Gara 5, NBA Finals 1976: come Suns e Celtics hanno dato vita ad una delle partite più incredibili nella storia della Lega.

L’MVP delle Finals dell’anno precedente, Rick Barry, è seduto a bordo campo in cabina di commento per CBS, al fianco del grande Brent Musburger. 

Qualche settimana prima usciva dall’arena di Oakland con una cocente delusione per una Gara 7 persa in casa alle Western Conference Finals: ciononostante gli è difficile dissimulare un certo entusiasmo quella notte.

Ha le mani nei capelli e gli occhi pieni di chi sta assistendo a qualcosa di speciale: “È senza dubbio la partita più incredibile a cui abbia mai assistito”, il suo commento prima ancora che inizi l’ennesimo overtime di serata.


Bisognerà aspettare 17 anni da quel 4 giugno 1976 al Garden per vedere un’altra gara delle Finals decidersi al terzo supplementare, e da allora non è mai più successo. Trovare invece un finale di partita – o meglio, del secondo supplementare – più controverso e al cardiopalma all’ultimo capitolo della stagione è onestamente complicato. Ancora oggi, dai testimoni diretti dell’evento, si alza all’unisono una litania: una delle, se non la migliore partita nella storia della Lega.

Quella Gara 5 arriva dopo una stagione particolare per entrambe le franchigie, ognuna per motivi differenti.

I Celtics partono con grande determinazione dopo l’amarezza dell’anno precedente: l’eliminazione subita, da grandi favoriti, alle Eastern Conference Finals per mano dei Washington Bullets di Elvin Hayes. 

Con la tipica chip on the shoulder dei campioni feriti con qualcosa da dimostrare, passano come una schiacciasassi su tutti gli avversari, volando alle Finals dopo una stagione col miglior record ad Est e due semi-passeggiate in post season contro Buffalo e Cleveland.

I Suns, all’ottavo anno di vita, trascinati dal Rookie of the Year Alvan Adams, ritrovano finalmente i Playoffs, afferrati solo al secondo anno e poi sempre mancati – e non di poco. Proprio tra le due franchigie, a inizio anno, avviene una trade molto discussa: il tre volte All-Star di Phoenix, la macchina da punti Charlie Scott, viene spedito a Boston in cambio di Paul Westphal e due future scelte al Draft.

Un uomo da quasi 30 punti a uscita, scambiato per un panchinaro che mai ha raggiunto la doppia cifra di media nei primi tre anni di carriera: sembra una follia, ma coach MacLeod ha più in chiaro di tutti il potenziale di Westphal, e la guardia californiana lo ripaga con una stagione straordinaria, la prima di una luminosissima carriera.

Con il quarto record ad Ovest, Phoenix arriva alle prime Finals della sua storia eliminando prima Seattle Sonics e poi, in un clamoroso upset, i campioni in carica, Golden State: per questo loro exploit, vengono ribattezzati i Sunderella Suns – riferimento a Cenerentola.

Le prime due gare sono piuttosto prevedibili, tra una squadra inesperta alla prima sul grande palcoscenico delle Finals e i vecchi volponi in maglia verde: 2-0 Celtics che non lascia presagire grandi speranze per il resto della serie.

Invece, in Arizona, i Suns si scrollano di dosso l’ansia da prestazione e rispondono con due sofferte vittorie consecutive che riportano il punteggio in parità: 2-2 e una pivotal Game 5 in quel del Boston Garden, dove si prospetta una sfida piuttosto calda.

Calda, ma non fino a questo punto…

Se doveste avere 2 ore e 37 minuti liberi, vi consigliamo vivamente di dedicarli a questa partita, che ha al suo interno praticamente tutto e qualcosa di più:

Nel primo tempo i Celtics volano sulle ali dell’entusiasmo, spinti da un pubblico “balcanico”, andando in vantaggio anche di 22 punti nel secondo quarto. Ma Phoenix rintuzza, non molla mai, ribatte colpo su colpo e torna in partita, fino a trovare la parità all’inizio dell’ultimo quarto di gioco.

Il primo giallo di serata avviene verso la fine dei tempi regolamentari.

Sul punteggio di 95 pari i Suns hanno una rimessa a 3 secondi dalla fine per tentare una conclusione vincente. L’apertura di Garfield Heard è rivedibile, finendo direttamente nelle mani dei Celtics, col cronometro ancora vivo.

Paul Silas chiama con forza un timeout che l’arbitro Richie Powers non vede – o sceglie di non vedere… – cosicché il tempo scade spedendo la partita all’overtime. I Celtics non avevano timeout a disposizione: l’eventuale concessione di un timeout avrebbe comportato un fallo tecnico, dando quindi ai Suns la possibilità con un libero di portare a casa la vittoria.

Il momento dell’ignorato timeout chiesto da Paul Silas

Non è corretto fare un processo postumo alle intenzioni: va detto per onestà intellettuale che, rivedendo le immagini, la possibilità che l’arbitro Powers non abbia visto il teatrale gesto di Silas che cercava di attirare la sua attenzione, è quantomeno risibile. Non lo sapremo mai, meglio così.

Nel primo supplementare Boston tenta di dare una spallata decisiva ma due prodezze di Heard riportano il punteggio in parità; il tiro allo scadere di Havlicek è troppo difficile e non trova il fondo della retina.

Arriviamo al secondo overtime, il momento chiave della notte e la ragione principale per cui questa sfida è entrata nella leggenda.

Grazie a un immenso Jo Jo White, i Celtics sono sopra di tre punti a 19 secondi dalla fine, quando i Suns chiamano il loro ultimo timeout – non è un dettaglio – per cercare di costruire una strategia per rientrare in gara. Impresa complicata anzi che no: tre punti, all’epoca, significano ancora due possessi di distanza.

C’è poco da fare se non cercare un canestro veloce e commettere fallo: la riserva Dick Van Arsdale infila un jumper dall’angolo, la prima parte del piano è compiuta. Silas effettua una pigra rimessa nelle mani di John Havlicek che, per un curioso caso del destino, subisce la giocata che lo ha reso immortale in prima persona un decennio prima. Vi ricordate di Havlicek stole the ball?

Westphal si traveste dal suo vecchio compagno di squadra ed effettua uno scippo straordinario, riuscendo miracolosamente anche a tenere la palla in campo: Curtis Perry la raccoglie, sbaglia una prima conclusione ma sul rimbalzo lungo la riafferra e manda a segno un tiro difficilissimo per il +1 Phoenix.

La famosa citazione di Rudy Tomjanovich “Don’t ever underestimate the heart of a champion” arriverà solo una ventina d’anni più tardi, ma molti presenti al Garden avranno avuto un pensiero simile, nel vedere il 36enne Havlicek, ferito dalla giocata subita, segnare un canestro impossibile nel possesso successivo, mentre la sirena suona la fine della gara.

Ma siamo sicuri che il tempo fosse finito davvero? Rivedendo le immagini è piuttosto evidente che la gara non sia affatto terminata: il bank shot di Havlicek arriva con 2 secondi ancora sul cronometro, che viene lasciato correre più del dovuto dal tavolo del Garden. Per errore o per malizia, anche qui, non è dato saperlo.

Powers, grande protagonista di serata, si sbraccia per far capire che c’è ancora del tempo da giocare, ma i tifosi Celtics hanno già invaso il campo per festeggiare la vittoria. Mentre i giocatori di casa corrono verso gli spogliatoi in pieno giubilo, un tifoso assale Powers che sta cercando di riportare le squadre in campo.

Una scena allucinante, che l’ufficiale di gara non ha certamente dimenticato:

Ero a metà campo con la palla tra le gambe, stavo cercando di far capire a tutti che la partita non era finita, quando con la coda dell’occhio vedo questo tizio venire verso di me. Mi ha colpito al petto, poi mi ha sferrato due pugni che sono riuscito a schivare. A quel punto siamo caduti sul parquet l’uno sull’altro, prima che alcuni giocatori dei Suns e la sicurezza ci dividessero – e lo conciassero per bene… Incredibile come un gesto così stupido abbia rischiato di rovinare una delle più belle partite di sempre!

– Richie Powers

Miracolosamente si riesce a ristabilire ordine in campo: Powers ordina di rimettere un secondo sul cronometro, con Phoenix che avrà la palla per un ultimo tiro, pur partendo da sotto il proprio canestro.

E qui il colpo di genio, ancora una volta del compianto Paul Westphal, che convince anche coach MacLeod della sua idea: Phoenix non ha più timeout ma un vuoto legislativo dell’epoca lascia uno spiraglio per un’incredibile furbata.

brightsideofthesun.com

Chiamare il timeout senza averne a disposizione significa sì concedere un libero agli avversari, ma permette alla squadra di avere comunque il minuto a disposizione per organizzarsi e inoltre di mantenere il possesso della palla, avanzando la rimessa a metà campo. Sul -1 a meno di 2 secondi dalla fine, dovendo altrimenti partire da fondocampo, è un affare. 

Stavolta Richie Powers non può esimersi da chiamare il timeout di Westphal: libero segnato da Jo Jo White, Celtics avanti di 2, Suns che hanno una rimessa a metà campo per tentare di allungare ulteriormente la gara.

Il Garden è pronto a invadere di nuovo il campo, gli agenti di sicurezza faticano a tenere i tifosi fuori dal rettangolo di gioco, ma l’incredibile accade: Garfield Heard riceve la rimessa, si gira nello spazio di una monetina e lascia partire una conclusione miracolosa che trova il fondo del canestro. Parità e terzo overtime in arrivo.

Al riavvio delle ostilità, per i Celtics sembra mettersi male: Paul Silas, autore nonostante il rischio di quel timeout di una prestazione monumentale, commette il sesto fallo, raggiungendo in panchina Charlie Scott e Dave Cowens, che hanno già terminato la partita per lo stesso motivo. Al suo posto entra in campo Glenn McDonald, che fino a quel momento aveva giocato solo una manciata di minuti con zero punti sul tabellino.

Per l’ala al secondo anno nella Lega si tratta dell’ultima stagione in NBA: l’anno successivo, dopo solo 9 gare disputate con i Bucks, andrà a cercare fortuna nel campionato svedese e successivamente in quello filippino. Questi 3 minuti di partita, però, gli permetteranno di prendersi un piccolo posticino nella leggenda – nonostante a Boston, di posto in mezzo alle leggende, ce ne sia ben poco.

Un canestro da sotto dopo un bel backdoor, un fadeaway impossibile dall’angolo, un altro jumper e un rimbalzo fondamentale, con fallo subito e due liberi mandati a segno: questo il suo incredibile score nel terzo overtime, decisivo per portare i suoi in vantaggio di 6 lunghezze.

Nonostante due canestri impossibili di Westphal, compreso un jumper dopo uno spin di 360° in aria, i Celtics riescono a far scadere il cronometro con un esausto Jo Jo White, MVP di serata con 33 punti e 9 assist, che dribbla gli avversari, evitando di subire fallo.

Punteggio finale: 128 a 126.

48 ore dopo si torna a Phoenix: nessuna delle due squadre sembra avere la forza per affrontare il match, e come spesso capita quando le forze vengono meno, è l’esperienza a prevalere. Boston controlla la gara e si laurea campione NBA per la 13esima volta nella sua storia trentennale: una media imbarazzante.

Da allora tante cose sono cambiate: è stato introdotto il tiro da tre punti e la regola riguardante i timeout è mutata, concedendo il possesso agli avversari in caso di fallo tecnico per timeout chiamato senza averne a disposizione.

Resta una partita leggendaria, resa tale anche dai disguidi tecnici e dai vuoti normativi, in un’epoca in cui tutto lo sport sembrava essere vissuto in modo più naïf, niente affatto in senso dispregiativo.

A chiunque vi dica che il basket degli anni ’70 era noioso, potete rispondere con questi 63 minuti di ordinaria follia al Boston Garden.