Da oltre 10 anni Seattle è senza una franchigia NBA, costretta a vivere dei ricordi del glorioso passato che fu. Come l’improbabile cavalcata alla fine degli anni ’70, fatta di due Finals consecutive e un insperato anello raggiunto. 

Ormai è da oltre 15 lunghe stagioni che il basket NBA – fatta eccezione per qualche misera gara di pre-season – non passa dallo stato di Washington e, nonostante si sia aperto qualche spiraglio negli ultimi anni, i tifosi di Seattle restano ancora senza una franchigia. E se c’è una città che merita una franchigia, questa è senza dubbio Emerald City.

Una città particolare, unica nel panorama americano, diventata negli ultimi decenni un polo avanguardistico per aziende tecnologiche e start up, pur mantenendo un’anima artistica radicata ed estremamente feconda.La sua gente è così: appassionata, creativa, grande lavoratrice. Ci trovi dal giovane imprenditore al musicista scapestrato, dall’hipster sarcastico al ruvido portuale.

Lo sport ha sempre trovato terreno fertile nel punto all’estremo nord ovest del paese. Dai Seahawks della NFL, ai Sounders della Major League, dai Mariners nel baseball fino al ritorno recente in NHL, con i Kraken: la passione di Seattle per le proprie squadre è seconda a pochissimi altri cittadini americani.


Eppure, nessuna di queste squadre ha mai neanche lontanamente scaldato il cuore dei seattlites come i Supersonics. Certo, i Seahawks hanno trionfato al Superbowl nel 2013 e i Sounders hanno vinto due titoli negli ultimi cinque anni; grandi risultati hanno ottenuto anche le Storm nella WNBA, campionesse nel 2018 e 2020.

Tutti questi successi, però, non hanno fatto altro che ricordare come mancasse una rappresentanza nello sport di gran lunga più praticato in città, nella Lega più importante del mondo.

Il 13 aprile 2008, data dell’ultima partita casalinga giocata dai Supersonics, è ancora scolpito come un trauma nel codice genetico di Seattle.

“Save our Sonics” recitavano cori e cartelli alla Key Arena, mentre Kevin Durant, quasi con le lacrime agli occhi, lasciava il campo insieme ai suoi compagni. Tutti i tifosi sugli spalti, in quegli attimi, devono aver ripensato a un qualche episodio dagli oltre 40 anni di storia della franchigia.

Il tempo è crudele: più avanza più tende a offuscare ciò che fu in passato.

Per molti, i Sonics sono esclusivamente l’iconica versione vista negli anni ’90, trainata dalla forza prorompente di Gary Payton e Shawn Kemp, suggellando il proprio percorso con le Finals del 1996, perse per mano di Sua maestà MJ e i Bulls del 72-10.

Ma il vero apice del basket a Seattle si è toccato alla fine degli anni ’70, quando una squadra senza una vera stella riconoscibile ha raggiunto le Finals due anni consecutivi, sfiorando un Titolo e portandone a casa un altro, guidati da un allenatore geniale e proponendo un gioco che era la perfetta incarnazione dello spirito della città.

Poco prima del natale 1966, a due imprenditori californiani, Sam Schulman e Eugene Klein, viene affidata una nuova franchigia NBA che opererà da quel di Seattle: la città, allora, è estremamente diversa da come si presenta oggi.

La crisi post bellica viene attutita dalla presenza della azienda Boeing, che comincia a diventare una vera e propria forza monopolista nel campo del trasporto aereo commerciale. A conferma di ciò, nel 1962, Seattle ospita l’Expo, reazione al successo della missione sovietica Sputnik.

Il tema della fiera mondiale di quell’anno è “L’uomo nell’era dello spazio”: non a caso, per l’occasione, viene costruito quello che diventerà il simbolo della città, lo Space Needle. Negli anni successivi, però, la Boeing perde diversi appalti governativi che, sommati alla crisi petrolifera, provocano un ridimensionamento dell’azienda principale della città, con conseguente fuggi fuggi di molti abitanti.

Lo spopolamento di Seattle diventa una sorta di inside joke, consacrata da uno storico cartellone apposto da un’agenzia immobiliare in uscita dalla città, che recitava: “Will the last person leaving Seattle – Turn out the lights?”.

Dal canto suo la squadra, dopo alcune fisiologiche annate di ambientamento nel professionismo, cerca la svolta quando, nel 1969, porta in squadra Lenny Wilkens col ruolo di giocatore allenatore, reduce da 8 anni a St. Louis in cui si è affermato come una delle point guard più forti della Lega.

I Playoffs non arrivano, ma i miglioramenti sono tangibili: i Sonics crescono ogni anno fino ad arrivare nel 1972 alla prima stagione vincente della storia della franchigia.

Wilkens è il miglior assistman della Lega, segna oltre 20 punti ad uscita, in più cerca di insegnare ai giovani della squadra i precetti di una pallacanestro moderna e innovativa: la cosa comincia a diventare un po’ troppo faticosa anche per un futuro hall of famer come lui.

Cominciai a rendermi conto che per diventare un coach di successo avrei dovuto mollare il basket giocato. Ho provato a inculcare nei miei compagni nuovi concetti, trappole, raddoppi, abbiamo cercato di sviluppare un gioco più sofisticato. Molti dei giocatori nuovi che arrivavano dal college non conoscevano davvero il gioco, insegnare e spiegare loro queste situazioni richiedeva molto tempo, che nella posizione di allenatore-giocatore non si ha a sufficienza.

Quella stessa estate viene chiamato ad allenare Tom Nissalke, lasciando Wilkens a concentrarsi solo sul basket giocato, ma il nuovo allenatore ha altri piani che non includono Lenny, allora già 35enne, la point guard titolare più anziana della Lega.

Così Wilkens viene spedito ai Cleveland Cavaliers, causando una scossa di ira funesta da parte dei tifosi locali che vedono partire il primo simbolo della storia della loro franchigia: centinaia di abbonati lanciano una petizione dall’inequivocabile nome di “If Lenny goes, I stay home”.

La partenza del leader spirituale e non solo della squadra causa un contraccolpo immediato, e la stagione si chiuderà con sole 26 vittorie e l’allontanamento immediato di coach Nissalke.

Gli anni successivi saranno caratterizzati dalla presenza carismatica di Bill Russell che diventa head coach e general manager della squadra. Con la leggenda dei biancoverdi in cabina di comando, i Sonics raggiungono i Playoffs per due stagioni consecutive e cominciano a mettere insieme i pezzi che la porteranno da una squadra giovane e inesperta a una potenziale contender per il Titolo.

È l’estate del 1977: Russell lascia, criticato per il suo stile troppo ruvido e difensivista. Il nuovo capo allenatore è il giovane coach Bob Hopkins, alla prima esperienza tra i professionisti. Ma la vera notizia è il ritorno a Seattle di Lenny Wilkens, nel frattempo ritiratosi, che viene assunto nel ruolo di director of player personnel.

Dopo sole 22 partite dall’inizio della stagione, i Sonics si ritrovano con un record di 5-17 e coach Hopkins viene non troppo delicatamente defenestrato. A questo punto la cosa più logica e rimettere Wilkens dove gli compete: si sono persi già troppi anni.

Il suo primo discorso alla squadra è ancora leggendario in quel di Seattle.

Entrò in spogliatoio e con tono pacato ci disse: “Voi siete degli ottimi giocatori, siamo una buonissima squadra, possiamo sicuramente toglierci delle soddisfazioni”. Io mi voltai: dev’esserci qualcun altro, è impossibile che stia parlando con noi, perché facciamo schifo…(Wally Walker, ala dei Sonics dal 1977 al 1982)

Gli uomini a disposizione di Wilkens non hanno moltissimi estimatori nel resto della Lega, ma nella sua idea di pallacanestro sembrano essere perfetti per lo scopo: un misto di giovani affamati e veterani affidabili, che sotto la sua guida danno vita a degli allenamenti estremamente competitivi che migliorano come gruppo ad ogni sessione.

Dal draft è appena arrivato un certo Jack Sikma, rimbalzista d’elite dalla mano educatissima. L’anima difensiva della squadra è consolidata poi da due enforcer come Paul Silas, leggendario bicampione coi Celtics e Lonnie Shelton, che sconsiglia a chiunque di entrare in area con la sua presenza minacciosa.

Wilkens punta molto sull’attacco in transizione, ripartenze veloci dopo una difesa asfissiante. Per fare ciò ha due giocatori praticamente perfetti in Gus Williams, detto The Wizard, un folletto imprevedibile, scattante e mortifero dalla media distanza e Dennis Johnson, difensore straordinario in uno contro uno, competitor come pochi, che trova sempre il modo di segnare nel traffico.

A concludere il core della squadra Fred Brown, vera bandiera dei Sonics, ai quali sbarca dopo il college nel 1971 e che lascerà solo a fine carriera nel 1984: un giocatore che avesse potuto giocare più anni in una NBA con già la linea del tiro da tre sarebbe ricordato come uno dei primissimi specialisti.

Risultato? Dal cambio in panchina, i Sonics chiudono la stagione con 42 vittorie sulle 60 gare rimanenti, arrivando ai Playoffs e addirittura spingendosi fino alle prime NBA Finals della propria storia, dopo aver eliminato i Lakers di Abdul-Jabbar, i campioni in carica di Portland e i favoriti Denver Nuggets.

Ricordo ancora bene che, quando ho ripreso in mano la squadra, la maggior parte dei GM e altri addetti ai lavori mi dicevano che era la peggior squadra della Lega. Quando invece ho ribaltato la squadra e abbiamo cominciato a vincere improvvisamente tutti dicevano “Beh, si vedeva che avevano talento…”

Ognuno aveva il suo ruolo, ognuno sapeva cosa fare: i Sonics sono una squadra in missione e, pur partendo sfavoriti, sanno di giocarsi una grande chance contro i Washington Bullets di Elvin Hayes e Wes Unseld.

La città di Seattle aspetta questo momento con ansia e la passione attorno alla squadra raggiunge dei picchi clamorosi. In occasione di Gara 4, le Finals vengono spostate dal Seattle Center Coliseum al Kingdome, la casa dei Seahawks: 39.457 tifosi assistono alla partita, allora record di tutti i tempi per una partita di pallacanestro.

I Supersonics si portano sul 3-2 e hanno ben due match point per chiudere in bellezza una stagione straordinaria; ma la maggiore esperienza dei giocatori dei Bullets esce e sia Gara 6 che la drammatica Gara 7 a Seattle sono due partite a senso unico e Washington diventa campione NBA.

Una mazzata tra capo e collo che rischierebbe di far crollare i sogni di una franchigia giovane, se non fosse guidata da un maestro come Wilkens, che non si è mai scomposto un giorno della sua vita. Per la stagione successiva, la squadra resta pressoché invariata ma coach Lenny la definisce comunque una squadra completamente diversa.

L’anno scorso abbiamo giocato sull’onda delle emozioni, il cuore ci ha portato oltre i nostri limiti in moltissime situazioni. Questa stagione invece sarà figlia dell’esperienza che abbiamo fatto e sono certo saremo pronti a ripeterci e magari andare anche oltre.

Mai dubitare del venerabile maestro.

Ben sette giocatori vanno in doppia cifra di media, epitome della forza e coesione di un gruppo orchestrato alla perfezione e i Supersonics chiudono la regular season con il secondo miglior record della Lega. Ancora una volta, parte tutto dalla difesa: la media di punti concessi a partita alle avversarie è di 103, di gran lunga il miglior risultato della NBA.

Nella Eastern Conference i Bullets ancora una volta sono i favoritissimi, chiudendo la stagione con il miglior record della Lega e raggiungendo nuovamente le Finals dopo due Gare 7 consecutive contro gli Atlanta Hawks e i San Antonio Spurs.

Seattle si libera ancora una volta dei Lakers in 5 gare alle Conference Semifinals e al penultimo gradino prima delle Finals ritrova i Phoenix Suns, avvelenati dalla cocente sconfitta dell’anno precedente.

Dopo due comode vittorie nelle prime due gare della serie, la sensazione è che i Sonics possano chiuderla con uno sweep, al massimo in 5 gare: Phoenix non dà la sensazione di poter giocare meglio di quanto avesse fatto nei primi due episodi della tenzone.

In Gara 3 Alvan Adams, centro titolare dei Suns, si fa male alla caviglia, lasciando contro la stella in ascesa Sikma una riserva estremamente undersized come Joel Kramer, che in 5 anni in Arizona ha tenuto una media di soli 3.8 punti a partita. Massacro annunciato? Niente affatto: Sikma, forse destabilizzato dall’atipicità e la maggiore fisicità del suo avversario diretto, non vede più il canestro. Anche Gara 4 ha lo stesso copione e Phoenix, a sorpresa, pareggia la serie.

Per la cruciale Gara 5 si torna a Seattle, al Kingdome riempito di oltre 35mila cristiani: i Sonics sono sicuri di poter riprendersi l’inerzia della serie. Invece Phoenix, trascinata dal suo leader Paul Westphal, infligge agli uomini di Wilkens un parziale di 33-25 nell’ultimo quarto, aggiudicandosi la partita, e guadagnandosi un match point per l’accesso alle Finals.

Perdi una partita del genere, ti ritrovi a un passo dall’eliminazione e dovresti farti prendere dal panico, ma noi abbiamo mantenuto la calma, soprattutto grazie a Lenny Wilkens, un coach che non ha mai perso l’aplomb in nessuna occasione. Ma eravamo consci della gravità del momento, le probabilità non erano più delle migliori…

(Wally Walker)

In effetti, nella storia dei Playoffs NBA, una squadra che si ritrova sul 3-2 vince la serie l’83% delle volte. Mettici anche che Phoenix ha vinto le ultime 16 partite giocate in casa consecutivamente: Seattle sembra essere seriamente nei guai.

Gara 6 è una partita leggendaria nella storia della Lega: Seattle sente il peso della storia di quel momento e ognuno degli uomini di Wilkens la gioca come fosse l’ultima della propria vita.

A 20 secondi dalla sirena Gus Williams manda a segno un jumper che riporta in vantaggio i Sonics sul 106-105. Dall’altra parte Walter Davis manda lungo il tiro per il contro-sorpasso, ma Sikma si fa sfuggire il rimbalzo: la palla rotola fuori dal campo dando ai Suns un’ultima possibilità con due secondi sul cronometro.

Westphal e Davis sono tallonati da Jonhson e Shelton, la rimessa finisce nelle mani di Gar Heard, l’ex della sfida, che prende un tiro che in carriera ha segnato a ripetizione. Sul close out arriva Sikma.

L’ho ostacolato il più possibile, mi sono detto “Se va dentro bravo lui!”. Quando la palla è uscita è stato come scrollarsi di dosso un peso enorme. Abbiamo reagito da grande squadra a un momento di grande pressione. È stato un momento decisivo anche per me a livello personale, di convinzione.

I Sonics allungano la serie a Gara 7, che nonostante una furiosa rimonta nell’ultimo quarto dei Suns, è senza storia. Proprio Sikma segna 33 punti con 11 rimbalzi e Seattle è di nuovo in finale, pronta a lanciare la sfida a Washington.

Gara 6 con Phoenix ha dato agli uomini di Wilkens una spinta decisiva, la convinzione che il destino fosse dalla loro parte, e tranne gara 1 in quel di Washington, la rivincita delle Finals del 1978 è sostanzialmente una passeggiata di salute.

La coralità, i meccanismi dei Sonics sono al limite della perfezione e il futuro scudiero di Larry Bird ai Celtics, Dennis Johnson, gioca una serie sontuosa chiusa col titolo di MVP: Seattle è campione NBA per la prima – e ultima – volta nella sua storia, dopo sole 5 partite.

Il simbolo del trionfo è Gus Williams che, al termine della gara decisiva, lascia scorrere il cronometro fino al suo esaurimento per poi lanciare il pallone in aria, come fosse un macigno posizionato sulla sua schiena da più di un anno.

Appena l’ho lanciato in aria, in preda alla felicità mi sono reso conto che era stato un errore: dovevo tenermelo stretto e portarlo in spogliatoio, nasconderlo in una cassaforte. Oggi quel pallone varrebbe oro…

Come l’anno prima, un titolo vinto in trasferta, ma a parti invertite: i tifosi di Washington tributano una standing ovation davvero commovente ai rivali, consci di aver perso contro una squadra fantastica, e nulla possono recriminare ai propri giocatori.

Ma l’accoglienza dei tifosi Sonics in quel di Seattle è comunque un’altra cosa: decine di migliaia all’aeroporto, circa 200mila persone invadono le strade per la parata celebrativa il giorno successivo. Piooner Square, da dove parte tutto, sembra Parigi dopo la liberazione, travolta da un’ondata di euforia ed entusiasmo che prosegue tutta la notte.

Dal palco della parata Sam Schulman da appuntamento all’anno seguente per un altro Titolo, ma non sa che l’NBA sta per cambiare faccia.

Dal Draft dell’anno precedente è arrivato un ragazzo bianco dell’Indiana, in quella stessa estate sbarcherà a L.A. un certo Earvin Johnson e la Lega introdurrà il tiro da 3 punti: una rivoluzione Copernicana.

41 anni dopo viene dichiarato il decesso dei Sonics e sarà pur vero che il tempo guarisce ogni ferita, ma per i tifosi di Seattle questo è un assunto falso come Giuda.

Una cosa è certa: una prossima espansione della Lega è una questione di “quando” più che di “se”.

Una piazza come Emerald City è nelle discussioni e come potrebbe non esserlo. Siamo certi che una franchigia tornerà e tornerà col nome che ha sempre avuto ed è stato cristallizzato per Seattle: nessuno potrà portaglielo via.

Da oltre 10 anni Seattle è senza una franchigia NBA, costretta dei ricordi del glorioso passato che fu. Come l’improbabile cavalcata di fine degli anni ’70, fatta di due Finals consecutive e un insperato anello raggiunto.