La storia dell’allenatore più iconico del college basketball statunitense: un bellissimo sguardo sulla Chicago multietnica del dopoguerra e su come, restando fedeli ad un ambiente, si possa uscirne con grande successo.


“Abbiamo sempre creduto possibile che chiunque potesse raggiungere quanto il proprio talento ed energia avessero permesso, anche partendo dal basso. Né la razza né il luogo di nascita dovrebbero avere un peso nelle possibilità di ciascuno.”


Sono queste le parole che, nel 1964, Robert F. Kennedy scriveva nella prefazione di un libro derivato da un saggio scritto inizialmente da suo fratello maggiore John, trentacinquesimo Presidente degli Stati Uniti d’America ucciso a Dallas qualche mese prima di poter completare tanto la revisione del proprio testo quanto il mandato da Capo di Stato.

Il volume portava, anche nella sua revisione, il titolo di “A Nation of immigrants”, eloquente rappresentazione di come gli States siano stati costruiti sulla pelle e tramite la fatica di persone provenienti da lontano. Al di là della scontata retorica “sognoamericanista”, il libro dei Kennedys è un merviglioso affresco della concezione che la politica americana – pur con le evidenti ipocrisie di un paese ancora immerso nella segregazione – aveva in quel preciso momento storico degli stranieri, soprattutto di seconda generazione: il nostro Paese vi deve tutto, non saremmo dove siamo senza di voi, è il vostro momento di arrivare in cima.

Si tratta ovviamente di una posa falso progressista, come dimostreranno ampiamente tanto i fatti susseguenti quanto il diffuso razzismo contro italoamericani, irlandesi e slavi che ancora oggi infesta l’Unione.

A stupire studiando quel preciso momento storico, tuttavia, è il fatto che alcuni di questi second-generation children siano veramente riusciti, tramite il talento e l’energia menzionati da RFK ad arrivare alle vette della società, senza mai dimenticare l’enclave da cui tutto era cominciato, ma sfruttandola come ispirazione e rete di sicurezza.

Tra coloro che hanno avuto un simile successo, non si può dimenticare di citare un regista come Martin Scorsese, delicato nel raffigurare gli aspetti anche più controversi delle Little Italy di tutta la Nazione ed in grado di parlare delle proprie origini senza scadere in un qualunquismo stereotipico, ma rimanendo fruibile anche per chi non avesse medesimo retroterra culturale.

Un giovanissimo prodigio (ha iniziato a dirigere prima dei vent’anni) che è uscito dalla sua bolla per rientrarci con una consapevolezza nuova, rompendo le barriere senza uniformarsi. Una storia molto simile, per quanto vi siano numerose differenze sociali, a quella di Mike Krzyzewski, altro vincente che ha saputo rendersi universale.

Infanzia: “I don’t want to be a product of my enviroment. I want my enviroment to be a product of me.” (The Departed, 2006)

Micheal William Krzyzewski (dovrebbe pronunciarsi SCHA-SCHE-FSKI, ma continuate a chiamarlo K, andate sul sicuro) nasce il 13 febbraio del 1947 nella Little Ukraine di Chicago, luogo dove trascorrerà buona parte della propria infanzia. I suoi genitori sono William, polacco di seconda generazione ed ascensorista, ed Emily, di origini austriaco-polacche, donna delle pulizie notturna al Chicago Athletic Club.

I due, costretti a lavorare dalla più tenera età e impossibilitati a continuare gli studi oltre le grade schools, impartiscono ai figli grande senso della disciplina, accompagnato da una rigidissima educazione cattolica nella scuola elementare di St. Helen’s. Tuttavia, Bill ed Em omettono volutamente da questa formazione qualunque riferimento possibile alla lingua e all’etnia polacca, spaventati dalla profonda ondata di razzismo che ha coinvolto gli Stati Uniti nei confronti dei cittadini originari di quelle popolazioni che stavano lentamente avvicinandosi all’arcinemico sovietico.

FOTO: Emily K Center

Una scelta per preservare eventuali discriminazioni alla propria famiglia che Mike comprenderà solo in tarda età, ma che rifiuterà con la fermezza ideologica che lo contraddistingue, come dimostra una sua e-mail inviata qualche anno fa ad un giovane studente polacco-americano.

“Mio padre si è fatto conoscere con il nome di Bill Kross nei suoi anni da ascensorista e militare durante la Seconda Guerra Mondiale. Temeva che il nome Krzyzewski lo discriminasse. Io sono sempre stato fermissimo nel voler tenere il mio nome. […] Crescendo in un quartiere polacco ho imparato la dignità del lavoro, ognuno si faceva trovare al proprio posto ogni giorno per svolgere il proprio dovere. Sono fiero di queste origini.”

Nonostante il grande orgoglio che si respira nei poverissimi sobborghi di Chicago che è solito frequentare, le difficoltà materiali incontrate dal futuro Coach K nello sviluppo della propria passione cestistica – fin dai primi anni di età una costante – sono da subito moltissime. St. Helen’s non ha nemmeno una palestra in cui accogliere i propri studenti, e le autorità scolastiche rifiutano con convinzione la richiesta di Mike ed altri di creare una squadra per far parte della Catholic League.

K, tuttavia, non demorde e, ispirato da mamma Emily – per tutta la vita sua prima confidente e modello – decide di prendere l’iniziativa e a 12 anni “fonda”, allena e prende parte ad una squadra di amici del quartiere che si fa valere per tutti i campetti di quelle zone di Chicago. I Warriors. La sua prima esperienza da allenatore.

“Sapevo di essere un leader perché organizzavo continuamente cose. L’altra cosa di cui mi ero reso conto era quanto fossi competitivo. Odiavo perdere.”

Tra interminabili partite nei centri cattolici del quartiere e qualche scampagnata al lago, durante le quali il giovane Mike dilettava gli amici con la sua personalissima interpretazione di uno sceicco, con tanto di turbante di asciugamani in testa, il gruppo si compatta, tanto che ancora oggi, in quelle vie di Windy City, non è raro trovare qualcuno che ricorda le avventure del coach.

Nonostante l’evidente impatto che questa infanzia tanto semplice quanto intimamente travagliata ha sul giovane Krzyzewski, a formare definitivamente “Mickey” è certamente il periodo liceale, trascorso a Weber High School, scuola – ovviamente di matrice cattolica – unicamente maschile, in cui il figlio di Bill incontrerà maniera ancora più dura l’enorme orgoglio di quel quartiere così povero, condividendolo.

“Al liceo ho imparato il lavoro di gruppo e la disciplina, due parole che sembravano brutte ma non lo sono. Queste due parole ne producono sempre una terza: orgoglio.”

A Weber, a trasformare il futuro capo allenatore nel preciso ed intransigente professionista che abbiamo ammirato per un quarantennio sono soprattutto due figure ancora oggi ritenute centrali dallo stesso Micheal: Coach Al Ostrowski e Padre Francis Rog. Se il primo, come desumibile, è il giovane allenatore che tra gli stenti dell’Ukranian Village porta Mike ad esplodere, rendendolo due volte miglior marcatore della Catholic League di Chicago, il secondo è un timido ecclesiastico ed insegnante di geometria che K tenta, senza alcun successo, di imbonire con una mela il primo giorno di lezione.

Nonostante questo primo fallimento, Padre Rog si interessa fin da subito a quel ragazzino così determinato e al contempo così fragile, divenendo il principale confidente e consigliere di Micheal, sia dal punto di vista spirituale che da quello pratico.

Sarà lui a guidare Mike verso un ritorno alla fede e a celebrare il funerale di mamma Emily nel 1996, e, al contempo, sarà sempre lui a fornire preziose pratiche pedagogiche davanti ad un caffè nei momenti di difficoltà del coach. Rigorosamente con una maglia di Duke, nonostante del basket non sappia molto, come ha confessato nel 2015.

“Sono un fan. Non dello sport. Della persona.”

– Padre Rog

Terminata nel 1965 l’intensa ed arricchente esperienza a Weber, il giovane Krzyzewski, entrato nei taccuini di diversi scout collegiali, si trova nell’inaspettata situazione di poter scegliere tra diverse borse di studio collegiali. La sua idea, a questo punto, sembra essere chiara: giocare per un’università dalla grande tradizione cestistica e cercare di trarre il meglio dall’esperienza sia dal punto di vista sportivo che da quello didattico.

Riferita la decisione a Bill ed Emily, però, la proposta non ottiene l’assenso aspettato: i genitori, infatti, sono galvanizzati dall’idea che il figlio possa andare all’accademia di West Point – altra delle pretendenti – per diventare ufficiale e obbligano per questo Mike a scegliere la carriera militare. Un’imposizione che si rivelerà particolarmente fruttuosa.

FOTO: CNN

“La mia famiglia mi ha detto che dovevo assolutamente andare. West Point è per i ricchi ed i privilegiati, o almeno loro la pensavano così. Se ci fossi andato, sarebbe successo qualcosa di buono per tutti noi.”

– Coach K

Accademia, Bob Knight, Esercito: “Honorable men go with honorable men.” (Mean Streets, 1973)

Ad aspettare Mike a West Point, oltre al duro addestramento di un apparato militare che si sta convincendo in maniera sempre più profonda di come quella in Vietnam non sia una scaramuccia, c’è un giovane allenatore di 24 anni già da tempo noto per il suo temperamento esplosivo e per la rigidità dei propri metodi: coach Bob Knight, il terzo mentore della vita di Krzyzewski.

I due si piacciono da subito: Bobby – che pure non risparmia critiche ad un Mike ritenuto troppo estroso –  adora la mentalità team-first del proprio nuovo playmaker, che arriva a rifiutare tiri aperti pur di eseguire il suo rigido gameplan, mentre Micheal vede in quel burbero allenatore poco più anziano un libro aperto da cui trarre conoscenze cestistiche e di capacità gestionale. Una tale unione d’intenti non può che giovare ai Black Knights, i quali – a partire dalla prima vittoria, ottenuta nel 1965 contro il Politecnico di Worcester – non fanno che migliorare.

“Non c’è mai stato un insegnante del Gioco migliore di lui, se non forse Pete Newell, che ho potuto conoscere solo grazie a Bobby.”

Nel 1969, dopo tre anni sempre dal record positivo e altrettante vittorie nella storica partita di fine anno Army vs. Navy, vero e proprio crocevia della squadra dell’Esercito, Mike – ormai diplomato ed ufficialmente parte delle Forze Armate statunitensi – comincia la propria carriera di allenatore in alcune prep schools collegate all’istituzione militare.

Bobby, che sta seguendo da vicino la carriera del proprio pupillo, teme tuttavia che proseguire su quella strada possa portare Krzyzewski ad impantanarsi nel contorto e poco meritocratico meccanismo pubblico a stelle e strisce. Per questo motivo, all’alba della stagione 1974/75, decide di chiamare Mike con sé ad Indiana (dove era approdato quattro anni prima), offrendogli il posto di assistente part-time.

Coach K non se lo fa ripetere due volte, decidendo di sfruttare il proprio tempo a Bloomington per terminare il proprio apprendistato sul pino e la propria educazione. Non a caso, infatti, la sua stagione sarà divisa tra gli allenamenti del “Generale” Knight e le aule del master in Economia.

Il primo impatto, tuttavia, non è così trionfale come ci si possa aspettare da un futuro Hall of Famer della pallacanestro collegiale. Mike sembra intimorito dal talento e dall’organizzazione di una delle migliori università cestistiche del Paese e non riesce ad imporsi, con i giocatori che, non avendo mai sentito parlare di lui, tendono a diffidare delle sue indicazioni.

L’apice si raggiunge in inverno. Coach Knight, desideroso di dare uno scossone a K, affida al giovane assistente i titolari per parte dell’allenamento. I giocatori, dopo qualche minuto di imbarazzato silenzio da parte del figlio di Emily, entrano in autogestione per evitare di sprecare la sessione. Dopo un primo evidente spaesamento, dall’altra parte della palestra si sente risuonare un grido.

“MIKE! Ti do da allenare la squadra più forte del Paese e tu non ha niente da dire? Ora vai là e digli cosa diamine devono fare.”

– Bobby Knight

Al termine della stagione, sopraggiunto con una dolorosissima sconfitta per mano di Kentucky nelle Elite Eight, il timido assistente-economista ha tuttavia interamente superato le proprie difficoltà iniziali, e sembra pronto a spiccare il volo in solitaria. Ad offrirgli l’opportunità di iniziare la propria carriera di capo allenatore è, casualmente, proprio l’Esercito, il quale, insoddisfatto dei risultati post-Knight, spera che prendere il suo riconosciuto successore possa riportare ai fasti del tempo.

I cinque anni di regno di Coach K, tuttavia, sono decisamente mediocri, con la squadra che arriva addirittura a concludere con record negativo la stagione 1979/80,  l’ultima dell’allenatore di origini polacche a West Point. Nonostante i risultati sotto le aspettative e i soli 33 anni di età, tuttavia, alla fine di quell’annata così controversa Micheal riceve una telefonata che sconvolgerà in maniera permanente il panorama del college basketball statunitense.

La prima Duke, fallimenti, rivolte, vittorie: “Every man… every man has to go through hell to reach paradise.” (Cape Fear, 1991)

Il 18 marzo 1980 Tom Butters, athletic director di Duke University, ha da poco annunciato Mike come nuovo allenatore dell’Università del North Carolina.

Il direttore, visti gli alti e bassi di del programma – capace di raggiungere le 1.000 vittorie in Division I e di giocare tre Final Four in otto anni, ma anche di inanellare stagioni al limite dell’imbarazzante – ritiene infatti che un metodico allenatore di ispirazione militare in grado di strizzare l’occhio alle modernità del Gioco sia la persona giusta per riportare ordine e successi all’istituzione.

FOTO: Raleigh News and Observer

I feroci giornalisti al seguito della Squadra, tuttavia, non la pensano allo stesso modo, e in quel freddo martedì di fine inverno si schierano in maniera abbastanza eloquente contro la scelta di lasciare ad un semi-sconosciuto Capitano di Fanteria il compito di guidare i Blue Devils. Perfino il giornale studentesco interno all’Università esce con una Prima Pagina tanto eloquente quanto maliziosa.

“Krzyzewski: non è un errore di battitura.”

L’allenatore, poi, non sembra essere per niente aiutato dalle contingenze. Il suo senior e capitano, Kenny Dennard, viene a sapere della nomina a capo allenatore mentre si trova in spiaggia intento a saltare lezione ed allenamento, mentre un potenziale recruit dello stato, tale Micheal Jeffrey Jordan, informa pochi giorni dopo la scelta dello “sconosciuto” di non ritenere più Duke uno dei suoi possibili punti di approdo. Si accaserà all’acerrima rivale UNC, causando non pochi malumori nei fan di Durham.

Le prime stagioni seguono questo andamento decisamente negativo. La squadra non ingrana, pur concludendo la prima annata con record leggermente positivo, e i tifosi – già riluttanti – inneggiano al licenziamento. Il culmine è raggiunto al termine della stagione 1982/83. I Blue Devils, che per tutto l’anno si sono resi protagonisti di prestazioni scadenti, sono appena stati eliminati dall’ACC Tournament in seguito ad un blowout di oltre 40 punti da parte di Virginia – ancora oggi la peggior sconfitta della storia del torneo.

Mike, rientrato dall’arena, è sicuro di aver perso il posto di lavoro, e cerca di consolare la moglie Mickie, in lacrime nella camera d’hotel. Butters, fautore della scelta e quindi responsabile del disastro, sta invece cercando di fermare la rivolta popolare dei sostenitori (anche economici) della squadra, giunti nella lobby dell’hotel con tutt’altro che buone intenzioni. Ristabilito l’ordine pubblico, Krzyzewski e alcuni membri del front office vanno a cena in un Denny’s locale, dove, involontariamente, il burbero Mike riesce a salvare il proprio posto di lavoro.

“Tom Mickle ha fatto un brindisi dicendo ‘Per dimenticare questa serata’, Mike ha alzato il suo bicchiere ribattendo ‘Per non dimenticare MAI questa serata.’ “

– John Feinstein

La feroce reazione di Mike alla svalutazione della mediocrità, infatti, convince Butters ad un pericolosissimo gioco al raddoppio che vale un rinnovo di contratto al coach di Chicago. Dietro all’apparentemente inspiegabile scelta di Butters, tuttavia, non c’è solo ammirazione per le scelte di Micheal. Il direttore, infatti, è perfettamente conscio di come coach K – da subito recruiter di livello stellare – abbia portato a Durham nei due anni precedenti una serie di giocatori che, una volta superata una prima fase di ambientamento, saranno certamente in grado di portare i Blue Devils a nuovi, grandi traguardi.

Licenziare l’uomo capace di metterli insieme (e di tenerli a bada nonostante la mediocrità dei risultati) non è quindi pensabile, almeno in un primo momento. Una scommessa che si rivelerà decisamente azzeccata, visto che quella dei  laureati nel 1986 è ancora oggi conosciuta come The Class that saved Coach K.

“Quella classe ha mostrato la via, stabilito un modello. Non soltanto il calibro dei giocatori, ma quello delle persone, tutto quello che abbiamo fatto negli anni seguenti è stato cercare di replicare quello.”

– Coach K

Il gruppo, guidato da Johnny Dawkins, Jay Bilas e Mark Alaire, non delude le aspettative, raggiungendo per la prima volta il Torneo nel 1984, a solamente un anno dalla “rivolta” post-sconfitta con Viriginia. La prima vittoria della March Madness arriverà la stagione seguente contro Pepperdine, mentre per la prima run degna della storia di Duke bisognerà aspettare l’ultimo anno di quel core in grado di rivoluzionare la carriera di Krzyzewski, il 1985/86.

FOTO: alumni.duke.edu

Dopo una regular season da 37 vittorie e 3 sconfitte, infatti, i ragazzi di Micheal – a cui si è aggiunto un giovane freshman che sta prendendo appunti sull’attacco di coach K: Quin Snyder – superano agilmente la fase regionale del Torneo, approdando per la prima volta alle Final Four. Il lascia o raddoppia ha funzionato e, nonostante la sconfitta, sia Butters che gli ex-detrattori sono certi che Duke sia tornata.

I primi titoli: “My whole life is pointed in one direction, I see that now, there has never been any choice for me.” (Taxi Driver, 1976)

Dopo il primo exploit del 1986, la Duke di Coach K si afferma stabilmente tra le realtà vincenti del basket NCAA. Con l’unica eccezione della stagione 1987 – in cui verrà eliminata dalla Indiana del mentore Knight – l’università di Durham sarà infatti sempre in grado di raggiungere il weekend conclusivo, perdendo la prima Finale disputata contro UNLV nel 1990.

Nonostante la maturità raggiunta, tuttavia, a Durham in molti ricominciano l’ormai classico mormorio contro Mike. I Blue Devils, infatti, dopo la vittoria della Kansas di Larry Brown nel 1988, sono rimasti tra le ultime università storiche a non aver ancora sollevato il trofeo di campioni nazionali. Un vuoto assolutamente da colmare. La Duke che si approccia alla stagione 1990/91 sembra la classica squadra in grado solamente di perdere per propri demeriti. Al centro del progetto ci sono Christian Laettner, che chiuderà l’annata con quasi 20 punti di media, e Grant Hill, capitani di un roster che presenta cinque futuri giocatori NBA.

Anche Krzyzewski – conscio dell’arsenale a disposizione – è convinto che il ’91 sia l’anno della svolta definitiva, come dimostra il primo team meeting della stagione.

“Coach K va alla lavagna e scrive ‘Campioni Nazionali 1991’. Io lo leggo e penso ‘Ma lo sa che UNLV esiste ancora?’.”

– Grant Hill

La stagione regolare, tuttavia, a causa di alcune problematiche interne e di una schedule impossibile, è più travagliata del previsto, ma viene comunque conclusa con il brillante record di 32-7. Al torneo, quindi, Duke si presenta solamente con la testa di serie numero sei. Da quel momento tuttavia, i ragazzi di Mike non sbagliano più una partita, portando a casa il primo, atteso, riconoscimento dopo aver battuto proprio UNLV e Kansas nelle Final Four. Il riscatto sociale del figlio dell’ascensorista e della donna delle pulizie così orgoglioso delle proprie umili origini può dirsi finalmente completo.

Il successo del 1991 verrà inaspettatamente bissato la stagione successiva, con uno storico Repeat che in NCAA mancava dalla UCLA targata Wooden del 1973. Quella del 1992, a posteriori, è forse la vittoria più significativa della carriera di Mike. La semifinale del sabato, infatti, vede i Blue Devils sfidare gli Hoosiers di coach Knight, ormai definitivamente sorpassato nella percezione del pubblico dal proprio allievo.

I due allenatori, nonostante le melense dichiarazioni della vigilia, hanno già tempo raffreddato il proprio rapporto, con Micheal sempre più desideroso di discostarsi dalla pesante ombra del Generale e stufo dei continui paragoni da parte della stampa, a cui risponde piccato.

“Gli devo molto e ho avuto il privilegio di imparare tanto da lui. Ma ora ho capito come funzionare da solo. Non chiamo mia mamma per chiedergli cosa mangiare a cena.”

Le frasi di Krzyzewski – insieme ad alcune indiscrezioni mai smentite dallo stesso coach di Chicago – segnano la fine del rapporto tra i due, con un iconico passaggio di consegne proprio nel weekend del secondo titolo di Mike, ormai sempre più introdotto nell’Olimpo degli allenatori.

FOTO: CNN

A cavallo del millennio: crisi, NBA, vittorie:  “What are you trying to prove?! What does it prove?” (Raging Bull, 1980)

Nonostante i due riconoscimenti iridati ottenuti all’inizio del decennio, gli Anni Novanta si possono definire come tutto fuorché positivi per Mike, colpito da una serie di difficoltà umane e sportive che ne minano la sempre ferrea sicurezza di sé.

Tra il 1992 ed il 1993 erano infatti venuti a mancare Jimmy Valvano – coach della mitologica NC State del titolo – e mamma Emily, l’anno seguente, a causa di un problema alle anche e alla schiena, il coach si era invece ritrovato per la prima volta impossibilitato a svolgere il proprio lavoro. Una costrizione che lo porta a continui pensieri negativi.

“Pensava sempre di morire, o di avere il cancro, come Jimmy. Si sedeva a fatica e guardava la squadra perdere, pensando che sarebbe dovuto essere lì, che era tutta colpa sua. Era così giù di corda che non eravamo sicuri fosse in grado di avere nuovamente una scintilla.”

– Mickie Krzyzewski

La sensazione di voler abbandonare o quantomeno cambiare strada viene percepita anche dai front office NBA, che iniziano a far piovere offerte sulla scrivania di Mike. Ad andare più vicino di tutti ad una risposta affermativa sono i Portland Trail Blazers, nel 1994. L’aggravarsi dei problemi di salute, e la conseguente necessità di completare il percorso terapico a Durham causano tuttavia un repentino cambio di prospettive a tutta la famiglia Krzyzewski.

Nel 1998, dopo anni di alti e bassi, le difficoltà del periodo sembrano finalmente iniziare a dipanarsi. Mike, come sempre grande reclutatore, riesce infatti a portare in canotta Blue Devils Shane Battier da Country Day High School, tra i prospetti più quotati della sua Classe. Nel ’99, poi, Duke riesce a tornare alle Final Four, a cui partecipa un tifoso in più: Joey Savarino, primogenito della figlia maggiore Debbie e luce degli occhi di Poppy K, tanto da partecipare a quasi tutti gli allenamenti della squadra per le prime due stagioni.

Nonostante le buone notizie di fine millennio, tuttavia, l’anno da cerchiare in rosso è senza ombra di dubbio il 2001. La squadra, a cui si sono aggiunti futuri importanti giocatori NBA come Mike Dunleavy Jr., Carlos Boozer e Jay Williams, torna infatti tra le favorite assolute per la vittoria finale, raggiunta in seguito ad una straordinaria rimonta contro gli Arizona Wildcats di Gilbert Arenas, Richard Jefferson e coach Lute Olson.

A determinare in quella vittoria, oltre ad un Williams capace di segnare sei punti in pochi secondi per chiudere il parziale con cui i Blue Devils sono rientrati, è il primo di quella lunga lista di buone notizie che avevano risollevato coach K: Shane Battier, autore di una prestazione assoluta da 18 punti, 11 rimbalzi, 6 assist e 2 stoppate. Un manifesto del suo basket e della sua stagione, riconosciuto anche dagli avversari.

“Parliamo del difensore dell’Anno, Giocatore dell’Anno, Studente dell’Anno, è All-qualsiasi cosa. Alcuni mettono Shane Battier appena sotto Gesù Cristo.”

– Richard Jefferson

Da lì in poi, nonostante l’assoluto valore dei giocatori reclutati e spediti in NBA, il dominio di coach K si allenta leggermente, anche a causa della sempre maggior frequenza dello One and Done, che obbliga tutti i giocatori a passare dal college, ma non permette di costruire un progetto pluriennale. Le soddisfazioni, nonostante questa difficoltà, non mancano. Nel 2008, dopo aver vissuto da assistente la tragedia ateniese, viene nominato head coach della Nazionale Americana, che porterà ad un dominio incontrastato con tanto di tre allori olimpici, uno in più di Bobby Knight, tanto per mostrare ancora una volta che non c’è più bisogno di chiamare la mamma.

FOTO: usab.com

Nel 2010 e nel 2015, poi, dopo diversi anni di assenza, raggiunge ancora una volta Final Four e titolo, alla guida di squadre imbottite fino allo stremo di futuri giocatori NBA: Seth Curry, Mason e Miles Plumlee, Kyle Singler nella prima, Jahlil Okafor, Quinn Cook, Tyus Jones, Grayson Allen, Justise Winslow e Semi Ojeleye (poi trasferito) nella seconda. Due lampanti dimostrazioni della bontà del recruiter-Mike.

Da lì in poi – nonostante passino da Durham giocatori del calibro di Jayson Tatum, Zion Williamson e RJ Barrett, le Final Four rimarranno sempre un miraggio, finchè, al termine della stagione 2020/21, l’ex-allenatore degli Ukranian Village Warriors annuncia il proprio ritiro al termine dell’annata successiva.

Ironicamente, la Last Dance di Mike sarà bagnata da un ultimo grande prospetto – Paolo Banchero – ed un ultima, insperata, partecipazione al weekend finale, concluso con l’eliminazione per mano di North Carolina, acerrima rivale dello stato che quarantadue anni prima aveva soffiato a Mike l’unico grande liceale che non era riuscito a convincere con i suoi modi garbati e la promessa di disciplina: Micheal Jeffrey Jordan.

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