Agli albori della stagione 2018/19, i Toronto Raptors si stavano preparando ad un’annata di transizione. Quello che è successo dopo, è storia.

FOTO: RAPTORSHQ

Accosta la macchina per favore”.

DeMar scende dall’auto, il cellulare ancora in mano. L’insegna di Del Taco illumina il suo volto, una maschera di emozioni. Rabbia, delusione, dispiacere. Le parole di Masai Ujiri ancora gli risuonano nelle orecchie: “Ti abbiamo scambiato, andrai a San Antonio”. Non ci può credere, fino a pochi giorni prima si parlava di rinnovo; la stagione appena conclusa lo aveva visto trascinare i Raptors al primo posto della Eastern Conference. Certo, ormai i canadesi sono una sicurezza in stagione regolare. Mai al di sotto delle 48 vittorie negli ultimi cinque anni, sempre in testa all’Atlantic Division. Eppure manca sempre qualcosa. Il passo extra, quello che porterebbe verso la terra promessa. Sarebbe bellissimo se a regalare il titolo fosse proprio DeMar DeRozan, californiano di nascita ma canadese per adozione. Nove anni in Ontario, a Toronto; record su record di franchigia frantumati.

Ti abbiamo scambiato, andrai a San Antonio”.


Lo shock di poco prima, all’uscita dal cinema, con la chiamata del suo presidente non si assorbirà mai. DeMar sale di nuovo in macchina e riparte.

Due e trenta del mattino

Al primo squillo del telefono, Kyle Lowry è ancora intontito. È notte fonda, dormono tutti, ma l’apparecchio continua a suonare. Kyle guarda lo schermo e contemporaneamente l’ora: DeMar lo sta chiamando alle 2:30 del mattino. Preoccupato, risponde. Dopo poco si ritrova seduto sul bordo della vasca da bagno, incredulo. Il suo più caro amico è stato scambiato. Chi non pratica uno sport di squadra a livello professionistico non può capire quanto sia difficile costruire legami forti e duraturi: scambi, tagli improvvisi e termini di contratto sono le principali cause di allontanamento e possono avvenire su base annuale, se non addirittura mensile. Perciò affezionarsi troppo a un compagno alle volte può portare a separazioni dolorose. Lo stesso Lowry ha commentato così il fatto:

Mi sono sentito tradito perché lui si è sentito tradito. È il mio migliore amico. Il basket è un business bellissimo ma anche duro. Io e lui siamo una famiglia, abbiamo le nostre foto negli armadietti. Anche la squadra stessa è una famiglia, ma è basata su presupposti diversi.

Quale che sia il pensiero comune, il front office ha preso una decisione: ricostruire. Non è anomalo che una franchigia cominci una rifondazione dopo una sconfitta particolarmente cocente. Diventa strano invece quando il rebuild avviene dopo la migliore stagione della propria storia: nel 2017/18 i Raptors hanno vinto 59 partite su 82, record assoluto dalla nascita della franchigia. Dwane Casey è stato nominato Coach dell’Anno. DeRozan è entrato nell’All-NBA Second Team ed è diventato All Star per la quarta volta. Pochi – se non nessuno – avrebbero smantellato dei pezzi importanti per arrivare al Larry O’Brien Trophy. Sarebbe quasi follia pensare di smontare una macchina perfettamente funzionante. E invece Masai Ujiri ha visto cosa non andava in quel roster e ha provato a porre rimedio con delle mosse senza precedenti. Casey viene allontanato dalla panchina. DeRozan, il centro austriaco Jakob Poeltl e una scelta protetta al primo giro del Draft 2019 vengono ceduti ai San Antonio Spurs in cambio di Kawhi Leonard e Danny Green.

Nessuno degli interessati guarda la trade con favore. DeMar è ancora senza parole, Poeltl sa di essere una pedina nel grande gioco della NBA. I tifosi dei Raptors vedono partire un figlio adottivo della città, un beniamino storico, un simbolo di Toronto. Leonard viene visto sì come una star, ma anche come una mossa volta ad ottenere qualcosa nella free agency del 2019. Green è un role player di lusso con grande esperienza e un titolo alle spalle, ma pur sempre un role player. Nessuno, insomma, avrebbe mai creduto a quanto sarebbe successo dopo. Nessuno, tranne Ujiri.

Uomo-squadra

So come ti senti; so che hanno scambiato il tuo migliore amico ma facciamo in modo che tutto vada per il meglio. Andiamo e creiamo qualcosa di speciale”.

Il primo scambio tra Leonard e Lowry avviene per messaggio. Il taciturno californiano decide infatti di contattare la point guard per una dichiarazione d’intenti che, all’inizio, sembra essere circostanziale. D’altronde, la sua fama come uomo-squadra è ai minimi storici. Arrivato nel 2011 alla corte di Gregg Popovich, Kawhi ci ha messo poco a farsi apprezzare grazie al suo straordinario talento e soprattutto alla sua etica del lavoro. Attaccante versatile e difensore d’élite, è stato un tassello fondamentale per le Finals del 2014, di cui è stato anche nominato MVP. Negli anni successivi si innalza a stella della lega, con due premi di Defensive Player of The Year consecutivi, due nomine come All Star, due All-NBA First Team e quattro All-NBA Defensive Team.

Cominciano però gli infortuni: un problema alla caviglia si riacutizza dopo un contatto duro con Zaza Pachulia durante una finale di Conference; questo, unito ad una grave tendinite al quadricipite, lo terranno seduto fino all’anno successivo in cui salterà altre 27 partite. Torna e rimedia subito uno stiramento alla spalla. Gli Spurs a questo punto lo considerano “out indefinitely” per dargli la possibilità di risolvere le sue problematiche. Qualcosa però non va come previsto. Dopo diverso tempo, lo staff medico di San Antonio certifica la sua piena guarigione, ma Leonard richiede un secondo parere. Comincia quindi un braccio di ferro tra società e giocatore a tratti grottesco, con gli stessi compagni che arriveranno addirittura a pregarlo per tornare in campo. Niente da fare: la rottura è ormai insanabile. Kawhi salta il resto della stagione e in estate chiede la cessione; gli Spurs a questo punto decidono di intavolare un discorso con i Raptors per assicurarsi DeRozan. Il resto lo sapete. È con queste premesse che Leonard arriva in Canada. La considerazione dell’uomo più che del giocatore non è delle migliori: dubbia leadership, apparente noncuranza dei compagni, è anche praticamente sicuro che il suo anno in Ontario sarà solo un passaggio temporaneo prima di una nuova esperienza.

Il prossimo passo

L’altra grande mossa di Ujiri riguarda la panchina. Nick Nurse, assistente di Casey per cinque anni, viene promosso capo allenatore. La sua figura è già apprezzata nell’ambiente per via del suo stampo di gioco offensivo che promuove una circolazione di palla prolungata e soluzioni dall’arco; oltretutto i due titoli in tre anni in G-League, con 23 suoi giocatori chiamati in NBA, danno un ulteriore punto di merito, ma il suo innesto alla prima esperienza come head coach fa comunque storcere il naso a molti. Non è certo il preambolo migliore per pensare ad una stagione vincente. I Raptors però abbracciano appieno il nuovo stile proposto da Nurse. Leonard si integra perfettamente con i compagni e crea con Lowry un duo di rara pericolosità. Dopo 13 partite i canadesi vantano un record di 12 vittorie e una sola sconfitta. Il fattore fondamentale, oltre ovviamente la perfetta intesa dei due All Star, è anche la grande crescita di Pascal Siakam e Fred VanVleet. Arrivati entrambi nel 2016, Siakam come 27esima scelta e VanVleet addirittura come undrafted, passano il primo anno in G-League, la lega di sviluppo della NBA. Con i Raptors 905 vincono il campionato e Siakam viene nominato MVP delle Finals. A questo punto il front office si rende conto di avere in casa due gemme allo stato grezzo e li richiama in prima squadra. La produzione del camerunese (Most Improved Player) passa da 7.3 a 16.9 punti a partita; VanVleet si ritaglia più di 27 minuti a gara con 11 punti e 4.8 assist di media.

Il gruppo, intanto, viaggia sull’onda dell’entusiasmo. Sono sette in totale i giocatori di Toronto con più di dieci punti a partita, con il picco massimo di Kawhi e i suoi 26.6 punti, dato più in carriera fino a quel momento. L’attacco e la difesa sono tra le migliori del campionato, entrambe nella Top 5 della lega per efficienza. La stagione, in generale, è un successo assoluto. La squadra di Ujiri si qualifica ai Playoffs come seconda forza nella Eastern Conference con un record di 58-24, appena una vittoria in meno rispetto all’anno precedente. Il fervore è alle stelle, ma la strada è ancora lunga. Adesso arriva il vero banco di prova. Benvenuti ai Playoffs.

We The North

C’è una piazza di fronte alla Scotiabank Arena, tra Bremner Boulevard e York Street, la Maple Leaf Square. In bella mostra davanti all’ingresso principale dello stadio c’è la “Legend Row”, una fila di statue per onorare i giocatori storici della squadra di hockey della città, i Toronto Maple Leafs. Perché di questo si parla di solito in Canada: hockey. La piazza non si chiama Raptors Square. Il basket è un fratello minore che ha preso piede tra la fine degli Anni ’90 e i primi Anni Duemila, grazie a giocatori come Damon Stoudamire e Vince Carter. La franchigia è anche relativamente giovane, con i suoi 24 anni di età. Insomma, dispiace quando i Raptors non avanzano ai Playoffs, ma è lutto cittadino quando i Leafs perdono una partita. Dal 2014 però i fan della palla a spicchi cominciano a fermarsi fuori dall’arena per vedere le gare e da qui prende il via una tradizione che rimarrà negli anni a venire. Grazie a questo roster, grazie a questo allenatore, grazie a questo percorso straordinario, l’entusiasmo si riaccende. La piazza si trasforma, si riempie di nuovo. Durante i Playoffs 2019 il bianco-blu dei Leafs scompare per lasciare spazio al rosso-nero: Maple Leaf Square diventa Jurassic Park.

I maxischermi proiettano la partita davanti a più di cinquemila persone festanti, in costante supporto della loro squadra in post season. Il clima tipicamente nord americano fa sì che anche la primavera sia fredda – tra i cinque e i dodici gradi – ma alle migliaia di persone assiepate non importa. D’altronde, lo dice il motto stesso della squadra: “We The North”. Pronti, via, e la serie con Orlando parte subito con il piede sbagliato. I Magic si impongono sul suolo canadese di stretta misura, esponendo il team al forte criticismo che li accompagna in post season. La mancanza di lucidità di Gara 1 lascia però spazio a una solida concentrazione nelle quattro partite successive, in cui i Raptors si impongono senza diritto di replica. Un secco 4-1 chiude il primo turno e adesso in Canada arrivano i Sixers.

La storia si ripete

Sixers-Raptors, per i cultori e romantici del basket, rimanda subito allo straordinario duello tra Allen Iverson, figlio prediletto di Philadelphia, e Vince Carter, all’epoca volto della franchigia tanto quanto lo è stato DeRozan negli anni successivi. Nel primissimo incontro tra le due squadre nel 2001, The Answer e Vinsanity hanno dato vita ad uno scontro tra titani culminato in una Gara 7 decisa all’ultimo possesso, con la vittoria di Philly per un solo punto. Uno scenario del genere è tanto raro quanto spettacolare, destinato a ripetersi poche volte.

Tornando al presente, Phila è una forza guidata da tre giocatori fenomenali: Joel Embiid, centro camerunese tra i più dominanti della lega; Ben Simmons, playmaker atipico di due metri e undici; e Jimmy Butler, two-way player arcigno in difesa e devastante in attacco. Molti li danno tra i favoriti a guadagnare un posto alle Finals, e Toronto appare come un elemento di disturbo fastidioso ma non insormontabile. In questo caso però sono i Raptors a sferrare il primo colpo in casa. Kawhi è semplicemente troppo difficile da arginare e chiude Gara 1 con 45 punti, 11 rimbalzi e il 70% al tiro, a cui fanno eco i 29 punti di Siakam. La risposta degli avversari arriva nelle due gare successive, in cui Butler e Embiid mettono a referto 30 e 33 punti, per strappare una vittoria sia in terra canadese che in Pennsylvania. La sfida è lanciata, quello che doveva essere quasi un pro forma si rivela una lotta senza quartiere tra due potenze. Leonard illumina Gara 4 con 39 punti e uno sforzo corale (sei giocatori oltre gli 11 punti) permette a Toronto di riportarsi avanti in Gara 6, dopo una pesante sconfitta in Gara 5. Si va a Gara 7. L’ultima partita segue la stessa linea di tutta la serie, un equilibrio perfetto in cui nessuna delle due contendenti vuole arrendersi. Si arriva però alla resa dei conti. Al momento decisivo. Parità. Rimessa per Toronto a 4.2 secondi dalla fine. Palla nelle mani di Leonard; palleggia fino al lato destro del campo, davanti alla sua panchina, si alza e lascia andare un jumper con la mano di Embiid addosso. Uno, due, tre rimbalzi sul ferro; The Process sorride assaporando l’overtime, è una frazione di decimo di secondo… e la palla scivola dentro.

Kawhi si lascia andare ad un urlo liberatorio, di quelli mai visti nella sua compostezza. È travolto dall’emozione, si vede nel suo comportamento, la gestualità del corpo; si lascia andare come non faceva da tanto, giusto il tempo però di ricomporsi e rilasciare un’intervista post-partita molto lucida e professionale. I Raptors superano un altro ostacolo e si preparano a fronteggiare un Dio greco.

Freak

Freak, nello slang americano, vuol dire letteralmente “mostro, fenomeno da baraccone”. Una versione più edulcorata ne dà un significato più accettabile: “persona in qualche modo inusuale”. È quello che si trovano davanti i giocatori di Toronto quando incontrano Giannis Antetokounmpo. La storia personale del ragazzo di Sepolia, Atene, già la conoscete. E comunque meriterebbe un articolo a parte per rendergli completamente giustizia. Mi limiterò a dire che, dopo un’infanzia travagliata, il giovane Giannis ha trovato la sua strada nella pallacanestro fino ai più alti livelli. Appena un mese dopo la fine della serie contro i Raptors verrà nominato MVP per la prima volta, bisserà il successo l’anno successivo aggiungendo anche il premio di Difensore dell’Anno e chiuderà il cerchio con il titolo del 2021. Ma come ho detto, è un’altra storia.

I Milwaukee Bucks ospitano i canadesi dopo aver spazzato via in quattro gare i Pistons e aver annichilito i Celtics in cinque. L’inizio di questa serie non fa presagire nulla di diverso, con Toronto che perde le prime due partite. Qualcosa però scatta nei Raptors, un istinto di sopravvivenza primordiale tipico – e qui mi perdonerete – dei più feroci predatori della preistoria. Leonard esplode in fase realizzativa aiutato dai compagni, i quali lo servono quando è caldo e si sobbarcano il peso dell’attacco quando invece si raffredda. Ancora una volta il gruppo prevale sull’individualità, nonostante Kawhi risulti il miglior marcatore assoluto di entrambe le squadre in cinque delle sei partite giocate. Allo scadere del cronometro di Gara 6, Toronto vince la quarta partita consecutiva per ribaltare la serie e accedere per la prima volta nella sua storia alle Finals.

FOTO: BREW HOOP

La Scotiabank Arena è un calderone di emozioni, la folla nel Jurassic Park erompe in un collettivo grido di gioia. I giocatori si abbracciano; molti di loro – soprattutto i più giovani – trattengono a stento la commozione. Solo Leonard e Green hanno già calcato il palcoscenico più importante. In un raro moto di emotività espressa, Kawhi trova Lowry e lo abbraccia, i due si guardano e sorridono sapendo di aver già fatto la storia. Non resta altro che un ultimo passo. Un passo che li porta davanti alla squadra più forte di sempre.

Dinosauro nella Baia

Questionabile o no, i Golden State Warriors del 2018/19 sono una delle squadre, se non la squadra più dominante dell’intera NBA. Almeno sulla carta. Facciamo la conta dei presenti: Steph Curry, già tre volte campione NBA, due volte MVP, il primo votato unanimemente; Klay Thompson, giocatore mortifero in difesa quanto in attacco, grazie alle sue doti di shooter senza pari da qualsiasi zona del campo; Draymond Green, Difensore dell’Anno nel 2017, inserito per quattro volte in un quintetto All-Defensive; DeMarcus Cousins, centro quattro volte All Star e due volte All-NBA. Per citare un famoso giocattolo americano: “le prospettive non sono buone”. Qualcosa (o più di qualcosa) quell’anno però non funziona. Cousins è soggetto a troppi infortuni; Durant comincia a staccarsi dal resto dello spogliatoio e diventa emblematica una lite con Draymond Green che sembra definitivamente spaccare i rapporti. Voci di corridoio lo danno come partente alla fine della stagione. E soprattutto, rimedia un infortunio contro gli Houston Rockets che sembra precludergli la possibilità di giocare le NBA Finals. È con queste premesse che Golden State si presenta in Canada il 30 maggio 2019, un giorno storico per la franchigia di casa.

Tanti detrattori dei Raptors cominciano già a giustificare un’eventuale sconfitta degli Warriors indicando questi fattori, togliendo quindi merito a Toronto ancor prima di cominciare. Nurse è bravissimo a tenere queste motivazioni fuori dalle menti dei suoi giocatori e la sua squadra risponde eseguendo con precisione chirurgica il suo game-plan. Siakam mette a referto 32 punti, Leonard 23 e Gasol 20. Gli Warriors non hanno possibilità di replica. Toronto vince Gara 1. Steve Kerr, motivatore e allenatore con pochi rivali, riunisce la propria squadra e grazie ai tre principali violini, autori di una prestazione collettiva stupefacente, i ragazzi della Bay Area riportano la serie in pareggio. Con la cattiveria agonistica di chi non vuole farsi sfuggire una preda, però, i Raptors irrompono nella Oracle Arena. Di nuovo, lo sforzo complessivo è il sogno di ogni allenatore: i cinque titolari segnano non meno di 17 punti a testa, distribuendo un totale di 30 assist, 9 dal solo Lowry. La partita successiva vede un nuovo protagonista, Serge Ibaka, alzarsi dalla panchina e realizzare 20 punti con solo tre errori al tiro. I canadesi si portano avanti 3-1 con due vittorie sul parquet avversario. Golden State sembra stremata, anche Klay Thompson comincia ad accusare problemi. Solo una vittoria in Canada può ridare speranza. Una buona notizia, però, accende ulteriormente il fuoco degli Warriors. Kevin Durant si ripresenta in campo alla Scotiabank per la decisiva Gara 5. In caso di vittoria si ritorna a San Francisco, dove la Oracle fornisce una fortezza quasi inespugnabile. L’euforia degli ospiti però dura poco: in un’azione iniziale KD si rompe il tendine d’Achille. Partita finita. Serie finita. Nonostante il contraccolpo emotivo, con un moto d’orgoglio Golden State strappa un successo importantissimo che riporta la serie in California. E anche in questo caso, molti addetti ai lavori indicano un cambio di rotta di queste Finals, con l’inerzia ormai favorevole alla squadra di Steph Curry.

Finale di stagione

Qual è il segreto del successo di una buona serie TV? Costruire puntata dopo puntata una storia che tenga lo spettatore incollato allo schermo e chiudere con un finale esplosivo. Nella mente dei senatori dei Raptors deve aver trovato posto un pensiero simile, con la testa e il cuore rivolti a tutti i tifosi che avevano sofferto vedendo sconfitte brucianti anno dopo anno. Kyle Lowry, Pascal Siakam e Fred VanVleet entrano sul parquet più temuto della lega per chiudere la loro serie, per scrivere il loro finale.

Se dovessi fare una cronaca serrata della partita mi perderei nei meandri dei tecnicismi, dimenticandomi quello che è il fulcro di questo racconto: l’emozione. Vi basti sapere che la gara è stupenda, serrata, combattuta da entrambe le protagoniste. Solo una cicatrice rovinerà questa serata: la rottura del ginocchio di Klay Thompson. Lo stesso Klay regala un ulteriore ricordo romantico alzandosi, fermandosi claudicante in lunetta e tirando i suoi tiri liberi. Il suo infortunio però è troppo da sopportare per i compagni, che cadono sotto i colpi di Siakam e Lowry (26 punti a testa), Leonard e VanVleet (22 punti a testa). Kyle distribuisce anche dieci assist. I Raptors chiudono la serie con una giocata difensiva e con gli ultimi liberi di Kawhi.

Toronto è sul tetto della NBA. La prima franchigia canadese a vincere il titolo, e il primo per tanti giocatori del roster, tra chi ci è arrivato presto e chi più tardi. DeMar DeRozan guarda il tutto da lontano con sentimenti contrastanti. Vedere la propria squadra vincere senza di lui è una morsa al cuore. Lui stesso dirà:

Dopo averli visti arrivare alle Finals, volevo solo scappare da tutto e da tutti. Vederli vincere è stato emozionante, avrei solo voluto essere io a portarli al titolo.

È un trionfo. Il trionfo di chi ci ha creduto fin dall’inizio. Il trionfo di chi non ci ha creduto affatto. Il trionfo di una nazione e una città famose per l’hockey. Di chi ha visto vittorie e sconfitte al gelo, sotto un maxischermo, incurante del freddo e delle intemperie, per guardare il sole sorgere a Nord.