Uno sguardo alla carriera di una leggenda spesso dimenticata dalle nuove generazioni: un campione non convenzionale che ha dato al basket forse più di quanto abbia ricevuto.
La notte del 20 febbraio 2022, in quel di Cleveland, si terrà la 71esima edizione dell’All-Star Game che quest’anno avrà l’onore di celebrare il 75° anniversario della Lega, con un’attesa parata di campioni ad alto tasso lacrimevole.
Esattamente 25 anni fa, sempre nella città dell’Ohio, i 50 migliori giocatori di tutti i tempi avevano compiuto la stessa sfilata, cosa avvenuta in altri due precedenti.
Solo quattro nomi fanno parte di tutti questi Anniversary Teams, la cui prima edizione è datata 1971. Il primo, purtroppo unico assente a Cleveland poiché scomparso nel 2005, è Mr. Basketball George Mikan, il primo vero simbolo del Gioco. Il secondo e il terzo sono i soliti noti, Bob Cousy e Bill Russell, leggende dei Celtics 11 volte campioni in 13 stagioni tra gli anni ’50 e ’60.
Il quarto nome sfugge maggiormente all’immaginario collettivo, nonostante sia il principale responsabile del fatto che quegli anelli degli imbattibili Verdi del dopoguerra non siano 12. Tutti noi appassionati lo abbiamo sempre sentito nominare, probabilmente mai approfondendo la sua carriera più di tanto.
Bob Pettit ha l’unica “colpa” di aver illuminato i parquet in un’epoca lontana dagli occhi e dal cuore delle nuove generazioni, in cui il basket era lontano antenato di quello che vediamo a ogni scroll di Instagram oggigiorno.
Come si dice in contesti ben più gravosi, “chi non ha memoria non ha futuro” e per fortuna eventi come questa partita delle stelle ci costringono a ricordare chi ha segnato la via, ha posto le fondamenta.
È stato il primo MVP nella storia della Lega nel 1956, premio che ha bissato nel ’59; per anni è stato l’unico, prima dell’arrivo di Chamberlain, a impensierire Bill Russell dal suo dominio totale sotto le plance; ha vinto un titolo NBA, è stato indotto nella Hall of Fame, ha partecipato a 11 All-Star Game vincendone l’MVP quattro volte…
La sua storia, insomma, merita di essere conosciuta.
E inizia nell’ennesima estate insopportabile in quel di Baton Rouge, Louisiana, dove il caldo umido che viene dalle paludi si attacca ai vestiti, al corpo, alla gola, rendendo fastidioso persino il respiro.
L’intera popolazione cerca riparo all’ombra di qualche salice, rintanata in casa sotto a qualche stanca pala di ventilatore o appoggiando sulle membra bollenti una birra ghiacciata.
Un silenzio irreale riempie le strade appoggiate sulle rive del Mississippi, non fosse per un tonfo a cadenza regolare, proveniente dal cortile di casa Pettit dove Robert Jr., un bel giovanotto dall’aria seria e il fisico slanciato, si allena tutti i giorni incurante dei tentativi della madre di farlo rientrare per evitare un colpo di calore.
Quando il padre, Robert Senior, rientra a casa all’imbrunire dal suo ufficio, il giovane Bob è ancora lì, a provare movimenti, tirare, lavorare sul suo gioco in maniera maniacale.
Da due anni consecutivi, infatti, Coach Kenner Day lo ha tagliato dalla squadra del liceo, costringendolo a giocare nel campionato delle parrocchie: un’umiliazione che non è più pronto a sopportare.
Papà Bob sorride: è stato proprio lui a convincerlo a impegnarsi sempre di più, rendendosi conto che questa cosa della pallacanestro per il figlio non è un semplice passatempo, ma una sana ossessione, dalla quale il ragazzo vuole ottenere qualcosa di più che il semplice divertimento.
La fortuna aiuta gli audaci e quella stessa estate, prima di compiere 16 anni, Bob cresce di 13 centimetri, arrivando così oltre i due metri, convincendo coach Day a dargli finalmente un posto in squadra.
Risultato? Nell’anno da junior è nel miglior quintetto della città, nell’anno da senior porta Baton Rouge High al primo titolo statale della sua storia.
Nella sua cassetta postale, già nella penultima estate liceale, Bob trova più una dozzina di lettere di svariati atenei che lo implorano di giocare per loro. Nonostante la corte spietata, soprattutto di DePaul University, Pettit vuole restare vicino a casa, decidendo di impegnarsi con Louisiana State, dove nelle tre stagioni che gli è concesso di giocare – allora i freshman dovevano stare a guardare – dà una sterzata decisiva alla sua carriera professionistica.
Da centro, con la sua rara eleganza e infallibile precisione al tiro, Pettit domina già dal primo anno, chiuso a 25 e 13 rimbalzi di media; al secondo porta i Tigers alle prime Finals Four della loro storia, per poi chiudere il suo percorso universitario con una stagione da 31 punti e 17 rimbalzi a partita, numeri che pochi hanno solo avvicinato nella storia del college basket.
Quello che fino a qualche anno prima non era neanche nei sogni del giovane Bob sta per diventare realtà: la sera del 24 aprile 1954 diventa ufficialmente un giocatore professionista, scelto per secondo al Draft dagli allora Milwaukee Hawks.
La Lega in cui entra è leggermente diversa da quella cui siamo abituati.
Nel 1954 iniziano il campionato 9 squadre: lo finiscono in 8, perché i Baltimore Bullets, calcolando male il loro business plan, devono dichiarare bancarotta dopo nemmeno 25 partite.
Le altre franchigie ne giocano 72 totali, con trasferte che per lo più venivano condotte con bus, treni o anche le proprie autovetture.
Gli stipendi non sono certo quelli faraonici di oggi, nemmeno rapportando il valore del dollaro: Pettit firma un contratto – record per un rookie all’epoca – di 11 mila dollari all’anno, che lo obbliga a lavorare in offseason – nell’agenzia immobiliare dei genitori – e a divedere un appartamento con l’altro rookie Frank Selvy per ammortizzare le spese.
Dal punto di vista cestistico, inoltre, il futuro non sembra dei più floridi nel Wisconsin, sbarcando in una squadra per nulla competitiva: l’unico vantaggio è che ha sostanzialmente licenza di uccidere.
Coach Red Holzman, dal primo giorno di training camp, capisce di avere per le mani un giocatore speciale e decide di farlo concentrare sul gioco da ala forte, per usare meglio, oltre alla sua statura, la sua tanto innata quanto sinuosa capacità di muoversi negli spazi lasciati dalle difese. Un cambio di ruolo comunque non scontato.
Dopo anni e anni di gioco spalle a canestro, ritrovarmi improvvisamente ad operare fuori dall’area è stato abbastanza difficile: è come se avessi dovuto reimparare a giocare a basket
Per quanto la stagione degli Hawks sia un mezzo disastro, la crescita di Pettit nel nuovo ruolo è impressionante. Bob chiude l’annata d’esordio oltre i 20 punti e 13 rimbalzi a uscita, venendo selezionato nell’All-NBA First Team e ovviamente vincendo il ROTY.
Un’estate di cambiamento quella che arriva.
Dopo quattro stagioni non proprio esaltanti – costantemente ultimo record NBA – e un pubblico del Wisconsin che non si è ancora deciso a togliere un po’ di tempo dedicato al football per la palla a spicchi, la franchigia si sposta di 600 km a sud, approdando in quel di St. Louis, Missouri.
La Lega, stanca di partite a basso punteggio, si decide ad implementare una norma già ampiamente caldeggiata dagli addetti ai lavori: i 24 secondi diventano una realtà, ed effettivamente il gioco offensivo esplode.
La media a gara di tutte le squadre, nella stagione 1954/’55, non arrivava nemmeno a 80 punti: nel ’55/’56 supera quota 93. Bob, che fa dei rimbalzi offensivi il suo pane quotidiano e che dal suo esordio nella Lega ha cominciato a lavorare parecchio anche sul tiro dalla media, è il più pronto di tutti a questo cambio epocale.
Gli Hawks migliorano sensibilmente le loro prestazioni ed è difficile non vedere un nesso con la stagione clamorosa di Pettit: guida la NBA in punti (25.7) e rimbalzi (16.2). Vince il premio di MVP dell’All-Star Game, in cui fa registrare 20 punti, 24 rimbalzi e 7 assist, sconfiggendo una Eastern Division data da tutti come favorita.
Vince anche il primo titolo di MVP stagionale nella storia della Lega, premio introdotto proprio quell’anno; intervistato dopo la cerimonia di premiazione, con lucidità analitica da banchiere più che da giocatore di basket, cerca di spiegare il suo successo.
I rimbalzi d’attacco mi valgono tra gli 8 e 12 punti a gara. Se a questi aggiungi un minimo di 8 tiri liberi a segno, visto che subisco tanti falli, mi basta mandare a segno qualche jumper e sono già sulla strada per una buona serata. Diciamo che quest’anno ne ho avute più d’una.
Stavolta St. Louis fa un’ottima figura ai Playoffs, eliminando i Minneapolis Lakers al primo turno, salvo subire una feroce rimonta dai Fort Wayne Pistons in semifinale e chiudere la stagione ancora a mani vuote. Ma ci sono tutte le premesse perché a breve accada qualcosa di grande, dato che, a detta di tutti, la squadra ha per le mani il miglior giocatore della Lega.
Ma le cose stanno per cambiare.
Spinti dai grandi segnali di miglioramento, la dirigenza degli Hawks, nutrendo forti speranze di Titolo per la stagione 1956/57, decide di investire in due giocatori dei Boston Celtics, imbastendo una trade: la guardia veterana Ed Macauley e il rookie Cliff Hagan – entrambi verrano inseriti nella Hall of Fame, in cambio dei Draft rights di un centro molto interessante, proveniente da University of San Francisco, noto come Bill Russell.
Esatto, i due avrebbero potuto giocare insieme: diedero vita, invece, alla prima vera grande rivalità della NBA.
Pettit vs. Russell, Celtics vs. Hawks, diventeranno due leitmotiv della Lega per le stagioni successive, finendo per incontrarsi alle Finals quattro volte in cinque anni.
Al college uno dei miei marchi di fabbrica era il gancio, lo segnavo con regolarità e nessuno riusciva a fermarmi. Anche in NBA lo riproponevo di quando in quando. Alla prima partita contro i Celtics, dopo uno switch difensivo finisco per essere difeso da Bill Russell. Provo il mio gancio: non è che lo stoppò, lo afferrò con entrambe le mani… da quel giorno non ne ho più tirato uno.
Bill Russell è un bug per l’epoca.
Non si era mai visto un atleta del genere, così lungo e così atletico, in grado di condizionare gli attacchi avversari con la sua sola presenza; intimidazione fisica alla quale aggiunge un’intelligenza superiore che ne farà il giocatore più dominante di tutta la sua generazione.
Come volevasi dimostrare le due franchigie, guidate dai loro leader indiscussi, veleggiano verso le Finals, le prime della loro storia, senza subire sconfitte in tutti i Playoffs.
Gara 1 al Boston Garden dà subito il quadro del livello della competizione: vittoria Hawks dopo doppio overtime con un Pettit da 37 e 14.
I Verdi da Gara 2 in poi prendono le misure – Russell comincia a tritare tutto e tutti sotto i tabelloni – e nelle successive partite ben 3 si decidono con un margine di 2 punti: si va a una anticipata e attesissima Gara 7, che per i pochi testimoni rimasti è a tutti gli effetti una delle partite più belle della storia del Gioco.
Bob ne mette 39 con 19 rimbalzi, i Celtics ne mandano 6 in doppia cifra con Russell che registra una doppia doppia da 19 punti e 32 (!!) rimbalzi, ostacolando l’MVP stagionale con ogni mezzo necessario. Allora le stoppate non venivano conteggiate, ma siamo abbastanza certi che la tripla doppia sia arrivata comodamente.
Ricordo nell’ultimo quarto di aver provato a tirare 4 volte vicino al canestro: due me li ha rispediti al mittente, altri due li ho sbagliati perché lo cercavo con lo sguardo. Era un difensore diabolico, dovevi sempre sapere dove si trovava o saltava fuori dal nulla per cancellare le tue conclusioni.
Ma a decidere la gara non sono né le due stelle, né il veterano Cousy, che giocherà tutti e 58 i minuti di partita con un deludente 2/20 dal campo: è il rookie Tom Heinsohn, che segna 37 punti compreso il canestro decisivo del sorpasso a pochi secondi dalla fine del secondo overtime.
Il tentativo disperato di Pettit, che tira quasi di tocco prendendo un cross del compagno Alex Hannum a tutto campo, si ferma sul ferro. Finisce 125 a 123, curiosamente lo stesso risultato – e stesso minutaggio – di Gara 1 a parti invertite.
Qualche ora dopo che i Celtics hanno sollevato il trofeo di campioni, Bob si attacca al telefono: il povero Alvin Roy e tutta la sua famiglia vengono svegliati nel cuore della notte.
Alvin è un personal trainer di stanza a Baton Rouge e alla domanda di Pettit “Come posso migliorare?”, Roy risponde con un intenso programma per mettere su massa muscolare, in modo da aumentare la forza fisica senza sacrificare l’agilità.
La cosa che più mi ha contraddistinto come giocatore di basket è stata la voglia di vincere, la determinazione. Devi analizzare il tuo gioco, capire di cosa hai bisogno per migliorare e concentrarti su quello, lavorando duramente senza perdere fiducia.
Nelle stagioni successive, in modo graduale, Pettit riuscirà a mettere su oltre 13 chili di muscoli per avere una corazza più pronta per una NBA che si fa sempre più fisica e dura. Ma nella sua testa, in realtà, c’è solo Bill Russell.
A poco meno di un anno dalla lacerante delusione di Gara 7, gli Hawks sono di nuovo al Garden di Boston per sfidare i campioni in carica, col miglior record stagionale, guidati dall’MVP della Lega, il tentacolare centro col numero 6.
Gara 1, come l’anno precedente, è degli Hawks per 104 a 102, con l’ennesima prestazione sublime di Pettit da 30 punti e 19 rimbalzi. Dopo la vittoria Celtics nella seconda sfida, le gare 3 e 4 vengono divise equamente tra le due franchigie.
È Gara 5, come spesso capita, ad essere il turning point: St. Louis resiste a una furiosa rimonta dei Verdi nell’ultimo quarto e vince in quel di Boston, conquistandosi il match point in casa propria al Kiel Auditorium.
Qual è la grande differenza? Bill Russell non scende in campo né in Gara 4 né in Gara 5 per un serio problema alla caviglia. Per Gara 6 non c’è infortunio che tenga e torna in campo, seppur limitato a 20 minuti di gioco. Boston gioca una partita esemplare, dando tutto quello che ha, ma Pettit ha capito di essere all’appuntamento col destino.
Fa registrare una delle più incredibili prestazioni nella storia delle Finals, segnando 31 punti nei primi tre quarti, per poi segnare 19 degli ultimi 21 di squadra nell’ultimo periodo, compreso un tap in a rimbalzo offensivo che vale il sorpasso decisivo a meno di 15 secondi dalla fine.
50 punti, 19 rimbalzi e il tanto agognato Titolo NBA per gli Hawks, il primo e ultimo nella storia della franchigia.
Le due squadre si incontreranno di nuovo nelle Finals nel 1960 e nel 1961: la prima serie finisce nuovamente a Gara 7, dominata però dai Verdi; così come sarà dominata per intero la serie del 1961, che Russell chiude a 18 punti e quasi 29 rimbalzi di media.
Capitolata la stagione, Pettit sente che la sua parabola discendente è già cominciata, nonostante sia ancora molto giovane. Come detto, ogni estate lavorava insieme ai genitori nell’agenzia immobiliare di famiglia, e dal lavoro comincia a trarre lo stesso se non maggior gradimento rispetto alla sua carriera professionistica.
Nell’estate del ’63 un amico che lavora all’American Bank di Baton Rouge gli offre un impiego, con la possibilità di crescere all’interno dell’azienda: non vogliono farsi scappare quel gentiluomo del sud dalla spiccata etica del lavoro come lui.
Come per un appartamento in cui si ha vissuto a lungo, Bob decide di concedere un ampio preavviso al proprietario degli Hawks Ben Kerner: due stagioni e lascerà il basket per andare a lavorare in banca.
Kerner pensa a uno scherzo, annuisce convinto che al momento della verità Pettit cambierà idea, ma evidentemente non lo conosce abbastanza: nel 1965, a soli 32 anni, Bob lascia la pallacanestro… per andare a lavorare in banca.
Allora il basket non era sufficiente a sfamarti per il resto dei tuoi giorni, una volta appese le scarpe al chiodo. Mi diedero l’opportunità di avere un buon lavoro e accettai ben lieto, anche se questo significava lasciare il Gioco. Inoltre negli ultimi anni avevo cominciato ad avere diversi acciacchi e dolori. Mi sono detto: meglio diventare un giovane banchiere che un vecchio giocatore che si trascina malinconico e stanco su e giù per il campo.
Da allora ha lavorato tra banca e finanza fino al 2006, anno della meritata pensione, sempre rimanendo ancorato alla Louisiana, spostandosi tra Baton Rouge e New Orleans.
Nonostante i grandi successi, la rivalità con Bill Russell, l’essere una delle prime leggende del Gioco, Pettit ha abbandonato definitivamente la pallacanestro nell’estate del 1965, e da allora l’ha sfiorata solo come abbonato ai Pelicans.
Come un vero uomo d’altri tempi, neanche all’alba dei suoi 89 anni c’è spazio per la nostalgia.
Molti ex atleti ripensano alla loro carriera nel basket come l’apice della vita, vivono costantemente proiettati nel passato. A me questo non è mai successo, ho avuto la stessa gioia e soddisfazione dal lavoro dopo la carriera che giocando. Non credo che molti miei ex colleghi possano dire la stessa cosa.