La storia di uno dei personaggi più chiacchierati di queste NBA Finals, nella sua irripetibile e profonda semplicità. Un coach come tutti gli altri che, da ormai dieci anni, riesce ad essere meglio dei colleghi.

FOTO: NBA.com

È difficile, approcciandosi a qualunque prodotto relativo alle NBA Finals, evitare le sempre potenti trappole post in essere dalla retorica. Lo sport, d’altronde, nonostante l’ineluttabile (e utilissima) nuova prominenza delle statistiche, vive e basa il proprio successo – nonché i propri introiti – su storie umane e di gruppo che suscitino nello spettatore emozioni, siano esse positive o negative. Alle volte, tuttavia, la ricerca della storia vincente si trasforma in una caccia alle streghe, un’ossessione per la narrativa del riscatto che colpisce protagonisti tutto sommato inconsapevoli. È così che normali vicissitudini familiari possono trasformarsi in fallimenti e negligenza, personali ambizioni diventano ossessioni (che no, non battono sempre il talento), e sereni percorsi lavorativi – magari aiutato anche da un piccolo nepotismo di fondo – vengono fatti passare per grandi scalate.

La storia di Erik Spoelstra, che in questi giorni guida i suoi Miami Heat alla sesta serie finale della sua carriera, può probabilmente iscriversi senza remore di sorta a questa categoria, nonostante alcuni elementi facciano dubitare della sua linearità.

Nell’approcciarsi a questo personaggio, chi si scrive ha trovato naturale – deformazione professionale – avvicinarsi nel pensiero ad una delle frasi più celebri mai scritte da Marc Bloch, importante medievista francese e teorico della Storia. In uno dei suoi testi più famosi, Bloch spiegava come alla base della sua disciplina – e conseguentemente delle ragioni che motivavano gli studiosi – non fosse da ricercarvi molto di diverso rispetto ad un puro divertimento, un piacere immenso che guida gli storici amatoriali e non di tutto il mondo nella scoperta di vicende personali.


L’infanzia: papà Jon e l’amore per il basket

Erik Jon Spoelstra nasce ad Evanston, Illinois, l’1 novembre 1970. La sua famiglia, come molte in NBA, è già legata mani e piedi alla lega più bella del mondo: il padre, Jon, ha infatti creato una società di marketing che si occupa da poco delle partite dell’Università di Notre Dame, e – di lì a poco – sarebbe diventato un importante dirigente prima dei Buffalo Braves e poi dei Portland Trail Blazers. Il giovanissimo Erik, quindi, vive da subito immerso nell’ambiente ultra-competitivo, fino al paranoico, della NBA, trovandovisi dal primo momento a proprio agio.

A proposito, un bellissimo aneddoto raccolto da ESPN alla vigilia delle prime finali del coach asio-americano (mamma Elisa ha origini nella terra di basket per eccellenza, le Filippine) sembra essere autoesplicativo. Nel 1980, Spo e famiglia si trovano al picnic di fine anno organizzato dai Blazers. All’evento arriva, con un colpevole ritardo, anche coach Jack Ramsay, che qualche anno prima ha permesso alla franchigia dell’Oregon di vincere il primo titolo della propria storia. Visto il menù, coach Ramsay decide di portare tutti a fare una corsetta preventiva. Per tutti, ovviamente, non si intendono solamente i giocatori, ma anche l’ultimo dei contabili decisamente fuori forma.

“Tutti, intendo proprio TUTTI.”

– Erik Spoelstra

Superato questo primo, decisamente faticoso, approccio con il mondo NBA, Erik coltiva nella maniera più classica la passione per il parquet, scegliendo nel 1984 di frequentare, per ragioni cestistiche, oltre alle ovvie motivazioni didattiche e di fede familiare, di iniziare il proprio percorso liceale a Jesuit High School, rinomata accademia di talenti di Beaverton, in Oregon, città che dovreste aver sentito nominare in quanto sede di una piccola e media impresa di calzature che porta il nome della dea greca della Vittoria.

In quella che sarà qualche anno dopo la scuola di Mike Dunleavy, Spo comincia da subito a macinare minuti come titolare. Il piccolo stato dell’Oregon, tuttavia, non ha abbastanza talento per essere un vero banco di prova. Proprio per questa ragione, nell’estate tra il primo ed il secondo anno di superiori papà Jon sfrutta le connessioni che i Blazers hanno con la succitata azienda di Beaverton e trova ad Erik un posto al Nike All-Star Camp in New Jersey, dove un Sonny Vaccaro ancora privo delle fattezze di Matt Damon e da poco trionfante sulla questione-MJ raduna, come suo solito, i 120 migliori talenti dell’high school in modo da iniziare a coltivare dei rapporti.

“Avevo la possibilità di confrontarmi con i migliori, i più forti del Paese. Chiunque avrebbe colto quell’opportunità.”

– Erik Spoelstra

Gli organizzatori decidono di mettere il piccolissimo Spoelstra in squadra con quello che per loro è il vero talento di quella sessione, Alonzo Mourning; un duo che porterà Miami al titolo, ma con ruoli decisamente diversi rispetto a quell’estate atlantica.

Le istruzioni per il ragazzo sono comunque, fin da subito, chiarissime: ti abbiamo fatto venire qui (segue occhiolino), ma il tuo unico compito è passare la palla a Zo per tutta la partita. L’operazione funziona: Erik rimane nelle grazie di Vaccaro e soci incontrando future stelle NBA come Shawn Kemp; mentre Mourning, impomatato a dovere, si fa notare da uno strano figuro probabilmente munito di asciugamano e sicuramente molto amico di Sonny: John Thompson, suo futuro coach a Georgetown.

Nell’estate immediatamente seguente al Nike camp, invece, si inizia ad intravedere la capacità di programmazione di un futuro coach come Erik. L’allenatore di Jesuit chiede alla squadra di prendersi 30.000 tiri da tre punti lungo tutta l’estate. Uno studente come Spo jr. non può che prendere sul serio la richiesta, iniziando metodicamente a tirare 500 volte al giorno, migliorando al contempo di molto le proprie percentuali e tenendo traccia di canestri ed errori con grafici e tabelle. Arrivati a settembre, Erik è l’unico che ha completato l’esercizio, diventando da quel momento uno specialista dall’arco.

Il resto dell’avventura liceale, forse riassunto dall’aneddoto appena raccontato, è in discesa: Spo, che inizia a portare il numero 30, in onore del suo idolo Terry Porter, continua il proprio percorso da leader a Jesuit, suscitando le attenzioni di diverse università. La scelta, tuttavia, ricadrà sulla permanenza a casa, con la firma nella primavera del 1988 di un accordo formale con University of Portland.

Anche nell’arrivo ai Pilots le connessioni di Jon non fanno danni, sebbene certamente si limitino ad un accenno a quel figlio così talentuoso: a reclutare Erik è infatti coach Larry Steele, ex giocatore dei Blazers e membro della squadra da titolo del ’77. Fin da subito, tuttavia, allenatore e playmaker trovano una connessione che trascende le conoscenze comuni.

“Non è facile determinare quali giocatori collegiali possano diventare allenatori e quali no, ma se mi avessero chiesto ai tempi di scegliere quali tra i miei ragazzi avessero le possibilità e la voglia di fare questo mestiere, avrei certamente detto Erik. Non so se VOLESSE diventare un allenatore, ma amava talmente tanto il gioco che gli è capitato.”

– Larry Steele

Il primo anno, comunque, vede un Erik ancora ben fisso sul parquet: la stagione si conclude con 28 partenze da titolare su 28 partite, 7.5 punti ad allacciata ed un per niente malvagio per l’epoca 36% dall’arco. Numeri di buon livello, che gli valgono il riconoscimento di Freshman dell’Anno della West Coast Conference.

L’anno seguente, sempre disputato da Erik con i gradi di titolare, la squadra continua nel proprio successo a targhe alterne, vincendo 7 partite su 14 all’interno della conference, ma chiudendo la stagione con il record negativo di 11-19. Al torneo della WCC di Los Angeles, tuttavia, il gruppo di Steele sembra trovare nuova verve, vincendo per 65-62 la prima gara contro Santa Clara.

La sfida di semifinale successiva vede i Pilots affrontare Loyola Marimount University. All’inizio del primo tempo, con ancora 13 minuti e 34 secondi da giocare prima della pausa, Erik vive uno dei momenti più tragici della propria vita dentro e fuori dal parquet. Il suo diretto avversario, il playmaker Terrell Lowery, alza un lob invitante sulla testa di Spo per il compagno Hank Gathers, che schiaccia due comodi punti. Gathers, tuttavia, atterra in maniera scomposta, e collassa subito al suolo tentando di rientrare in difesa. Morirà di lì a poco, colpito da un problema aritmico che gli era stato diagnosticato per la prima volta solo qualche mese prima.

“Quando è caduto sembrava che tutto andasse in slow motion. Ero freezato in campo, a guardare. Ricordo ancora oggi il suono della palestra in silenzio. È qualcosa di terribile e che non dimentico.”

– Erik Spoelstra

Il torneo, ovviamente, viene cancellato. Spo giocherà per Steele altri due anni, perdendo tuttavia il posto in quintetto e trovando pochi sbocchi professionali per la propria vita da cestista dopo la fine delle scuole, tanto da essere obbligato ad accettare uno dei contratti più impensabili che gli si presentano davanti.

Professionismo: dal pub alla NBA

Un attempato tedesco ed un giovanissimo filippino-americano in tuta acetata entrano in un pub con un taccuino in mano. Se qualcuno iniziasse una qualunque conversazione in questa maniera, la mente si sposterebbe quasi d’impulso verso una – non molto divertente – barzelletta. Una situazione non molto diversa da questa, invece, deve essere stata la quotidianità per Erik Spoelstra tra il 1993 ed il 1995, anni in cui è rimasto sotto contratto come giocatore/assistente allenatore per il TuS Herten, squadra della seconda serie tedesca.

La pomposità del ruolo, tuttavia, non deve confondere: il compito di Erik in questa fase, per ammissione dello stesso, è riassumibile nel “dover bere una birra col coach ogni tanto discutendo di tattica e portare i palloni quando avevamo allenamento”. L’esperienza, tuttavia, è utile nei suoi annessi per insegnare al figlio di Jon il mestiere che diverrà il centro della propria esperienza professionale.

Erik, infatti, è chiamato a guidare alcune delle squadre giovanili della società, trovandosi a trattare settimanalmente con 12 prepubescenti che urlano in una lingua straniera e che non rispecchiano esattamente i dogmi di unità, coesione e professionalità che l’attuale coach dei Miami Heat ha sempre fatto propri sul lavoro. La situazione estrema, tuttavia, costringe il nativo dell’Illinois ad ingegnarsi, inventando in questa fase alcune delle esercitazioni e dei rituali che lo accompagneranno per tutta la propria vita.

L’apparente idillio, tuttavia, si trova davanti ad un bivio importante nell’estate del 1995. Rientrato negli States durante l’offseason, infatti, Erik riceve una chiamata da parte dei Miami Heat, che hanno bisogno di un video coordinator per l’estate e forse per il training camp. Un’opportunità per la NBA, solo parziale, che non sembra convincere uno Spo che ha lasciato la Vestfalia con una proposta di rinnovo biennale. Dopo una lunghissima discussione familiare, in cui Jon rimane inusualmente nelle retrovie, è la sorella Monica a dare al prodotto di Portland la giusta motivazione per partire.

“Ma che c***o pensi? Ma ti rendi conto di quanto sia difficile entrare in NBA ed avere un lavoro sul campo? Devi veramente essere scemo.”

– Erik Spoelstra

Forse irretito dalle dolci parole fraterne, Spoelstra decide di accettare il compito, rendendo possibile lo scatto di quella famosa foto che, oggi e non solo, si trova sulle home dei social di qualunque appassionato di pallacanestro.

Entrato nella franchigia, tuttavia, Spo capisce molto in fretta come la sorella abbia sovrastimato le sue mansioni nell’opera di convincimento. Erik non vede mai il campo – come, se è per questo, il sole di Miami – e si ritrova per diverse ore al giorno rinchiuso nel Dungeon, la stanza delle segrete della Miami Arena in cui sono stati sistemati videocassette e registratore.

“La chiamavamo Dungeon, era nella pancia della vecchia Miami Arena. Non era nemmeno parte degli uffici, penso abbiano semplicemente usato un vecchio magazzino. Quando hanno voluto fare il reparto video, hanno buttato una televisione e detto – ecco fatto!”

Il lavoro che doveva durare poco più di un’estate porta invece un instancabile Spoelstra ad essere notato da Pat Riley e, soprattutto, da Stan Van Gundy, in quegli anni uomo-ombra del coach. Nel ’99 Erik viene promosso a scout, mentre nel 2001 arriva il suo esordio in panchina, da assistente, un ruolo che lo vedrà anche campione NBA nel 2006, sotto Pat Riley, rientrato dopo la cacciata di Stan. Nel momento in cui Riley prende la decisione di lasciare definitivamente il pino, quindi, la scelta circa il successore non può che ricadere su quello che ormai è il suo uomo di fiducia.

Coaching: dai dubbi ai titoli, e ritorno

“Penso che Erik Spoelstra sia uno dei coach più talentuosi da molto tempo a queta parte. Io sono in conflitto da cinque anni sulla scelta di allenare o meno, ora sono sicuro di non volerlo più fare.”

– Pat Riley

Le parole risuonano nella sala stampa della Miami Arena, scioccando solo in parte i reporter invitati. Riley, dopo cinque stagioni e un altro titolo, lascia definitivamente la panchina degli Heat dopo aver raccolto solamente 15 vittorie nella stagione 2007/08, da poco terminata. A stupire, tuttavia, non è questa notizia annunciata, ma la scelta del successore, quell’assistente trentasettenne, che diventa contestualmente il più giovane allenatore della lega e il primo americano di origini asiatiche a sedere su una panchina delle grandi leghe professionistiche.

Le critiche, dal momento della scelta, sono spietate: i mai teneri anti-rileyiani, infatti, affermano che il coach abbia ascoltato i malumori del popolo solo a metà, lasciando nominalmente il pino assicurandosi al contempo un suo figlioccio facilmente controllabile e cacciabile alle prime difficoltà. Insomma, un novello Van Gundy. Di Erik, poi, si scandaglia tutto: l’assenza di head coaching experience (siamo ancora ai tedeschi e al pub, effettivamente), la mancanza di carisma, il carattere spesso da teorico della pallacanestro rispetto alla pragmaticità del lavoro quotidiano di allenatore (chiedo venia in anticipo per l’inutile dibattito calcistico che solleverà questa frase).

I primi due anni, forse anche a causa di questi mormorii, sono di sostanziale apprendistato. Spo si concentra soprattutto nel cementificare il già ottimo rapporto con Dwyane Wade, che fin dal suo ingresso nella lega si era affidato a quel giovane assistente per migliorare il proprio tiro. “Ci abbiamo lavorato un sacco di ore. Vedevi che conosceva tutto della pallacanestro e che era un lavoraore instancabile. Mi ha dato la possibilità di pensare: ‘Posso farlo anch’io’. “

Le due annate in questione, comunque, si concludono con due anonime qualificazioni come quinta testa di serie ai Playoffs ed altrettante sconfitte al primo turno contro Atlanta e Boston. Wade, che non ha una squadra da titolo da ormai quattro stagioni, sbotta in conferenza stampa, lasciando intendere come lui e gli amici LeBron James e Chris Bosh siano intenzionati a sfruttare l’imminente free agency per riunirsi da qualche parte – la per lui natìa Chicago? – e provare a vincere un titolo.

La dirigenza di Miami vive giorni di tensione. Sempra impossibile far lavorare il cap in modo da tenere Dwyane e prendere almeno uno degli altri due per far contenta la propria stella. Alla fine, tuttavia, la salvezza arriva nella forma di una quasi parodistica intervista televisiva, all’interno della quale LeBron annuncia di portare i propri talenti sotto il sole di South Beach.

Se l’ansia aveva pervaso gli uffici nelle settimane precedenti, ci si aspetta che ora il fardello si carichi tutto sulle spalle di Spo, che a 41 anni si trova di fronte quella che è sostanzialmente l’equivalente della Red Bull di Max Verstappen affidata ad un neopatentato. Una macchina, peraltro, non semplice da governare, considerando la coesistenza di Wade e James, e oltremodo bizzosa, se si credono alle voci di corridoio sulle pretese di LeBron in quel di Cleveland.

Il coach, nonostante le pressioni da favorito, si gode ogni momento della propria esperienza, non cambiando di una virgola il proprio atteggiamento. Rifiuta, ad esempio, la chiamata di Mike Brown, che offre consiglio su come trattare le star e in particolar modo il nativo di Akron; afferma davanti alla stampa che LeBron non solo sarà allenabile, ma uno dei giocatori più allenabili della storia e non si lascia nemmeno troppo influenzare da don Pat, che inizia a farsi vedere sempre più spesso al centro di allenamento con un libro in mano (ovviamente il proprio) e una serie non propriamente innocente di aneddoti sul suo periodo al timone dello Showtime.

Anche in campo, poi, Spoelstra rimane quello di sempre. Fin dai primi allenamenti si lascia andare a commenti poco velati sull’etica del lavoro di LeBron e sulla serietà delle sue ambizioni, lodandolo al contempo diffusamente nei momenti di assoluto dominio. Come dirà in quei mesi alla stampa un general manager NBA.

“Lasciate che vi risparmi una serie di telefonate per capire come sia Erik. Lavora fino alla morte e tratta tutti nel modo in cui devono essere trattati. Il magazziniere per lui vale come Pat Riley, ma è rispettoso dell’opportunità che gli è stata concessa. Non si dimentica da dove viene.”

Nonostante le ottime premesse della vigilia, tuttavia, il nuovo numero 6 non sembra gradire particolarmente. La squadra parte male, trovandosi 9-8 dopo le prime diciassette partite. Proprio nell’ultima di queste, pochi giorni prima del ritorno del Re nella sua Cleveland, James colpisce Spoelstra in uscita dal timeout in maniera probabilmente volontaria. A ricucire, con un lavoro diplomatico da primo Novecento, sono come al solito Dwyane e Pat che rilasciano in conferenza stampa dichiarazioni di assoluta fiducia verso l’allenatore, che non perde quindi mai la propria credibilità, ma al contempo ne criticano alcuni metodi un po’ troppo impersonali, sperando che i rapporti si stringano di lì a poco. Lo faranno, con due titoli in quattro anni che sembrano lasciare più di una traccia dell’avvenuta riconciliazione.

Gli ultimi anni: il ritorno

Se la stagione 2014/15 è un intermezzo sacrosanto e concesso di mediocrità (con la squadra che deve ancora assorbire l’addio di LBJ in direzione Ohio), le critiche sembrano riacutizzarsi all’inizio dell’annata 2015/16, quando a Miami arrivano due rookie al tempo indicati come salvatori del futuro prossimo della franchigia: Josh Richardson e Justise Winslow. Spoelstra è di nuovo al centro del polverone mediatico. Gli si imputano, come a LeBron, due sconfitte in quattro anni e l’incapacità di gestire un gruppo vincente senza superstar acclamate.

Erik, come d’abitudine, non dà peso alle critiche e si mette subito al lavoro. Un manifesto del suo coaching style è dato proprio in una delle prime sessioni di allenamento individuale di Josh Richardson: arrivato al campo per la sessione facoltativa, Spo lo ferma dicendogli di tirare 10 triple da 10 posizioni diverse, segnandone almeno 70 su 100. Al fallimento di Josh, Spo, forse riprendendo qualche abitudine tedesca, lo costringe a lunghissimi avanti e indietro (potreste conoscerli come suicidi) lungo il campo. Al lancio di una F-word da parte del suo rookie dopo l’ennesima corsa, il figlio di Jon finalmente commenta.

“Bravo, finalmente, devi competere con te stesso, lo devi volere più degli altri.”

Nelle parole di Kelly Olynyk, compagno di quelle stagioni:

“Lo ami, ma lo odi anche un po’.”

L’Heat Culture, parola-contenitore che come al solito vuol dire tutto e niente, è racchiusa qui: un allenatore già campione che sfrutta il proprio giorno libero per far correre il nuovo rookie della squadra, non preoccupandosi minimamente dello status e del contratto che si trova davanti e non demordendo dopo aver visto l’impegno, ma solamente dopo aver visto il raggiungimento dell’obiettivo prefissato.

Un’onestà nella sua comunicazione e nel suo metodo di lavoro che lo aiuta sempre, anche nella relazione con il suo nuovo faro tecnico Jimmy Butler, che lo ha portato in finale nel primo anno insieme e lo ha riportato a giocarsi un titolo – pur da sfavoriti – in questa stagione.

I due hanno una rapporto di amore-odio, proprio come quello descritto da Olynyk qualche anno prima, ma rivelano sempre un rispetto reciproco e una comunione di obiettivi rarissima per il panorama cestistico americano. Forse proprio per questo, dopo le urla dello scorso anno durante quella che sembrava l’ultima partita del nucleo attuale, hanno ancora trovato la forza di giocare due serie di Conference Finals, vincendo l’ultima qualche giorno fa contro i Celtics.

Alle volte, infatti, tra foto del Dungeon e ricerca della storia di riscatto, si perde la cosa migliore che Erik Spoelstra sappia fare: il mestiere di allenatore, senza remore e senza distinzioni.

Good Luck, Spo.