La traiettoria cestistica del primo europeo a risultare protagonista in un Titolo NBA: Toni Kukoč.
Autunno 1993. I Chicago Bulls si trovano in trasferta per disputare una gara di preseason. La squadra e lo staff tecnico sono al ristorante. Mancano quattro ore alla partita, gli atleti sono soliti consumare un pasto leggero. Alcuni, addirittura, optano per il digiuno. Non Toni Kukoč. Quando è il suo turno di ordinare, Steve Kerr, che è seduto proprio accanto al rookie, non crede alle sue orecchie: un’insalatona, due antipasti, un dessert e, yes of course, un calice di vino rosso. Il futuro allenatore dei Warriors è basito, cerca lo sguardo del croato e fa:
«Toni, è uno scherzo spero? Ti mangi tutta ‘sta roba? Pure il vino hai ordinato… e tra poco si gioca!»
«Tranquillo amico, è così che facciamo in Europa: tanto vino, tanto cibo, un bell’espresso e poi di corsa in hotel per una bella ca**ta. Ready to play!»
Appare subito chiaro a tutti che Toni is different. In effetti, unico, Kukoč, lo è per davvero: uno dei migliori giocatori di basket che l’Europa abbia mai visto. Un ragazzo di 207 centimetri e 85 chili che fino ai 25 anni aveva dominato la pallacanestro del vecchio continente raggranellando risultati impossibili ai più: cinque volte giocatore europeo dell’anno; quattro volte Mister Europa; tre Coppe dei Campioni (la futura Eurolega), con altrettanti trofei di MVP delle finali; quattro campionati jugoslavi; medaglia d’Oro e titolo di MVP sia ai Mondiali, sia agli Europei (con la mitica nazionale della Jugoslavia), oltre all’Argento Olimpico in maglia croata e il mitico scudetto vinto con Treviso.
Ed è proprio in Italia che Toni lascia un segno indelebile. Arriva nel 1991, quando la squadra veneta è già una potenza emergente, ma con lui e Vinny Del Negro diventa inarrestabile. Sotto la guida di coach Pero Skansi, Kukoč mostra al pubblico italiano tutto il suo talento poliedrico. In due stagioni a Treviso, oltre allo scudetto del 92, vince una Coppa Italia e disputa anche la finale di Coppa dei Campioni dove però la Benetton è sconfitta dal Limoges. In poco meno di 24 mesi Toni diventa l’idolo dei tifosi biancoverdi. Ma non è solo una questione di trofei: la sua classe cristallina e il suo stile di gioco innovativo fanno di lui un punto di riferimento per tutta la pallacanestro europea, un giocatore destinato a scrivere la storia ovunque metta piede.
Insomma, già così ci sarebbe materiale a sufficienza per scomodare quelli che governano l’ingresso nella Hall of Fame, come effettivamente avverrà nel 2021, ma la clamorosa carriera dell’airone di Spalato è solo a metà parabola. Un anno dopo essere stato sculacciato dal Dream Team in finale ai giochi di Barcellona ‘92, infatti, si decide per il grande salto. Ad aspettarlo dall’altra parte dell’oceano ci sono i Chicago Bulls che, grazie all’intuito di Jerry Krause, lo avevano scelto nel draft 1990 con la ventinovesima assoluta. All’epoca, traslocare in NBA per un europeo era un azzardo bello e buono. La Lega si era già presa lo ‘scalpo’ di numerosi internationals e, di quei pochissimi che ce la facevano – leggi gli, once brothers, Vlade Divac, Dražen Petrović o Dino Rađa– tanti finivano nel tritacarne, rimbalzati in tempo zero, come Stojko Vranković, Žan Tabak, Jiří Zídek, Sergej Bazarevič, Sasha Volkov, Aleksandar Đorđević, Žarko Paspalj, i ‘nostri’ Vincenzo Esposito e Stefano Rusconi.
Come se ciò non fosse già abbastanza, a complicare il tutto arriva pure il ‘carico di briscola’. Appena Kukoč tocca il suolo statunitense, infatti, il padre di Michael Jordan viene trovato morto, assassinato da dei rapinatori. Per MJ, sempre più al centro di pressioni sia in campo che fuori, è la goccia che fa traboccare il vaso: ‘ciao ciao basket, me ne vado a giocare a baseball per realizzare il sogno di papà James’. Doccia marmata per Toni che, nelle sue notti trevigiane, aveva spesso sognato di guidare il contropiede dei Bulls spingendo l’arancia con di fianco Pippen e Jordan. Fine del sogno. Tuttavia, non è che si potesse sottovalutare Chicago che negli ultimi tre anni, per la gioia dei suoi tifosi, aveva raggiunto altrettante finali NBA e vinto tre titoli consecutivi. Pressione già alle stelle quindi, senza dimenticare quello che la famiglia Kukoč stava vivendo in Croazia, con il conflitto nei balcani che continuava a imperversare e a mietere vittime. E se a Treviso Toni era riuscito nell’impresa di tornare a casa per ‘toccate e fuga’ mirate e strategiche, a Chicago tali opportunità sarebbero state off limits.
Come da copione, l’esordio è tosto. La fiducia di coach e compagni di squadra, va e viene, ma Toni non demorde e con abnegazione e sacrificio diventa presto la seconda opzione offensiva dietro Pippen e davanti a Horace Grant. Inoltre, la sua intelligenza cestistica si trova a meraviglia con l’attacco triangolo di coach Jackson e il suo assistente Tex Winter. Dopo poche settimane di regular season è chiaro a tutti che l’ex Benetton non sia in NBA per caso. Il 9 novembre a Milwaukee arriva il primo canestro vincente, una tripla che suggella la vittoria contro i Bucks. Nella partita di Natale invece, con tutti i riflettori addosso, realizza il gancetto mancino che, con due secondi sul cronometro, regala la vittoria ai Bulls ai danni di Orlando.
Ma il climax si concretizza qualche settimana dopo, il 21 gennaio del 1994, nella gara casalinga contro gli Indiana Pacers. Il malefico Reggie Miller, in uscita dal blocco as usual, sfugge alla marcatura di Steve Kerr, si svita e segna il canestro del vantaggio lasciando solo due secondi sul cronometro. Il buon Reggie, non proprio un hall of famer di simpatia, sfotte i tifosi del mitico Chicago Stadium esibendosi in ripetuti inchini e beccandosi fischi assordanti oltre a indicibili improperi.
Time out Bulls con Phil Jackson che scarabocchia la successiva rimessa sulla lavagnetta d’ordinanza. Si va in campo ad eseguire. Rimessa Pippen: Toni riceve dietro l’arco dei tre punti; si arresta a due tempi e fa partire una tripla prima che la difesa Pacers possa intervenire. Tabellata e ciuff. Lo Stadium esplode di gioia mentre Miller si caccia in gola un rospo che gli rimarrà sullo stomaco per molto tempo. Il finale di stagione è un crescendo di emozioni con Chicago che si arrende solo in semifinale di conference contro New York e, soltanto a Gara 7, con un altro buzzer beater di The Waiter, il nickname di Toni, soprannominato così per la sua pulizia e per la capacità di servire i compagni a suon di passaggi all night long.
Il tiro della vittoria viene pennellato proprio dal mancino di Spalato in Gara 3. Nell’occasione Jackson disegna uno schema per Toni facendo imbufalire Pippen che si aspettava un gioco per lui. Scottie, indignato, si rifiuta addirittura di entrare in campo (da qui in poi, si vergheranno litri d’inchiostro circa una presunta antipatia tra i due. Questione sempre smentita da entrambi i giocatori che, anzi, negli anni, conserveranno un ottimo rapporto). Coach Zen non fa una piega: in campo Pete Myers, al posto di Pippen, per eseguire la rimessa. Toni, con uno scatto, si libera nei pressi della lunetta. Turnaround del ‘cameriere’ per separarsi da Anthony Mason e tiro morbidissimo che s’insacca regalando una vittoria memorabile ai Play Off, il palcoscenico più importante.
Il resto è storia, col ‘primo’ ritorno di Jordan, l’ingaggio di Dennis Rodman e i successivi tre anelli, oltre alla leggendaria stagione da 72 vittorie, nel 1996.
Eppure, l’importanza di Toni Kukoč nel secondo three-peat dei Bulls è di quelle che ti fanno dire: ‘Aspetta un momento, ma stiamo parlando del sesto uomo dell’anno o di un ninja del parquet?’ Già, perché il premio di 6th man of the year del ‘96 sembra quasi una pacca sulla spalla di un campione a cui non riesci a dare abbastanza credito. Quando il mancino è in campo, le spaziature diventano arte moderna, un po’ come se qualcuno avesse denudato Renzo Piano e lo avesse rivestito con pantaloncini e canotta.
Toni non è solo un giocatore, è un’ombra minacciosa, un’esca che sembra dire: ‘dai, provateci pure a ignorarmi’, sapendo bene che il prezzo da pagare sarà caro. Il suo genio si vede soprattutto all’inizio della stagione 1998, quando Pippen decide di prendersi una pausa forzata e lui, senza batter ciglio, s’infila nel ruolo di secondo violino come se lo avesse sempre fatto. Ma non è solo una questione di coprire il buco lasciato da Scottie: quando Pippen viene ben contenuto da qualche difesa ostinata o si lascia sedurre dal lato oscuro del suo carattere, ecco che Kukoč si erge a spalla di Jordan, quel tipo di spalla che, in certi momenti, prende per mano la squadra e la conduce alla vittoria. E se riesci a far sembrare umano MJ, allora, forse, quel premio di sesto uomo pare un po’ scarsino…
A rivederle oggi, quelle stagioni in maglia Bulls, Toni Kukoč sembra quasi un viaggiatore nel tempo, un Marty McFly che ti sbuca dal futuro con una DeLorean, lasciando tutti a bocca aperta. Il basket era un gioco ruvido, tutto baricentro basso e braccia larghe, dove il pitturato sembrava più una zona di guerra che un campo da gioco. Ma Toni? Toni si muoveva su un altro piano, su spazi che sembravano più ampi solo perché lui riusciva a immaginarli. Non era una minaccia solo grazie al tiro da fuori, Kukoč riceveva e partiva, con una grazia mai vista e, dopo il primo palleggio, non abbassava la testa come tanti altri, no: alzava lo sguardo, pronto a regalare assist magici.
Forse, a Chicago, il suo potenziale, talvolta, è rimasto frenato, compresso tra i ruggiti di Jordan e la versatilità di Pippen. Ma quando Toni decideva di accendere la lampadina, beh, il suo talento cristallino era visibile a tutti. E che dire della difesa avversaria? La teneva sempre sotto pressione, come una Regina su una scacchiera che, ad ogni movimento, minaccia più pezzi contemporaneamente. Finta il tiro, ma già ha in mente l’assist perfetto, magari in quegli spazi affollati dove solo lui riusciva a vedere una via d’uscita. Kukoč era così: un enigma per le difese, un artista per chi guardava. E, diciamocelo, un po’ un ‘sogno’ per chi amava il basket.
Toni Kukoč non è stato solo un pioniere, ma anche un avventuriero dei parquet, uno di quelli che, senza saperlo, mentre cercava le Indie, si è ritrovato a scoprire un nuovo mondo. Ma invece di piantare bandiere su terre sconosciute, Toni ha lastricato una strada d’oro verso una NBA sempre più internazionale. Oggi, il campionato è un vero melting pot di talenti da ogni angolo del globo, con un record di giocatori stranieri che fanno sembrare le stelle e strisce più come un patchwork di bandiere mondiali. A testimoniarlo ci sono gli ultimi trofei di MVP della lega: negli ultimi sei anni soltanto in un caso il trofeo è andato ad un giocatore americano e, con l’arrivo di nuovi talenti dal resto del mondo (Shai, Luka, Wemby), tutto fa pensare che la tendenza continui.
Certo, rispetto ai primi Anni 90, il gioco si è evoluto, trasformandosi in un ecosistema più accogliente per i non-statunitensi, ma non è successo tutto per caso. Allenatori e GM hanno cominciato a guardare questi ragazzi con accenti esotici e dire loro: ‘Ehi, la palla è tua, fai quello che sai fare’. E se oggi vediamo Giannis galoppare sul campo come un destriero impazzito o Jokic fare court mapping nel ruolo di centro, un pezzo di merito va anche a Toni Kukoč. Sì, proprio lui, che con il suo stile un po’ così, tra lo spaesato e il geniale, ha dimostrato che anche se vieni dall’altra parte dell’oceano, se sei bravo, non solo ci puoi stare, ma puoi anche spiegarla.
Come tutti i pionieri, poi, Toni Kukoč ha pagato il prezzo della sua avventura, e non stiamo parlando solo di jet lag e incomprensioni culturali. No, il sacrificio è arrivato sotto forma di cifre che, diciamocelo, non fanno certo cascare la mascella: poco meno di 12 punti di media in carriera, un numero che non è esattamente da copertina di Sports Illustrated. E poi, i suoi trasferimenti successivi a Philadelphia, Atlanta e Milwaukee? Beh, un po’ come quegli spin-off delle serie TV di successo: tante aspettative, pochi risultati. Ma la verità è che dopo l’epopea Bulls, Toni si è trovato a vivere di ricordi, e le motivazioni si sono sciolte come neve al sole. Toni è uno di quei giocatori che, come spesso accade agli europei formati in quegli anni, ha sempre messo i traguardi di squadra sopra tutto, prendere o lasciare. Tuttavia, diciamolo chiaro e tondo, la sua carriera avrebbe potuto prendere una piega leggendaria se solo qualche episodio fosse andato in maniera differente. Se vi sembra un’esagerazione, ecco un aneddoto raccontato dall’autore di The Jordan Rules, Sam Smith, e poi ripreso in un documentario dedicato proprio a Toni:
Gara 5, NBA Finals 1998. Siamo a Chicago, e con una vittoria i Bulls vincerebbero il sesto anello in otto anni. Lo United Center è un vulcano pronto a esplodere. Jordan, Pippen, Malone, Stockton, gli dèi del basket in un duello epico. Ma c’è anche Toni che, silenzioso come una brezza d’estate, raggranella un canestro dopo l’altro. A un certo punto è 10 su12 dal campo, 27 punti che tengono incollati i suoi Bulls ai Jazz. Jordan sta vivendo una serata difficile al tiro (finirà 9 su 26), Pippen, forse limitato dal mal schiena, è addirittura tragico: 2 su 16 dal campo. A dieci secondi dal termine, coi Jazz avanti di 4, Kukoč effettua la rimessa. Pippen riceve in punta, the Waiter si butta in campo, finta di andare a sinistra disorientando per un attimo Karl Malone e poi cambia direzione andando a destra. A quel punto Scottie prende la decisione più logica vista la serata di grazia del compagno, la ridà a Toni che, senza nemmeno tentare un palleggio, la spara da tre sopra la testa del postino. La palla s’insacca ed è solo per un miracolo che lo United Center non viene giù. Trentello per Toni e meno 1 Chicago con cinque secondi da giocare. Pippen spende il suo sesto fallo su Jeff Hornacek che va in lunetta con 1.1 secondi sul cronometro. Il prodotto di Iowa fa uno su due. Time out Bulls coi Jazz sopra di due punti. Veniamo all’aneddoto poi confermato da coach Zen. John Paxson che, come tutti è testimone di una partita irreale di Kukoč, fa pressioni a Phil Jackson affinché affidi il tiro al croato. Sacrilegio, Phil Jackson lo snobba e sottolinea che Michael è ‘the man’, l’uomo dell’ultimo tiro. Detto fatto. MJ tenta un fade-away con una gamba sola su Bryon Russel. Airball. Tutto rimandato a Gara 6. E proprio nello Utah si sarebbe scritta un’altra pagina di storia cestistica che non serve rammentare qui. Ebbene, nonostante il concretizzarsi del secondo three-peat, in seguito, Phil Jackson ha ammesso il suo errore a Paxson. In molti, ancora oggi, si chiedono che piega avrebbe preso la carriera di Toni se in Gara 5 quella palla fosse finita nelle sue bollenti mani.
Le mani fatate di un giocatore immaginifico, l’archetipo del lungo moderno, in grado di fare tutto sui parquet di mezzo mondo. Un uomo che col suo esempio ha spianato la strada agli internationals e che ha contribuito a traghettare il basket nell’era moderna: un’epoca fatta di corpi irreali in grado di giocare positionless e tirare da distanze siderali.
Ci sono persone che si infervorano e parlano sempre di come cambiare un giorno il mondo e poi c’è Toni Kukoč che, più modestamente ma concretamente, il suo pezzettino di mondo, la pallacanestro, lo ha cambiato per davvero.
Hvala Toni