gettin’ it done.