Dai fasti degli anni 80 a Finals ricche di gioie e dolori: riviviamo la lunga e appassionante storia della ricostruzione dei Boston Celtics.

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CONTINUA DA PARTE 1 (Celtic Pride is back 1/2)

Il titolo NBA era l’obiettivo minimo che i Celtics si erano prefissati con i Big Three. Una volta raggiunto però, la volontà dell’intera organizzazione è ovviamente quella di provare a ripetersi.

Il primo passo quindi è quello di cercare di confermare il roster vincente, magari aggiungendo qualche pedina importante.

Il primo scoglio di Danny Ainge è cercare di rifirmare James Posey, uscito dal suo contratto con l’idea di vestire ancora bianco-verde ma a condizioni economiche migliori.

Il GM dei campioni in carica vorrebbe in realtà fare un tentativo di acquisire Corey Maggette, reduce da un’ottima stagione a Los Angeles, sponda Clippers.

L’ex Duke cede tuttavia alle lusinghe di Golden State, riportando pertanto Posey al centro del mirino di Trader Danny.

Sfortunatamente l’accordo tra le parti non viene raggiunto, col prodotto di Xavier che non accetta la mid-level exception e firma un quadriennale con New Orleans.

Perso il n. 41, diventa di capitale importanza non lasciar partire gli svincolati Tony Allen e Eddie House, che accettano le cifre proposte e rimangono con la squadra.

In agosto viene firmata l’ala Darius Miles, un giocatore tanto talentuoso quanto problematico dentro e fuori dal campo, fin ora capace di mostrare solo a intermittenza le qualità regalategli da madre natura.

Il contratto non garantito è una forma di tutela per la franchigia, dato il grave infortunio al ginocchio patito da Miles la stagione precedente.

Nonostante un training camp positivamente impressionante, il giocatore viene tagliato al termine della pre season, complice una sgradevole squalifica per uso di sostanze illegali e l’eccessivo numero di elementi a roster.

Gestita la lunga estate di mercato, è ora di tuffarsi nella Regular Season 2008/09, non prima di aver rivissuto il titolo appena conquistato,

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con la cerimonia di consegna degli anelli del 28/10/2008, durante il Season Opener contro i Cavs.

Vedere un nuovo stendardo svettare sul soffitto del TD Garden non appaga i bianco-verdi, al contrario: li motiva maggiormente ad aprire la caccia al back to back.

L’inizio è addirittura più scoppiettante di quello del 2007/08.

I Celtics iniziano con un incredibile record di 27-2 nei primi due mesi di campionato, con una striscia di 19 vittorie consecutive che costituiscono il nuovo record di franchigia.

La difesa è ancora l’aspetto maggiormente impressionante, col solito coach Thibodeau a impartirne i principi e con l’insostituibile Garnett a dettarne ritmi e aggressività.

Il risultato lo spiegano, seppure parzialmente, i numeri: Boston è terza nella Lega per punti concessi agli avversari (93.4), seconda come Difensive Rating (102.3) dietro ai soli Orlando Magic, prima per percentuale concessa dal campo (43.1%).

Ovviamente le cifre non sono sufficienti a spiegare un tale impatto nella propria metà campo, c’è anche un fattore psicologico che sfianca irrimediabilmente gli attacchi altrui.

L’attacco ovviamente non è un aspetto da tralasciare.

I Big Three sono ancora una volta l’asse portante, con 54.5 punti sui complessivi 100.9 della squadra.

L’intero sistema di coach Rivers funziona alla grande, risultando secondo e primo rispettivamente nelle percentuali da 2 e 3 punti della Lega intera.

In qualunque ambiente NBA già si parla di squadra inarrestabile e ci si chiede chi possa fermarla nella rincorsa a un nuovo Larry O’Brien Trophy.

La risposta è la più inaspettata: i Boston Celtics stessi.

Dopo il roboante inizio, arrivano sette sconfitte in nove partite, che per lo meno ridimensionano la squadra agli occhi del resto della NBA.

Anche se i giocatori rispondono alla mini crisi con una nuova striscia di 12 vittorie, i veri problemi per il team campione in carica devono ancora arrivare.

Alla prima partita dopo la pausa per l’All-Star Game, Kevin Garnett si infortuna al ginocchio destro nel tentativo di schiacciare.

Resta a bordo campo per circa un mese, nel tentativo di recuperare e ritrovare una forma accettabile per la post season.

Durante la sua assenza, il record dei Celtics è di 7-13, dimostrando l’importanza di KG negli equilibri del roster. The Big Ticket torna ad indossare la canotta n. 5 il 20 marzo, nella vittoria a San Antonio.

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Gioca solo quattro partite e mai per più di 20 minuti sul parquet.

Poi deve alzare bandiera bianca. Il responso medico è infausto e sconvolgente per l’intera franchigia.

L’ex Minnesota Timberwolves non riuscirà a recuperare per i Playoffs, la sua stagione si chiude in anticipo. Doc Rivers deve correre ai ripari, modificando totalmente l’assetto della squadra e inserendo Glen Davis in quintetto.

A febbraio era già stato inserito nel roster Stephon Marbury con lo scopo di ricalcare quanto fatto da Cassel l’anno precedente: aggiungere qualità ma soprattutto esperienza.

Nonostante la tegola KG, i Celtics chiudono la Regular Season ancora oltre le 60 vittorie (62-20) e al secondo posto a Est, dietro solo ai Cavs di LeBron James.

Il primo turno della post season prevede lo scontro con la settima seed sul tabellone, in questo caso i Chicago Bulls.

La squadra della Windy City è in costante crescita ed è guidata dal Rookie of The Year, Derrick Rose.

Playmaker dall’esplosività sovrannaturale, costituisce il pericolo pubblico numero 1.

La serie si dimostra più dura del previsto, come documenta Gara 1.

Rose è incontenibile, segnando 36 punti e 11 rimbalzi. L’attacco di Boston stenta, con Pierce e Allen che combinano per un pessimo 9/33 dal campo.

Un Rondo da 29 pts, 9 rb e 7 ast tiene in partita i suoi, ma all’overtime i Bulls sbancano il parquet incrociato.

La difesa dei Celtics riesce a mettere la museruola a Rose in Gara 2 e 3, dove i sopravvissuti dei Big Three ritrovano la mira e recuperano il vantaggio del fattore campo e della serie.

Occorrono altri due supplementari per decidere Gara 4, dove il numero 1 bianco-rosso ritrova efficacia e Chicago pareggia la serie, nonostante Allen, Pierce e Rondo segnino complessivamente 82 punti.

Servirà un nuovo overtime in Gara 5 e ben 3 nella sesta partita per andare alla decisiva Game 7.

Il win or go home premia la squadra del Massachusetts, che si impone 109-99 e passa il turno.

Pericolo scampato per i ragazzi di Doc Rivers, ma sono sorti vari dubbi sul proseguo del percorso.

Al secondo turno l’impegnativa sfida contro la terza forza a Est, gli Orlando Magic.

La squadra della Florida vanta caratteristiche ben diverse dai campioni in carica.

Può contare sulla presenza fisica e il tonnellaggio sotto canestro di Dwight Howard, sulla vena realizzativa dalla lunga di Rashard Lewis, sul talento offensivo e glaciale di Hedo Turkoglu e la grinta di Pietrus.

Anche gli uomini di coach Stan Van Gundy avevano subito in stagione una pesante perdita con l’infortunio alla spalla del play titolare Jameer Nelson.

Invece di soccombere per la perdita del giocatore, i Magic avevano trovato un nuovo equilibrio, grazie alla leadership inaspettata di Skip to my Lou, Rafer Alston.

In Gara 1 i bianco-blu sorprendono i Celtics ed espugnano il Garden, ma nella seconda partita i padroni di casa pareggiano la serie grazie ad Allen e a un sorprendente Eddie House, con 31 punti dalla panchina e una prestazione balistica immacolata (4/4 da 3pts), con Rondo perfetto direttore d’orchestra (18 assist).

Si vola alla Amway Arena e Orlando si impone grazie alla vena offensiva della coppia Lewis/Turkoglu.

Gara 3 viaggia sul filo fino alla sirena.

Sotto 90-91 a 49 secondi dalla fine, Howard va in lunetta per il pareggio/sorpasso, ben conscio che non si tratti della specialità della casa.

Nonostante una Regular Season da un mediocre 59.4%, il n. 12 segna entrambi i liberi.

Boston rimette la testa avanti con un canestro di Glenn Davis a 32 secondi dal termine, ma Lewis segna altri due liberi portando il punteggio sul 94-93, lasciando 11.3 secondi sul cronometro.

Dopo il timeout, Pierce gioca in ala sinistra il pick and roll con Davis, che si apre in angolo e riceve lo scarico di The Truth. Big Baby ha giusto il tempo di tirare, segnando il buzzer beater che pareggia la serie.