Il Campione NBA 2016 ha aperto la strada ad una delle più importanti e complesse discussioni della nostra era: il dibattito sulla salute mentale. E lo ha fatto in un ambiente per nulla facile.
5 novembre 2017. Pochi minuti dopo l’intervallo della partita tra i Cleveland Cavaliers di LeBron James e gli Atlanta Hawks, Kevin Love lascia il campo dopo un timeout.
Rientra in spogliatoio correndo, sperando solo che la sua tachicardia si plachi. Nessuno si è accorto di nulla, se non coach Tyronn Lue, ma lui sente che il suo corpo gli sta dicendo qualcosa di molto grave.
“You’re about to die”.
Da quel momento in poi, come lo stesso #0 ha raccontato nella sua lettera a The Players’ Tribune Everyone is going through something, tutto diventa nebuloso, e qualcuno dello staff lo ha accompagnato in ospedale, dove è stato rilevato che era tutto in ordine.
Eccola, la prima presa di coscienza: Love si rende conto di aver subito un attacco di panico, parte di un problema di salute mentale che, a sua detta, ha ignorato per più di 20 anni.
A questa ne seguirà, inaspettata, un’altra pochi mesi dopo.
Una seconda doccia fredda, un campanello d’allarme che stimolerà definitivamente la sua volontà di condivisione: è arrivato il momento di parlare.
Le radici
Kevin Love, classe ’88 di 203 cm per 114 kg, è figlio della California del Sud più reale nel suo essere realmente glitterata, di quella Santa Monica dalla quale suo padre arrivò per primo nella NBA vestendo la maglia dei Los Angeles Lakers e suo zio fondò gli indimenticabili Beach Boys.
Dopo un breve ma intenso amore per il baseball, la sua prima educazione cestistica ebbe la meglio, avendo come primi modelli mostri sacri del calibro di Earl ‘The Pearl’ Monroe – meglio noto come Black Jesus – e Connie ‘The Hawk’ Hawkins. Quest’ultimo è il motivo per cui il nostro ha iniziato la carriera con il numero 42, ma soprattutto è stata una delle primissime star – con la canotta dei Phoenix Suns – della NBA post fusione; di lui, newyorkese cresciuto a Rucker Park ed MVP della ABA in quel di Pittsburgh, ha detto Larry Bird:
“È stato Elgin prima di Elgin, Julius prima di Julius, Michael prima di Michael. È stato semplicemente a livello individuale, il più grande giocatore che io abbia mai visto”
“È stato Elgin prima di Elgin, Julius prima di Julius, Michael prima di Michael. È stato semplicemente a livello individuale, il più grande giocatore che io abbia mai visto.”
Molto giovane, per seguire la carriera del padre nella Lega, si trasferisce sulle sponde del Lake Oswego in Oregon, diventando uno della lunga lista di liceali di Portland arrivati tra i professionisti: si sfida ad esempio con la scuola di Terrence Ross.
Sempre sulle orme del padre, Kevin deve affrontare la sua prima scelta professionale: dove andare al college.
Stan Love giocò per gli Oregon Ducks, lasciando un ricordo talmente buono che da quelle parti si presumeva arbitrariamente che Kevin ne avrebbe raccolto l’eredità.
Contro le aspettative, Kevin rinuncia al percorso per lui tracciato e alle lusinghe di Roy Williams – veterano già all’epoca – optando per UCLA. La squadra che andava a vedere da bambino, che l’avrebbe riportato a casa, dove nello staff avrebbe trovato tra gli altri vari amici di famiglia.
Nell’ultima terra dei pionieri non la prendono bene, arrivando anche a minacce ed altri episodi deprecabili, piuttosto rari negli States. Non la prende bene però neanche Kevin, che in una delle partite più antiche e sentite della PAC10 gioca la sua miglior partita a livello collegiale.
In questi highlights c’è già praticamente tutto.
La peculiarità di Love è stata essere sempre uguale a se stesso, almeno dal punto di vista tecnico: il dominio a rimbalzo, il rilascio vellutato specialmente da oltre l’arco, gli outlet passes.
In questo è sempre stato eccellente, su questo ha sempre puntato, a qualsiasi livello.
Questa squadra, nella campagna collegiale del 2008, arriva fino alle Final Four di San Antonio, dove in semifinale perdono contro i Memphis Tigers di Derrick Rose, poi a loro volta sconfitti in finale dai Kansas Jayhawks del Most Outstanding Player Mario Chalmers.
Nel suo roster contava Luc Mbah-a-Moute, Darren Collison e Russell Westbrook.
Quella di Westbrook è una delle storie più interessanti in ambito di late-bloomers.
L’altro figlio di LA, infatti, è stato capace in più occasioni di sfruttare le insperate opportunità offertegli dal destino.
La prima chance arriva grazie a Jordan Farmar, che rendendosi eleggibile per il draft apre uno spot per lui roster, altrimenti il futuro MVP 2017 sarebbe finito a Creighton.
In seguito arriva anche l’occasione di passare da guardia difensiva con 20 minuti a partita a playmaker titolare a causa dell’infortunio di Collison, fino alla pick dei Seattle Supersonics con la numero 4, appena una prima del nostro, con la quinta a Minnesota.
Oh Minnie, where art thou?
Western Conference Finals 2004: i Minnesota Timberwolves di Sam Cassell, Latrell Sprewell e Kevin Garnett arrivano ai playoff da seed #1.
Dopo un’eroica serie in 7 partite contro i Sacramento Kings, i Wolves si piegano soltanto davanti ai Los Angeles Lakers di Kobe e Shaq, che a loro volta cederanno il passo ai Bad Boys di questo secolo, ovvero i Detroit Pistons dell’MVP delle Finals Chancey Billups.
Da questo momento dovranno passare 14 anni prima che i Timberwolves griffati Jimmy Butler e Tom Thibodeau tornino a giocare in postseason, per una triste uscita 4-1 contro i Rockets di James Harden.
Di questi 14 anni, circa la metà passano con le speranze riposte – quasi – in toto su Kevin Love, il quale in maglia T’Wolves gioca, al Madison Square Garden, probabilmente il suo career game, incantando la Mecca con 31 punti e 31 rimbalzi – statline prima di lui messa a segno soltanto nel lontano 1982 da Moses Malone.
I problemi con la franchigia delle Twin Cities iniziano subito già nel 2009, il suo anno da sophomore.
Minnesota all’epoca è sotto l’egida di David Kahn, il quale sia somaticamente sia per narrativa ricorda uno di quei personaggi “cattivi” dei fratelli Coen, senza scrupoli ma con ancor meno longevità.
Al draft del suddetto anno la franchigia si ritrova con tre scelte al primo giro, e arrivano Ricky Rubio alla 5, John Flynn alla 6 – non siete voi a non conoscerlo, è proprio lui che per lasciare tracce di sè ha dovuto far carriera in Australia – e Wayne Ellington alla 28.
Per quanto sia retorico ripetere che il draft non è una scienza esatta, è evento alquanto noto che nel 2009 alla #7 sia stato scelto Stephen Curry.
Il primo dissapore è rappresentato dalla trade che vede protagonista Al Jefferson, centro col quale per motivi fisici Love non è mai riuscito davvero a giocare e viceversa: entrambi avrebbero voluto provarci.
Poi il knuckle-gate e la rottura definitiva, ovvero l’offerta del rinnovo per 4 anni e non per 5, com’è d’uso comuno. Evidentemente non in Minnesota, che mandando Love ai Cavs fa ripartire di nuovo il suo ciclo, pescando tramite Cleveland Andrew Wiggins con la #1.
Cleveland, un rapporto vero
Quella scelta di natura contrattuale derivava dal fatto che, secondo molte voci importanti all’interno della franchigia, Love non fosse una stella su cui costruire, e a prova di questa tesi si portava un’apparentemente irrimediabile astinenza da playoff.
Oltre al fatto che si trattasse, ovviamente, di becero risultatismo, va considerato che Love è stato il complemento perfetto in una squadra da quattro Finals consecutive; il proverbiale terzo violino che diventa ancor più fondamentale laddove il valore medio del roster sia globalmente meno d’esperienza e meno talentuoso rispetto, ad esempio, a Warriors o Raptors.
Il Nostro ha le idee chiare sulla stagione 2016, “life-changing”, come ha raccontato in questa intervista con un altro pezzo di quel titolo per la prima volta portato in Ohio, ovvero Channing Frye.
“Everyone is going through something”
Di nuovo, inatteso e inesorabile, riecco lo spettro di un attacco di panico.
Ad onor di cronaca, non è stato Love il primo ad avviare questo discorso nella NBA e in generale negli sport professionistici americani, ma DeMar DeRozan, che ad inzio 2018 si aprì riguardo al suo problema di depressione.
Spinto dall’atto di coraggio del collega, Kevin iniziò a riflettere sulla possibilità di aprirsi a sua volta in merito alla propria salute mentale. Ma per arrivare alla testimonianza raccolta nella lettera per The Player’s Tribune fu necessario un evento tragico: il 14 febbraio 2018 alla Marjory Stoneman Douglas High School di Parkland, in Florida, Nikolas Jacob Cruz compì un massacro in cui persero la vita 17 tra studenti e personale scolastico.
Gli investigatori riportarono che Cruz soffrisse di depressione e autismo.
Nella loro valutazione, tuttavia, conclusero dicendo che “era a basso rischio di fare del male a se stesso o agli altri.”
Cruz aveva ricevuto in precedenza alcuni trattamenti di salute mentale, ma non durante l’anno in cui commise il massacro, per quanto per alcune minacce gli fosse stato proibito di circolare nell’istituto con uno zaino.
Fu ritrovato e arrestato in un McDonald’s, poco dopo aver terminato la sparatoria.
Inizialmente molti giocatori decisero di parlare contro la vendita indiscriminata di armi sfruttando la cassa di risonanza dell’All-Star Game, ma in poco tempo le notizie divennero più chiare e si iniziò a parlare anche di salute mentale, facendo il nome di Kevin.
Dal canto suo, Love non voleva che fossero altri a raccontare la sua storia, e fu questa – a suo dire – la spinta decisiva.
“Devo parlare.”
La sua lettera colpisce a fondo, per vari motivi.
Innanzitutto, crolla la superficiale patina del “sei ricco, hai realizzato il tuo sogno”. Questa può essere un’evasione, ma non di certo la soluzione.
Kevin riesce a tracciare con precisione il momento in cui il buio si è impadronito della sua vita: ed è stato proprio quando la sua evasione preferita è venuta meno.
L’evento di rottura si è verificato a seguito della frattura della mano, quando era ancora in Minnesota. Non giocare spesso voleva dire stare in casa, e stare in casa – se succede proprio quando “vari pilastri della mia vita erano caduti” – può voler dire stare da soli.
Nella lettera racconta che non apriva le finestre, non si alzava del letto, fissava il soffitto e pensava, non sopportando di rimanere solo e indifeso contro i suoi pensieri. Contro la sua mente.
Allora ha fatto quella che a sua detta fu la sua scelta peggiore: cominciare ad auto-medicarsi, ed è ormai risaputo quanto siano pericolosi i tranquillanti. Il punto di non ritorno.
In secondo luogo sottolinea l’importanza di esprimersi apertamente, cosa che ha decisamente funzionato.
Non voleva essere l’unico, Kevin. La linea di pensiero è sempre la stessa:
“Giochi a basket per vivere, non hai alcun problema. E cosa penseranno gli altri? Nel mio ambiente si può essere tante cose, ma di certo non deboli.”
Dunque l’importante era capire che aprirsi e parlare non sono assolutamente segni di debolezza. Tutt’altro.
E non si può neanche scappare. Quello relativo alla salute mentale è un problema invisibile, ma prima o poi colpisce se non noi, qualcuno a noi vicino. E a quel punto ignorarlo diventa molto più difficile. Non parlarne – questa potrebbe essere la parte più profonda e carica di significato del pensiero espresso da Love – ci deruba dell’opportunità di conoscere davvero noi stessi, o di aiutare qualcuno con problemi simili. Non c’è nulla di cui vergognarsi e di certo l’orgoglio non è una ragione sufficiente per seppellire tutto dentro.
Da quel momento in poi, infatti, diversi atleti hanno deciso di parlare della propria salute mentale.
Un esempio a noi vicino è stato il giocatore dell’Atalanta Josip Ilicic, anche lui colpito dalla depressione dovuta al crollo di alcuni pilastri della sua vita – familiare e non – e ad una specie di sindrome del sopravvissuto per il covid, in un contesto tragico come quello di Bergamo quasi due anni fa.
Singolari sono state le modalità con le quali il caso dello sloveno è stato trattato sia dalla stampa nostrana che dalle opinioni di alcuni colleghi, molto figlie di una forma mentis superficiale abbastanza “italiana” di allontanare il problema piuttosto che aprire un vero e proprio dibattito proficuo in merito.
Il paradosso ai limiti dell’incredibile è che questa predisposizione verso l’argomento “salute mentale” proviene non da una vera e propria mancanza di empatia, quanto più da una concezione arretrata secondo la quale “Forza” e “volontà d’animo” siano più qualità innate che non fattori da coltivare quotidianamente anche in virtù del proprio vissuto personale.
Spesso questo porta a non identificarsi rispetto a persone – anche pubbliche – che esprimono disagi interiori, ritenendole deboli in maniera immotivata, per certi versi, considerata la posizione di estrema agiatezza in cui vivono.
Queste “celebrità”, invece, hanno deciso di aprirsi non solo per togliersi un peso, ma anche e soprattutto per aiutare chi è in situazioni meno comode o meno fortunate. Una delle più grandi croci di chi ha queste problematiche, infatti, è la solitudine; solitudine che in un attimo diventa silenzio e oscurità, senza poter neanche lontanamente intravedere una via d’uscita.
Ciò porta il discorso ad un altro punto focale: la via d’uscita.
Secondo il Nostro, “non si può raggiungere la fine della depressione, o dell’ansia” o di qualunque altro demone possa inquinare la vita di qualcuno. E’ un percorso lungo, nel quale non è permesso di perdersi a cercare in lontananza l’obiettivo ultimo, ma è necessario focalizzarsi solo su ciò che si vede nel presente, ovvero il prossimo passo. Uno alla volta, laddove spesso per iniziare è necessario fare la cosa più scontata, ma anche quella che quasi sempre appare insuperabile: condividere, aprirsi, parlare.
“I want to remind you that you’re not weird or different for sharing what you’re going through.
Just the opposite. It could be the most important thing you do. It was for me.”
Il presente e il prossimo futuro
Tornando a parlare di campo, Love ha sorpreso nuovamente, come stanno facendo i suoi Cavs: Evan Mobley è un candidato di spicco per il rookie of the year, con la firma di Jarrett Allen nella notte che ha portato Harden a Brooklyn che si è rivelata una delle più azzeccate nella memoria recente.
Non è mancata la sfortuna, con Ricky Rubio – amico fraterno di Love – e Colin Sexton che hanno già salutato la stagione, ma il front office ha provato a rimediare facendo una trade per Rajon Rondo; lo stesso front office che secondo molti insiders sta seriamente pensando ad un pacchetto in direzione Philadephia per Ben Simmons.
In tutto ciò anche Kevin Love ha un ruolo importante: l’anno scorso, complici alcune uscite interne non ottimali dovute alla frustrazione dei risultati, e al suo oneroso contratto – che prevede tra l’altro ancora 60 milioni nei prossimi due anni da parte della franchigia – non sembrava che il rapporto potesse ricucirsi.
Il problema è che non sembrava realistico neanche uno scambio.
Invece il Nostro sta viaggiando a 14 punti, 7 rimbalzi e 2 assist di media in 21 minuti a partita, forte dell’accordo verbale per cui se si fosse guadagnato dei minuti, li avrebbe giocati – in altre parole, gli premeva di “non finire come John Wall”, citando direttamente un articolo di Bryan Windhorst.
Uscendo dalla panchina, questi sono numeri che fanno alzare più di un sopracciglio in ottica Sixth Man Of The Year, cosa che avrebbe del clamoroso considerando che nell’ultima decade l’unica ‘non-guardia’ a riceverlo è stato Montrezl Harrell nel 2020.
Eppure, nel mese di dicembre Kevin è stato, tra i giocatori non titolari ma sopra ai 15 minuti di utilizzo, primo per punti, terzo per rimbalzi e primo per triple segnate.
Chissà che, e sarebbe un degno finale, a conti fatti Cleveland non possa vedere in Ben Simmons quella stella così difficile da draftare e così impossibile da convincere della vivibilità dell’Ohio, e che Philadelphia non possa tramite il prodotto di UCLA migliorarsi a rimbalzo (#25 nella lega per rimbalzi totali), oltre a dare ad Embiid lo spacing che Harris – altro max contract – non sembra in grado di garantire ad oggi.
D’altronde, Love e Niang sono le due migliori ali grandi in termini di tiri da tre tentati per 100 possessi, per BasketballReference.
Al di là di numeri, campo e prospettive future, ciò che resta è Kevin Love abbia prima toccato il fondo e sia poi emerso una bracciata alla volta, attraverso la propria volontà e capacità di riconoscere un problema e non adagiarsi su di esso alla ricerca di una soluzione. Questo ha interessato profondamente la sua sfera personale, mettendolo anche a nudo nelle sue debolezze, ma non ha rappresentato un fattore sfavorente quanto più un punto di forza nel suo percorso di risalita.
Una forma di coraggio molto importante e notevole: quella di fare sì la cosa giusta, ma non solo per se stessi. Anche per gli altri. Nella speranza che gli stessi, ispirati da questo gesto, trovino il loro coraggio prima di toccare il fondo.