Steve Kerr, o la quintessenza dell’eccezionalità travestita da normalità.
Sì, perché devi essere una persona speciale, eccezionale, se una notte, siamo a gennaio del 1984, il nostro Steve studente e giocatore al primo anno ad Arizona, rispondendo al suo coach che lo esorta a concentrarsi su se stesso e non pensare ad altro, gli dice con voce rotta: “coach, l’unica maniera per non pensare a mio papà è giocare a basket”.
Lo stesso coach, il mitico Lute Olson, pochi minuti prima aveva svegliato Steve per portargli una notizia devastante. Il padre Malcolm H. Kerr, Rettore dell’Università Americana a Beirut, uomo di pace e dialogo tra le religioni, è stato assassinato con due colpi alla nuca in un attentato di matrice terroristica.
Il cuore pesante come un macigno, due giorni dopo Kerr jr. è regolarmente sul parquet per una sfida speciale, Arizona incrocia Arizona State. Dalle tribune qualcuno grida sguaiate offese in riferimento al padre, l’idiozia non conosce confini. Accadrà anche in futuro. Devi essere eccezionale nel trattenere le lacrime, sedare la rabbia e metterti a giocare, segnare 5 canestri su 7 tiri e vincere la sfida con la tua squadra, giocando la tua miglior partita della carriera universitaria.
Una carriera universitaria che, in molti avrebbero scommesso, avrebbe potuto essere anonima. Questo biondino dal fisico normale non sembra avere infatti le stigmate del campione. Ma lui è abbastanza eccezionale da amalgamarsi bene con i compagni e con loro arrivare alle Final Four. Sufficientemente speciale da vincere i mondiali, assoluti, da universitario. Ha poi quel tiro che non perdona, arma che lo porta a farsi notare da quelli del piano di sopra.
Potrebbe trattarsi di una meteora in mezzo a un vasto firmamento, se si è scelti al secondo giro con la 50, spesso va così. Ed invece evidentemente questo american boy ha altre aspirazioni. Bisogna essere un po’ eccezionali per restare in NBA 15 anni, vincere 5 anelli, di cui 4 consecutivi, con due squadre diverse, segnare il canestro decisivo – su assist di MJ – in Gara 6 delle Finals 1997.
Bisogna essere speciali per avere in carriera il 45.4% da tre, ad oggi ancora record della lega. Soprattutto se hai quella faccia un po’ così, quell’espressione un po così, quel fisco un po’ cosi, che abbiamo noi che l’NBA la guardiamo in TV.
E invece no, Steve l’NBA in TV non la vuole proprio guardare. Fine carriera e la TV decide di farla, da analyst. Uno di quelli bravi, un analyst eccezionale. Ma sotto la brace è pronto un fuoco. Vorrebbe allenare, vorrebbe di nuovo il campo, ma il legame con la famiglia e i figli da crescere lo frenano. Nel nome del padre, vuole essere un padre, presente.
E allora entra in cordata con Robert Sarver e rileva i Phoenix Suns con una partecipazione di minoranza, ma se sei eccezionale ti impegni in prima persona. Sarà General Manager.
Passano gli anni, i figli crescono, la fiamma si alimenta. Lo cerca Phil Jackson:
Vieni a New York, Steve
No coach, devo stare nella West Coast, ci sono i ragazzi che hanno bisogno di me.
La Baia è West Coast, no? Berkeley è vicina, che faccio non alleno Steph? E qui c’è poco da raccontare, è sì storia, quasi leggenda, ma è anche presente.
Bisogna essere eccezionali per collezionate cinque NBA Finals consecutive, poi sei in otto anni. Bisogna essere molto speciali per arrivare a vincere l’ottavo anello. E come dicono dalle sue parti, and counting.
Bisogna essere uomini, e tutti di un pezzo, non solo allenatori, per salire sul podio di una conferenza stampa Playoffs, il giorno della strage di Uvalde, lasciare da parte per una sera il circo che ruota attorno al pallone arancione, i tiri, i canestri, le vittorie e parlare invece delle sconfitte. Quelle di una società sorda e cieca di fronte a tragedie generazionali e gridare al mondo che è l’ora, per ognuno, di prendersi delle responsabilità.
Niente di meno normale, niente di più eccezionale.
La quintessenza di Stephen Douglas Kerr.