La vita dell’allenatore dei San Antonio Spurs è un intrigante mix tra un film di spionaggio degli Anni Ottanta e un western texano di Sergio Leone. Per raccontare la storia del coach più vincente di sempre, ci siamo affidati alle parole di uno dei migliori interpreti di entrambi i generi.


East Chicago è un complesso melting pot di culture a partire dalla propria ubicazione. Dipendente economicamente e culturalmente dal quasi omonimo centro dell’Illinois, si trova tuttavia nello stato dell’Indiana. Non un dettaglio, in una nazione federale come gli USA.


Qui, grazie all’industria dell’acciaio e alla maggiore apertura mentale data dalla vicinanza al grande centro, trovano rifugio tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta migliaia di afroamericani, stranieri, immigrati irregolari slavi o ispanici ed italoamericani. Tra i nuovi impiegati, c’è una coppia jugoslava di origine sia serba e croata, i Popovič.

Il figlio della coppia, Gregg Popovich, è un prodotto indissolubile del proprio luogo di origine e del proprio percorso militare: raccoglie in sé tanto la durezza del lavoro in acciaieria o del servizio nell’esercito quanto la propensione a conoscere il diverso che solo un luogo cosmopolita o la possibilità di aver viaggiato possono creare.

È quindi un uomo a due facce: secco e duro nel lavoro, amante della poesia e dei vini nel tempo libero. Tagliente e sarcastico nel quotidiano, paterno e rassicurante quando necessario.

Una figura mitologica della pallacanestro che sembra a prima vista molto difficile da raccontare, che forse necessita dello sguardo di un altro “regista” dal carattere dualistico: Clint Eastwood, l’uomo con la pistola per eccellenza, in grado tuttavia – soprattutto nelle ultime pellicole – di dare uno sguardo nostalgico e profondo ad un mondo in cui non si riconosce più, ma che continua a tributargli onori da lui accettati con qualche remora.

High School ed Academy: “Tomorrow is promised to no one.” (Absolute Power, 1997)

La East Chicago che si presenta davanti al figlio di Katherine nel 1949 doveva assomigliare molto, per composizione sociale, a quella odierna: un centro dove nessuna etnia domina per oltre il 50%, e dove tutti vivono senza alcun tipo di ghettizzazione o segregazione.

“Io sono cresciuto in un’area di integrazione. Vivevamo in un progetto chiamato Sunnyside. Tutti quelli che ci abitavano avevano un lavoro in acciaieria. C’erano famiglie slave, cecoslovacche, portoricane. Si stava bene e non c’erano scontri, ma questo perché tutti avevano un lavoro. Tutto si riduce sempre a quello: se non hai un lavoro non hai una speranza e iniziano i guai. Non è l’America  che funziona così, è il mondo che funziona così. Ad East Chicago sono diventato consapevole di molte cose.”

Tra le grandi scoperte fatte dal futuro Pop in quella perla di modernità del Northwestern Indiana c’è sicuramente l’amore per la pallacanestro, una religione nello stato. Tra gli svariati interessi che il curioso ed intelligente Gregg “Charles” coltiverà per tutta la vita, quello per la palla a spicchi sarà certamente il più duraturo, tanto da non abbandonarlo ancora oggi.

A suscitare il primo interesse per un ragazzo così ancorato alle proprie origini, tuttavia, non può che essere una vittoria storica per la città: il trionfo dell’high school di East Chicago Washington al campionato statale del 1960, seguito dal giovane Popovich attraverso le radio locali. Un primo assaggio di quello che sarebbe stato il suo futuro.

Terminate le cosiddette grade schools, Pop è costretto dal divorzio dei genitori a trasferirsi nella vicina Merrilville, dove entra – per il rotto della cuffia – nella squadra liceale allenata da coach Bill Meatcalf, una vera istituzione nella zona.

Meatcalf, allenatore di vedute ristrette, non apprezza particolarmente un ragazzo con la scarsità di centimetri e di chili di Pop. Gregg, quindi, rimarrà molto spesso confinato in panchina, fino ad essere addirittura tagliato nella stagione 1963/64, la peggiore della sua giovanissima carriera.

Nonostante le delusioni del primo biennio liceale, tuttavia, il figlio di Katherine non si dà per vinto, mostrando da subito due delle caratteristiche che lo contraddistingueranno per tutta la vita: la varietà di interessi e la perseveranza.

Conscio di non poter contare unicamente sulla pallacanestro, infatti, Gregg inizia ad occuparsi di politica e letteratura, entrando nel club di dibattito e nel consiglio studentesco e sviluppando quella consapevolezza sociale che ancora oggi stupisce tutti nell’ambiente NBA. Al contempo, resosi conto di non poter fare a meno di quel gioco che tanto lo aveva stregato nel 1960, si allena duramente per rientrare nelle grazie di coach Meatcalf.

Il successo in questo secondo ambito sarà solamente parziale, e Popovich non riuscirà mai ad andare oltre l’anonima funzione di role player difensivo. Una delusione che verrà rielaborata con la solita caustica ironia, tanto che nel 2005 – quando finalmente Merrilville High School si deciderà a ritirare la sua maglia – il commento sarà come al solito tagliente e sardonico.

“Non capisco perché la facciano ora. La mia media punti non è cambiata in questi quarant’anni.”

Terminati gli studi, Gregg desidera continuare a coltivare il proprio amore per la cultura e per la pallacanestro a livello collegiale e spinge perciò per andare a Wabash College, scalcinata unversità della zona specializzata nell’insegnamento delle arti liberali.

Le incertezze derivate da un percorso di studi di questo tipo frenano mamma Katherine, e Gregg opta per una mediazione che non lasci scontento nessuno: proseguirà il proprio percorso di studi, ma alla Air Force Academy, in grado di consentirgli un futuro solido.

Gli anni all’Accademia sono ammantati da una segretezza quasi spionesca, tanto da aver fatto nascere negli anni il mito che Gregg fosse in realtà stato addestrato nella CIA. Per quanto si tratti di una storia decisamente affasciante – e mai negata da nessun diretto interessato – i dati reali sembrano propendere verso altri lidi.

Secondo quanto raccolti dai file consultabili dal pubblico, infatti, il giovane Pop sarebbe stato sì una spia, ma non nel senso jamesbondiano del termine.

Diplomatosi in accademia in quelli che in maniera decisamente eloquente venivano definiti Soviet Studies, il giovane ufficiale Popovich avrebbe infatti lavorato in un centro di raccolta di informazioni militari, dove, grazie allo studio della lingua russa, sarebbe stato impiegato al riconoscimento dei mezzi nemici e al controllo di eventuali lanci missilistici.

Un lavoro decisamente più di scrivania di quanto facciano passare le fonti comuni, forse confuse da un’avventura vissuta da Gregg al termine del proprio percorso di formazione.

Nell’estate del 1972, infatti, la squadra di pallacanestro dell’Accademia venne inviata dalle autorità in Unione Sovietica per giocare alcune partite a carattere distensivo con il corrispettivo russo. Pop, che pure non giocava una partita con la rappresentativa da due anni, venne aggregato alla spedizione, forse proprio con il doppio ruolo di giocatore-spia. Un compito tuttavia non portato a termine dal nativo di East Chicago, visto il rigido protocollo a cui vennero sottoposti gli americani.

“Ovunque andassi c’era qualcuno che mi seguiva. Non importa dove fossi: la mia stanza, il ristorante, per strada.”

Terminata la “missione”, Gregg ha ancora tempo, prima di terminare la propria carriera militare, di partecipare ai trials per la sfortunata spedizione olimpica di Monaco. In questo contesto, incontrerà una delle figure-cardine del proprio percorso cestistico: Larry Brown, il primo allenatore che lo chiamerà in NBA.

“Dean Smith, il mio mentore, ha lavorato per anni con Bob Spear all’Air Force Academy. Quando c’erano questi trials, quindi, Dean mandava sempre qualcuno ed io ero uno dei coach addetti alla selezione, visto che avevo vinto le Olimpiadi di Tokyo 1964. […] Gregg era un grande giocatore, e se fosse andato in un college di rilievo sarebbe probabilmente entrato nella Lega, ma io l’ho tagliato quasi subito. Qualche mese dopo ha riprovato ad essere allenato da me ai Denver Nuggets, ma anche lì ho deciso subito di escluderlo. Nonostante questo, però, siamo rimasti molto uniti.”

(Larry Brown)

Pomona-Pitzer, Kansas e la NBA: “Improvise, Adapt, Overcome” (Heartbreak Ridge, 1986)

Terminati i trials del ’72, Pop rimane all’Accademia come assistente allenatore per ben sei stagioni. Conclusa anche questa esperienza, Gregg decide di accettare l’offerta dell’athletic department dei piccolissimi college di Pomona e Pitzer – due università specializzate negli insegnamenti umanistici così poco sovvenzionate da essere costrette a dividere le squadre sportive – come capo allenatore.

La situazione dei Sagehens è – senza mezzi termini – disperata. Pop e il proprio metodo mutuato dalla Air Force si devono scontrare con futuri avvocati o spin doctor che saltano l’allenamento per partecipare al consiglio d’amministrazione della scuola o al laboratorio di chimica.

La squadra è talmente malridotta da riuscire nell’impresa di perdere contro Caltech, ateneo d’eccellenza nel campo scientifico reduce da otto stagioni consecutive senza nemmeno una vittoria.

Nonostante le brutte figure rimediate nelle prime stagioni, l’esperienza fornisce a Gregg alcune nozioni fondamentali utilissime per il proprio prosieguo di carriera; innanzitutto, avere a che fare con quella che, a primo acchito, appare come un’Armata Brancaleone prestata al basket lo induce a cambiare i propri rigidi metodi da addestratore militare, facendogli conoscere il valore della pazienza e dell’empatia nell’insegnamento cestistico.

In secondo luogo, poi, avere probabilmente la peggiore squadra d’America lo induce ad inventarsi ogni giorno qualcosa di nuovo, stimolando in maniera incredibile la propria creatività. Come ricorda Peter Osgood, uno dei primi giocatori allenti da Popovich in California.

“Sembrava un mago, tirava sempre fuori un coniglio dal cilindro, facendoci sembrare meglio di quello che fossimo.”

Gli allenamenti e le tattiche di Pop, in effetti, hanno un che di illusorio: nel 1980, per esempio, resosi conto che la squadra migliorava leggermente quando costretta ad esercitarsi quattro-contro-quattro a causa degli impegni scolastici di alcuni dei giocatori, Gregg decide di giocare un’intera partita con un membro del quintetto fisso a metà campo per aumentare lo spacing.

Sempre nello stesso anno, poi, alcuni dei giocatori di Pomona-Pitzer furono costretti ad esercitarsi ai liberi solo coi propri boxer indosso, in modo da rendere più fluida la meccanica di tiro.

Nonostante l’approccio paziente e socratico, tuttavia, la frustrazione è molta. Nel 1986, quindi, Popovich decide di chiedere un anno sabbatico all’Università per seguire finalmente un college di Division I.

Dopo aver passato alcuni mesi al seguito della UNC di coach Dean Smith, Popovich inizia a partecipare agli allenamenti del suo amico di vecchia data Larry Brown, in quel momento impiegato presso l’Università di Kansas.

L’idea è quella di rimanere al seguito dei Jayhawks solo per qualche mese per poi passare ad un nuovo college, ma, una volta entrato in quel meraviglioso laboratorio cestistico, Pop decide di rimanere fino al termine della stagione. Qui conoscerà un altro dei suoi compagni di lavoro più fedeli: RC Buford, il futuro architetto dei San Antonio Spurs.

San Antonio, TX: “I didn’t know where I wanted to be until I was drafted in the Army. I got out and I knew that I had to do something.” (Intervista a Parade, 10 settembre 2021)

Terminata l’esperienza in Kansas, Gregg rientra per un anno a Pomona-Pitzer. La conoscenza del basket che conta, tuttavia, ha totalmente cambiato la sua percezione, e allenare una squadra di amatori tra un buon vino della Napa Valley ed un romanzo di Dostoevskij – altra sua grande passione – sembra stargli sempre più stretto.

Quando nel 1988, quindi, Larry Brown gli offre un posto da assistente nei San Antonio Spurs insieme a tutto il gruppo dei Jayhawks, il figlio di Katherine accetta con entusiasmo, mettendo piede per la prima volta in quella che diventerà da lì a pochi anni la “sua” città.

Nella Military City, Pop diventa da subito il tramite tra Brown e i giocatori, creando – come in ogni luogo in cui ha messo piede – rapporti umani in grado di durare per diversi anni. Su tutti, risalta da subito la relazione con David Robinson; l’Ammiraglio, un uomo delle Forze Armate come lui, avrebbe posto la prima base della futura dinastia.

“Quando sono arrivato a San Antonio era un assistente. Le relazioni con gli assistenti sono sempre particolari, loro possono essere tuoi amici, mentre il capo allenatore no. Anche quando è diventato capo allenatore, però, il livello di rispetto tra di noi non è cambiato. D’altronde, avevamo in comune l’esperienza dell’accademia. È un luogo fenomenale, una fabbrica della leadership. Penso che avere questo terreno comune abbia aiutato fin da subito la nostra relazione.”

Gli anni di Brown, tuttavia, sono complessi dal punto di visto sportivo. La squadra, potenzialmente una delle migliori della Lega, ottiene risultati alterni e non convince mai a fondo una proprietà che punta a mettere l’Alamo sulla mappa cestistica del paese.

A metà della stagione 1991/92, stufo delle continue intromissioni del Front Office, Larry Brown convoca una riunione con il proprietario Red McCombs, chiedendo che venga messo nero su bianco il proprio licenziamento:

“Mi ha chiesto di scrivere in maniera chiara che non si stava dimettendo, ma lo stavano licenziando. È stata una situazione parecchio strana.”

Pop accoglie quella diatriba con la solita calma imperturbabile. Alla stampa dichiarerà che la schiettezza utilizzata da Brown nel lasciare San Antonio ha permesso alla squadra di comprendere le proprie mancanze e allenarsi al meglio. Terminato questo incontro distensivo con i giornalisti, Pop si mette a disposizione dell’allenatore ad interim Bob Bass, che chiuderà la stagione con 26 vittorie su 44 partite.

Nell’annata seguente, tuttavia, il nuovo allenatore Jerry Tarkanian decide di non confermare lo staff dei predecessori, lasciando i browniani di Kansas senza una panchina e liberi di prendere la propria strada.

FOTO: Bleacher Report

Gregg, ormai conosciuto nel mondo NBA, diventa quindi per un biennio assistente allenatore dei Golden State Warriors di coach Don Nelson: un insegnante del Gioco come Brown da cui Popovich imparerà molto, soprattutto nell’inusuale modo di rapportarsi alla stampa.

L’esperienza nella Baia, tuttavia, appare fin da subito come un momento di passaggio prima di un ritorno che appare scontato. La sensazione comune diventa realtà nell’estate del 1994, in cui la nuova proprietà dei San Antonio Spurs offre a Popovich un contratto come general manager della Franchigia. Da quel momento, Gregg non lascerà più l’Alamo, dando inizio alla più longeva dinastia della storia della pallacanestro.  

1996: “ ‘Bout time this town had a new sheriff.” (High Plains Drifter, 1971)

Le prime due stagioni da General Manager vengono vissute da Popovich senza immischiarsi particolarmente nelle dinamiche di campo della franchigia: la squadra ha una guida tecnica solida in Bob Hill e sembra non avere particolari difficoltà, tanto da riuscire a chiudere rispettivamente con 62 e 59 vittorie.

A partire dalla preseason del 1996, tuttavia, il nativo di East Chicago sente il bisogno di inserirsi maggiormente nelle decisioni quotidiane del gruppo, forse anche a causa di un rapporto sempre più incrinato con Hill, di cui non condivide le idee dogmatiche e l’approccio rigido.

Il rapporto di amore-odio con il coach di Columbus si spezza definitivamente nel dicembre di quell’anno, con una mossa che farà discutere tutta San Antonio per i mesi a venire.

Durante una trasferta a Phoenix, infatti, Popovich – la cui presenza con la squadra non era prevista – decide su due piedi di licenziare Hill, che si aspettava invece un’offerta di rinnovo, auto-nominandosi head coach per la stagione in corso. Una rivoluzione tipica della NBA Anni Novanta – basti pensare alle vicissitudini tra McHale e i T-Wolves – ma che si abbatte come un uragano sopra l’Alamo, lasciando sbalorditi i giocatori:

“Eravamo tutti stupiti, pensavamo stesse scherzando. Poi si è seduto e ha dato ordine all’autista di partire. Allora ci siamo detti: ‘Sarà serio.’ È cominciata così.”

(Dominique Wilkins)

Perfino una delle voci più favorevoli a Pop, quella di Robinson, lascia intendere una delusione da parte del gruppo.

“Siamo tutti scioccati. Sono d’accordo con questa decisione? No, ma non spetta a me. Dobbiamo compattarci e rimanere uniti.”

La squadra, sconfitta dai Suns in quella serata così particolare, vive una delle peggiori stagioni del proprio decennio, anche a causa di una serie infinita di infortuni occorsi ai propri giocatori-chiave.

Per tutti i commentatori, Popovich ha sfruttato la serie negativa data dai problemi fisici per dare una sterzata meditata già da tempo, sostituendo il detestato Hill con un coach a lui affine come Don Nelson, candidato numero uno alla panchina degli Speroni per l’estate 1997.

“Posso capire che il timing non sembri quello giusto, ma era il momento di dare una nuova direzione alla franchigia. Quando decidi qualcosa è meglio metterla subito in atto. Non penso alla prossima stagione, ma ad oggi.”

(Gregg Popovich)

Non tutto il male viene per nuocere tuttavia, e le 62 sconfitte racimolate dagli Spurs in quell’annata così sgangherata sono abbastanza per ottenere la prima scelta al Draft. Un primo mattoncino per costruire quelle che, secondo un’intervista recente dello stesso Popovich, sono le due principali ragioni del successo del coach dell’Indiana.

“Le chiavi del mio successo? Aver scelto Tim Duncan ed essere rimasto vivo.”

1999: “You want to play the game, you’d better know the rules, love.” (The Dead Pool, 1988)

La stagione 1998/99 si apre con enormi incertezze tanto tecniche quanto economico/burocratiche. Qualche mese prima, infatti, Michael Jordan aveva annunciato al mondo di volersi ritirare per la seconda volta. Allo stesso tempo, per la prima volta le trattative tra l’associazione giocatori ed il commissioner per il rinnovo del contratto collettivo erano naufragate, dando vita al primo lockout della storia della Lega.

Nel momento in cui parte la stagione, i giocatori si ritrovano quindi a dover svolgere una preparazione accorciata per una competizione in cui non esistono reali favoriti. Una situazione complessa per una franchigia come gli Spurs, passata in quattro anni dalle Finali di Conference del 1994 ad un nuovo anonimato.

La squadra sembra perdersi fin da subito, con otto sconfitte nelle prime quattordici partite che non fanno presagire nulla di buono. Il gruppo, tuttavia, riesce a ricompattarsi, trovando nuovi stimoli.

“C’erano delle sensazioni strane nello spogliatoio le prime settimane. Sapevamo di essere forti e di poter vincere.”

(Steve Kerr)

Nonostante la consapevolezza all’interno dello spogliatoio, tuttavia, la dirigenza non è soddisfatta dell’avvio a rilento– un macigno, se si considera l’accorciamento dell’annata a  sole 50 partite.

Popovich, quindi, vede la propria panchina traballare per diverse settimane, finchè, prima di un’importantissima partita contro gli Houston Rockets il 2 marzo, i giocatori si riuniscono in un incontro players only e decidono di cambiare il proprio approccio per evitare l’ennesimo stravolgimento sul pino.

“Avevamo tutti sentito i rumors per cui, se non fossimo riusciti a cambiare rotta, Doc Rivers sarebbe diventato head coach. Adoravamo Doc, era un nostro assistente, ma adoravamo anche Pop. Sentivamo la pressione di non avere un coach in caso di sconfitta. I ragazzi che erano con noi da tanti anni erano stufi dei continui cambi a metà stagione.”

(Sean Elliot)

Il dialogo tra compagni funziona e gli Spurs – dopo aver battuto Houston per 99-82 – chiudono la propria stagione regolare con 37 vittorie che valgono loro il miglior record della NBA. I primi due turni di Playoffs appaiono come una passeggiata, con San Antonio che sconfigge i giovanissimi Timberwolves di Kevin Garnett e gli ancora immaturi Lakers di Shaquille O’ Neal e Kobe Bryant.

Superati questi due primi scogli, tuttavia, davanti a Pop e ai suoi si presentano i fortissimi Portland Trail (o Jail?) Blazers, forse una delle più grandi incompiute della NBA.

Gara 1 è vinta faticosamente da San Antonio nelle battute finali, mentre in Gara 2, dopo una partita intensissima e dove gli Spurs si sono trovati spesso a rincorrere, sarà unicamente il tiro quasi fuori dal campo di Sean Elliot a regalare il successo ai neroargento: è il “Memioral Day Miracle”, uno dei tiri più iconici della storia della NBA.

“Siamo sempre stati la squadra in grado di fare casino quando arrivano i Playoffs.”

(Sean Elliot)

Da lì in poi la Playoff Run degli Speroni si tinge di trionfo. La vittoria contro la sorpresa Knicks in cinque gare regala all’Alamo e a Pop un Titolo inaspettato e fondamentale, gettando le basi per una dinastia ultradecennale. Un successo commentato con una semplicità disarmante dal proprio artefice principale

“Il nostro unico obiettivo era fare il meglio possibile. Poi quel che è successo è successo.”

2003/5/7: “Ever notice how you come across somebody once in a while you shouldn’t have messed with? That’s me.” (Gran Torino, 2008)

La squadra che domina il primo decennio del nuovo Millennio è ben diversa dalla ruvida e spigolosa outsider che aveva vinto grazie alle Twin Towers nel 1999. Lo scouting, guidato dall’altro figlioccio di Brown RC Buford, vuole infatti dare agli Spurs un organico in grado di giocare una pallacanestro completa e di ampio respiro, aggiungendo giocatori con diversi punti nelle mani.

Il primo di questi viene scoperto casualmente durante una cena organizzata dalla NBA. Gregg, da sempre ospite scrupolosissimo, deve infatti intrattenere un gruppo di scout e giornalisti argentini in visita agli Spurs. Il coach, differentemente da altri colleghi, decide di non demandare l’organizzazione ad un assistente allenatore degradato al ruolo di babysitter, scegliendo personalmente pietanze e vini pregiati da servire.

Durante questo momento conviviale, alcuni dei giornalisti segnalano a Pop un giovane talento di Bahia Blanca in quel momento pronto al salto nell’allora ricchissimo campionato italiano: Manu Ginobili. Un consiglio che si rivelerà decisamente azzeccato.

El Narigón, tuttavia, si unirà agli Spurs solamente nel 2002. Nel frattempo, a tenere banco dalle parti dell’Alamo è un giovane francese di origini americane dal talento smisurato: Tony Parker. Un giocatore adorato da Popovich fin dal primo momento e al quale – tuttavia – non sono state lesinate critiche:

“Al primo allenamento mi ha detto testualmente ‘Get your head out your ass.’ “

La squadra, dopo tre anni di dominio-Lakers, trionfa contro New Jersey nel 2003 grazie ad un Tim Duncan formato MVP. Il Titolo più sudato, tuttavia, arriva solo due anni dopo, con Gregg che sconfigge in sette tiratissime gare l’amico-mentore Larry Brown, in quel momento campione in carica con i suoi Detroit Pistons.

Alla fine del decennio, poi, c’è spazio anche per uno sweep in Finale ai danni di un ancora imberbe LeBron James, che viene incoronato da Duncan a fine serie come futuro della Lega. Un Titolo ogni due anni, una continuità impressionante che permette agli Spurs di essere ormai stabilmente al centro della NBA e venire considerati una delle dinastie più riuscite, anche se il meglio – almeno dal punto di vista strettamente estetico – deve ancora venire.

2014: “When you’re young, you’re very reckless…Then you get conservative. Then you get reckless again.” (Intervista a Parade, 10 settembre 2021)

La legacy degli Spurs sembra svanire all’improvviso con l’avvento di due grandi dinastie come i Lakers di Bryant e Gasol e gli Heat dei Big Three. I commenti negativi su Pop e i suoi si sprecano, e sono in molti a sottolineare come Father Time sia giunto a bussare anche a San Antonio.

I neroargento, tuttavia, continuano nella propria bolla di lavoro e serenità a macinare record su record, imponendosi sempre – o quasi – tra le squadre con più vittorie nella Lega. Anche lo scouting ci mette del suo, andando a pescare giocatori dimenticati o abbandonati da altre franchigie come Boris Diaw o Patty Mills, mediocri role player completamente rivalutati sulle rive dell’Alamo.

A far svoltare definitivamente la situazione ci pensa poi la “solita” bravura al Draft. Nel 2010 approda agli Speroni Tiago Splitter, mentre l’anno dopo, tramite un complesso scambio con Indiana che coinvolge l’idolo dei tifosi George Hill, viene scelto Kawhi Leonard.

The Klaw, inizialmente sottostimato per via delle “scarse” qualità offensive, si rivela l’aggiunta perfetta per la squadra: di poche parole, cinico, vincente, porta agli Spurs un’energia nuova, rivitalizzando la squadra.

La Finale del 2013, tuttavia, non va come previsto: 14 anni dopo il “miracolo” di Sean Elliot San Antonio è punita da un altro dei tiri più iconici della storia della Lega, quello di Ray Allen per chiudere la rimonta in Gara 6 – che in caso di vittoria avrebbe dato il Titolo ai texani.

FOTO: NBA.com

Pop, come al solito, cerca di addolcire gli animi mostrando la delusione da un’altra prospettiva. In conferenza stampa gioca con i reporter, sottolineando come la vita non debba essere basket-centrica.

“La mia legacy? Il cibo e i miei vini. Questo per me è solo un lavoro.”

La squadra che si presenta l’anno seguente, con l’aggiunta di elementi-cardine come Marco Belinelli, nasce dalla motivazione data da quella sconfitta. Dopo un decennio di pallacanestro ruvida e dentro l’area, anche un tradizionalista come Pop – forse proprio per la coscienza di non avere nulla da dimostrare – decide di cambiare: si muove la palla, sempre, si cerca il tiro migliore, non si disdegna il tiro da fuori. Il risultato lo conoscono tutti, un Titolo stravinto nella rivincita contro Miami.

Da lì inizia l’ultima fase della carriera di Pop, quella reckless, per usare le parole di Eastwood. Si approccia al mondo del coaching oltreoceano, diventando tra i primi ad affidarsi ad un assistente europeo come Ettore Messina, pone al centro del proprio staff una figura come Becky Hammon, snobbata in precedenza unicamente per questioni di genere, si espone sempre più apertamente su spinose questioni politiche e sociali.

È come se, dopo anni di quadrata competitività, l’ormai “anziano” Pop sia tornato indietro, ricominciando ad essere quel ragazzino ossessionato dal basket che a latere si occupava di arte, politica, letteratura. Una fortuna per noi, che godiamo ancora oggi del più grande intellettuale mai prestato alla Palla a Spicchi. Non bisogna confondere questo ampliamento di interessi, però; nonostante l’inevitabile declino degli Spurs, infatti, gli ultimi anni della carriera del nativo di East Chicago sono ricchi di soddisfazioni personali.

Ad essergli particolarmente cari sono soprattutto due riconoscimenti: l’oro olimpico di Tokyo 2020, con cui finalmente chiude quel conto col passato apertosi durante le selezioni per l’Olimpiade del 1972, e il traguardo di coach più vincente della storia della Lega, raggiunto l’11 marzo grazie al successo con gli Utah Jazz. Quest’ultimo è un riconoscimento di superiorità, un attestato di grandezza che per la prima volta ci mostra un Popovich emotivo, anche se pronto subito a rimettere i suoi in ordine minacciando ripercussioni nell’allenamento del giorno successivo. Perché il militare ed il letterato, in fondo, sono più uniti che mai.

So long, Pop.