Dall’eredità di Drazen Petrovic all’opposizione del padre ad una prematura carriera NBA. Passando per le luci di Istanbul e Philadelphia, e per il buio del Minnesota. Sino alla rinascita a Phoenix. Il viaggio di Dario Saric fino alle Finals, interrotto bruscamente dal maledetto infortunio in Gara 1.
“JU GO SLA VIA! JU GO SLA VIA!”
Per una sera le strade di Buenos Aires non sono coperte dagli “abrazos”, i passi baciati che con incredibile armonia si muovono avanti e indietro, a destra e a sinistra, sotto il ritmo del tango.
“JU GO SLA VIA! JU GO SLA VIA!”
Si sente quest’infinita cantilena riecheggiare per tutta la città, soprattutto tra il Puerto Madero e l’Universidad de Buenos Aires. Soprattutto dentro all’Estadio Luna Park.
È il 19 giugno 1990. Vlade Divac, Drazen Petrovic e Toni Kukoc diventano campioni del Mondo. È una finale particolare. È Jugoslavia contro Unione Sovietica. Si scontrano le due maggiori realtà dell’est Europa, al tramonto della loro Storia. Finisce 92 a 75 per i balcanici. Finisce con lo sventolarsi della bandiera a strisce orizzontali e la stella rossa in mezzo.
Tutti alzano al cielo il proprio tricolore. Anche un tifoso vicino al campo. Ma il suo al centro, anziché la stella rossa della Jugoslavia ha il coronato scudo a scacchi di quello che sara’ la Repubblica di Croazia. E’ l’estate del 1990 e la Jugoslavia, dopo la caduta del Muro di Berlino del 9 novembre 1989, viaggia a due velocità, non più sincronizzabili. In pochi mesi, sloveni e croati lotteranno armati sui campi di battaglia, all’inseguimento dell’indipendenza.
Lì, a Buenos Aires, nessuno pare essersi accorto di quel tifoso. Nessuno tranne il serbo Divac. Dall’alto dei suoi 216 centimetri si frappone fra i compagni e l’uomo. Strappa ferocemente la bandiera e lo porta lontano dai festeggiamenti. Perché quella non è la vittoria della Croazia. È la vittoria della Jugoslavia.
Vlade torna con gli altri e continua a urlare: “JU GO SLA VIA! JU GO SLA VIA!”. Di sicuro ignora che il suo compagno Drazen Petrovic, fiero del proprio sangue croato, ha inciso col fuoco nella propria mente ogni singolo fotogramma di quella scena che sembrava essere passata quasi inosservata. Quel giorno non solo finisce la loro amicizia, ma anche paradossalmente il basket croato, che da quella sera pare non andare più avanti.
Così Petrovic apre e chiude un’era, lascia un buco cestistico che andrà avanti per più di vent’anni dopo la sua prematura morte nell’incidente del 7 giugno 1993 a Denkerdorf, in Germania. Un vuoto che deve essere colmato dall’arrivo di una nuova meteora, una fresca speranza che, forse, porta il nome di Dario Saric.
“Saric è un playmaker alto come Toni Kukoc e talentuoso quanto Drazen Petrovic”.
Scrive il Super Kosarka magazine, una rivista sportiva croata, che nel 2009 affida a un ragazzino di appena 15 anni il compito di riportare di nuovo in alto la bandiera della Croazia.
D’altronde Dario è cresciuto con le storie di mamma Veselinka e papà Predrag, entrambi ex cestisti. Gli hanno sempre parlato di Toni e Drazen, croati tutti e due. Di quella meravigliosa Jugoslavia che fu, delle magie di Petrovic oltreoceano o in Europa e degli imbattibili Chicago Bulls del three-peat con Jordan e Kukoc.
E Saric non può non sognare di arrivare dove sono arrivati Drazen Petrovic e Toni Kukoc. Di essere uno di loro.
Se con il secondo ha in comune la struttura fisica e alcune caratteristiche di gioco, con il primo, il Mozart della pallacanestro, condivide la stessa città natale, la piccola Sebenico di neanche 50mila abitanti, e la canotta blu e bianca del KK Cibona di Zagabria.
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Saric è un giocatore speciale. Alto 208 centimetri, ma dalle infinite possibilità offensive. Può mettere giù la palla, palleggiare e creare, grazie a una visione di gioco fuori dal comune. Può entrare dentro e lottare sotto canestro, ma anche far male da dietro l’arco.
Ama follemente la pallacanestro. Ce l’ha nel sangue e i suoi genitori per calmarlo da bambino, sempre esagitato e mai in silenzio, gli davano una palla e lo lasciavano sfogarsi al campetto vicino a casa.
Non per caso inizia subito a giocare tra i professionisti. 15enne fa già parte del Zrinjevac, in prima lega croata, e a soli 20 anni riporta il Cibona a vincere un torneo extra-nazionale dopo 27 stagioni. Da Drazen a Dario, dalla Coppa delle Coppe del 1987 alla Lega Adriatica del 2014: sembra che Petrovic gli stia davvero passando il testimone.
Quell’anno prima vince l’MVP della Regular Season di ABA e poi anche quello delle Finals. Si presenta così a tutto il pianeta. O meglio, in realtà il suo biglietto da visita alla pallacanestro l’aveva consegnato nel 2012 all’Europeo under 18 vinto dalla sua Croazia, segnando 25.6 punti di media.
Il cammino verso il suo sogno, verso il palcoscenico dei suoi miti, verso l’NBA, potrebbe essere semplice e senza troppe complicazioni. Oltreoceano molte squadre sono interessate al ragazzone di Sebenico, ma il grande ostacolo da superare è suo padre Predrag.
Già. Predrag Saric, con una buona carriera cestistica in Jugoslavia sulle spalle, è un appassionato di basket vecchio stampo e ha sempre avuto un’influenza particolare sulla carriera del figlio. Gli impedisce in ogni modo di volare subito negli USA, perché secondo lui deve farsi prima un po’ di esperienza in Europa. Così prima lo blocca nel 2013, dopo che Dario si era già reso eleggibile al Draft; poi, quando sceglie irrevocabilmente gli USA nel 2014, i due cadono in un cupo silenzio, non parlandosi per mesi. Vanno avanti senza scambiarsi nemmeno uno sguardo, finché la madre li supplica di trovare una mediazione.
Quindi Dario firma con l’Anadulu Efes, in Turchia, facendosi altre due stagioni in Europa; così papà Predrag è contento, ma va comunque il 26 giugno al Barclays Center, all’NBA Draft 2014.
«With the 12th pick, the Orlando Magic selects Dario Saric, from Croatia».
Dario sale di fianco a Silver con il capellino dei Magic, ma in pochi minuti i suoi diritti vanno in Pennsylvania, ai Philadelphia 76ers in cambio di Elfrid Payton, mentre lui nel 2014 e nel 2015 giocherà ancora nel vecchio continente. D’altronde lo ha promesso al padre.
In Turchia, oltre qualche litigio tra papà Saric e il coach Dusan Ivkovic, continua a sorprendere e a segnare, chiudendo la seconda stagione con 11.7 punti, 1,5 assist e 5.8 rimbalzi. Ma arriva il momento del sogno, dell’NBA.
Atterra a Philadelphia a 22 anni, dopo aver maturato esperienza in Europa. E in soli pochi mesi aldilà dell’oceano capisce che quello è effettivamente un altro mondo: il suo.
«È veramente difficile crescere giocando da noi. Al primo errore sei fuori. Onestamente, se fossi rimasto ancora in Europa penso non sarei mai migliorato».
Nella città dell’amore fraterno sono tutti innamorati di Dario. Il ragazzo croato con 12.8 punti a partita arriva a pochi voti dalla vittoria del titolo di Rookie of the Year del 2017, che va invece a Malcolm Brogdon.
Ma nei Balcani sono tutti convinti del suo talento e su di lui hanno grandi aspettative. Sarà Dario a rialzare la Croazia.
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E lo conferma la seconda stagione a Philly. Quelli del 2017/18 sono i primi 76ers con Embiid e Simmons non infortunati, sono quelli di JJ Reddick e del nostro Marco Belinelli. Sono anche quelli di Dario Saric.
Ai primi Playoffs della sua vita dimostra fin da subito che, forse, più della pallacanestro ama la vittoria. Inizia fortissimo, sempre tra i titolari, segnando 20 o più punti in Gara 1, 2 e 3 contro gli Heat.
«Ama solo vincere. Sono sempre stato circondato da ragazzi competitivi, ma non ne ho mai visto uno come Dario. Lui non pensa a nient’altro, se non alla vittoria.»(TJ McConnell)
E nel primo momento di difficoltà di quei 76ers, quando, dopo aver battuto facilmente in 5 partite Miami, sono andati subito sotto di 3 gare con i Boston Celtics di Kyrie Irving, Saric ha suonato la carica con due prestazioni da 25 e 27 punti. Ma purtroppo, per Embiid e gli altri, non basta.
Eppure, dopo quelle ultime partite di PO in Pennsylvania qualcosa cambia. Il nuovo astro nascente che sembrava seguire le orme di Petrovic e Kukoc cade e si spegne quando è costretto a volare in Minnesota nella trade che porta Butler a Philly nel novembre 2018.
Lascia il cuore a Philadelphia, lascia il Wells Fargo Center colmo di tifosi con le maglie dedicate a lui, con scritte come: “Dario the Super”. Lascia la squadra che gli ha permesso di realizzare il suo sogno, mostrando il suo valore anche affianco a due stelle come Embiid e Simmons. E soprattutto lascia coach Brett Brown, che gli ha dato e insegnato: al commiato si dice che tra i due sia scappata perfino qualche lacrima.
«Si può vedere la passione che ci mette. Lo capisci subito dal linguaggio del corpo una volta sul parquet. E’ un ragazzo fantastico.» (Brett Brown)
A Minneapolis è un Saric diverso. Meno utilizzato e coinvolto nell’attacco. Fuori dagli schemi di gioco di coach Tom Thibodeau e Ryan Saunders, che a gennaio aveva sostituito l’attuale allenatore dei Knicks.
Risultato: l’esperienza di Dario nel nord dura poco. A fine stagione coach Monty Williams lo chiama alla corte dei suoi Phoenix Suns.
Da quando Monty allena i Suns, ha lavorato molto sulla cosiddetta .5 Second Offense. Ovvero, ogni giocatore deve prendere la decisione in uno schiocco di dita, in soli cinque decimi di secondo. Tirare, passare o palleggiare. Non valgono incertezze. Vanno prese decisioni veloci per aumentare il ritmo e l’intensità della partita. Per questo tipo di gioco ci vogliono cestisti duttili, capaci di variare in base alla circostanza. E soprattutto, giocatori intelligenti. Dario Saric è sia duttile che intelligente.
E così riprende a giocare con il sorriso stampato in viso. Sicuramente ha un ruolo meno centrale rispetto ai primi anni in NBA a Philadelphia, ma ricomincia a dare un contributo importante, in uscita dalla panchina.
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Anche lui ora partecipa alla favolosa e romantica cavalcata dei Phoenix Suns di Monty Williams, Chris Paul e Devin Booker. Una storia cominciata l’anno scorso, nella bolla, con un record perfetto di 8 vittorie a 0. Una storia che sta continuando ancora, nel 2021, dopo aver battuto i Lakers di LeBron, i Nuggets dell’MVP Jokic e i Clippers di un infuriato Paul George. Sino alle NBA Finals contro i Milwaukee Bucks.
Una favola che, per un destino maledetto, si trasforma in un incubo durante il primo quarto di Gara 1. Appena due minuti dopo aver bagnato il suo esordio nella serie finale, il ginocchio destro fa crack.
Inizialmente l’entità del danno è indefinibile, ma i timori trovano conferma ben presto: rottura del legamento crociato anteriore.
I Suns perdono non solo una pedina interessante per la serie, ma anche un valore umano riconosciuto da tutto lo spogliatoio. In un gruppo unito e cementificato dal lavoro di Monty Williams sul piano della coesione e dell’attaccamento tra i giocatori.
Non sono un caso le stesse parole di Williams a suo indirizzo, che ben riassumono il riconoscimento che ha Dario all’interno del gruppo.
“È una notizia che spezza il cuore. Dario lo conosco bene, l’ho allenato due volte, di cui la prima a Philly, e poi ho avuto la chance di averlo qui ai Suns, dove rappresenta perfettamente la filosofia della nostra pallacanestro.
E’ un grande lavoratore, un ragazzo incredibile. Non vedeva l’ora di giocare queste Finals. E’ stato difficile stamattina parlare con il mio staff e scoprire cosa stava succedendo. Ho chiesto alla squadra di stargli vicino. So che tornerà e sarà un giocatore ancora migliore.”
Il destino dunque ha privato Dario della possibilità di prendere parte alla serie più importante della sua carriera; e di poter anche lui scrivere, dopo Drazen e Toni, la storia anche del suo paese. Ed è una cosa difficile da accettare per un giocatore che brama con grande ardore i palcoscenici importanti.
Ciò non toglierà mai un fatto: se i Suns possono ambire al Larry O’Brien 2021, è anche grazie al mattoncino portato alla causa dal croato. Un’eventuale vittoria di Phoenix sarebbe senza dubbio anche sua.
La sfida che lo attende ora è però una delle più ardue e decisive: quella di tornare, e di essere “un giocatore ancora migliore.”
Auguri, “Dario the Super”.