Tra partite al cardiopalma e immense prestazioni individuali, alcuni dei season openers più spettacolari nella storia dell’NBA.

Ottobre 2021 – Dopo una stagione e mezza piuttosto travagliata, la NBA sta per ripartire con una pandemia non del tutto scomparsa dallo specchietto retrovisore: sicuramente però vi è più fiducia verso un ritorno a una completa normalità che, a dirla tutta, l’intero globo terraqueo attende con ansia. Come un clamoroso video di lancio ci ha ricordato, quest’anno la Lega festeggia il suo 75esimo compleanno, con quella che si prospetta come un’annata estremamente interessante e, se possibile, ancor più incerta della precedente, che pure tante emozioni e sorprese ha saputo regalare.

Da almeno un decennio, dagli uffici sulla Fifth Avenue, si cerca di fare in modo di trovare – o di pilotare senza pietà – un match particolarmente d’interesse da piazzare come biglietto da visita della stagione in arrivo, puntando su franchigie con i giocatori più amati o su piazze con molti tifosi al seguito: sarà un caso che anche quest’anno le squadre coinvolte nella opening night siano Brooklyn, i campioni in carica di Milwaukee, Lakers e Golden State Warriors…

Non è sempre stato così: fino ai primi 2000 il sorteggio era davvero casuale, ma questo non ha certo impedito di vedere grandi partite già alla prima giornata di un campionato lunghissimo.

Abbiamo scelto quattro season opener particolarmente interessanti, vuoi per l’agonismo, vuoi per il finale punto-a-punto o perché teatro di prestazioni individuali memorabili.

Atlanta Hawks @ Chicago Bulls 115-120 (OT)
(18 ottobre, 1974)

A poco più di un anno dalla sfilata per le vie di Oakland in seguito all’agognato Titolo dei Warriors nel 2015, Nate Thurmond si spegneva all’età di 74 anni, a causa di una leucemia fulminante.


Nate the Great, il più grande giocatore uscito da Akron prima che, negli anni ’80, nello stesso ospedale della “ridente” cittadina dell’Ohio venissero alla luce due extraterrestri dalle sembianze umane, ha speso i primi 10 anni della sua carriera professionistica proprio nella Baia.

Una carriera fantastica, fatta di 7 convocazioni all’All-Star Game, due volte miglior quintetto difensivo e l’introduzione, nel 1996, nel novero dei migliori 50 giocatori nella storia della Lega. Dopo un anno da rookie vissuto da rincalzo di Wilt Chamberlain, Thurmond diventa il centro titolare inamovibile dei Warriors, con i quali si guadagna la reputazione di clamoroso rim protector e specialista difensivo con cui verrà ricordato in eterno.

“In vent’anni di carriera ho sfidato tantissimi centri, e non ho mai incontrato un difensore più incredibile di Thurmond. Giocare contro di lui era un incubo.”

(Kareem Abdul-Jabbar)

Nonostante delle medie carriera da 15 punti e 15 rimbalzi – e nonostante compagni del livello di Rick Barry – i Warriors non riescono ad arrivare all’anello, convincendo la dirigenza a scambiarlo nell’estate del 1974.

Una trade clamorosa, che all’epoca fece tanto rumore: una bandiera, un giocatore dal cuore infinito, spedito ai derelitti Chicago Bulls di metà anni ’70. Una fine ingloriosa per un monumento del Gioco?

In realtà le due annate a Chicago, prima di chiudere la carriera a Cleveland, sono ottime, arrivando addirittura alle Conference Finals, perse a Gara 7 proprio contro i Warriors: per uno scherzo del destino, i suoi ex compagni vinceranno il Titolo a meno di dodici mesi dal suo addio.

Ma la prima volta che ha indossato la casacca dei Bulls è stata una notte indimenticabile, che nessuno poteva aspettarsi e che nessuno potrà cancellare dagli annali.

Nel debutto casalingo davanti ai suoi nuovi tifosi, Thurmond registra la prima quadrupla doppia della storia della Lega. 

Da sole due stagioni vengono conteggiate anche le stoppate nelle statistiche ufficiali, e la sera del 18 ottobre 1974 il futuro Hall of Famer chiude la gara con 22 punti, 14 rimbalzi, 13 assist e 12 stoppate.

“La parte offensiva del mio gioco non è mai quella che mi viene più naturale, ma stasera mi sentivo bene al tiro e ne ho approfittato. Riguardo alle stoppate, continuavano a sfidarmi, venendo sotto il mio canestro: non una grande idea…”

Quel debutto coi Bulls è sicuramente la miglior partita della sua carriera e in parte, per parola dello stesso Nate, fu dovuto al suo nuovo pubblico.

“Sono nato nel Midwest, anche se non vi ho vissuto per gli ultimi 11 anni, e sono rimasto piacevolmente sorpreso dall’affetto della gente nei miei confronti. Mi hanno fermato per strada per salutarmi, stringermi la mano e incitarmi. Volevo regalare loro una prestazione degna del calore che mi hanno dimostrato”.

Denver Nuggets @ Utah Jazz 113-122
(3 novembre, 1989)

Nel dicembre del 1988, come un fulmine a ciel sereno, coach Frank Layden, comico mancato e fantastica mente cestistica, si dimette dal ruolo di Head Coach degli Utah Jazz, lasciando esterrefatto l’intero popolo del Lago Salato.

“Sono distrutto, lo stress e la pressione di questo mestiere ti mangiano vivo: ho passato troppe notti insonne ultimamente e non posso andare avanti così, non voglio fare la fine di Mike Ditka (coach dei Chicago Bears della NFL, reduce da un infarto NDR)”.

Solo qualche anno prima coach Layden vinceva il premio di miglior allenatore della NBA, convinceva la dirigenza ad ampliare l’arena di Salt Lake City – quasi sempre tutta esaurita – e costruiva una squadra moderna, basata su un duo straordinario che riscriverà la storia del Gioco: Karl Malone e John Stockton.

Nel 1984, anno in cui Layden vinceva il premio di Coach of the Year, veniva assunto nello staff dei Jazz – dopo una lunga carriera da giocatore tra Washington e Chicago – Jerry Sloan, divenendo subito l’assistente preferito dell’head coach.

Al momento di decidere chi fosse l’uomo giusto per il lavoro, il suo è quasi l’unico nome a saltare fuori: “Jerry ha quello che serve per far fare a questa squadra il salto di qualità, ne sono sicuro” dichiara orgoglioso Layden, e Sloan diventa il traghettatore dei Jazz fino all’estate del 1989.

A meno di una settimana dalla caduta del Muro di Berlino, nella restaurata Salt Palace Arena, arrivano i Denver Nuggets, per testare il nuovo corso di una franchigia in ascesa da anni ma che, per parola del suo stesso ex allenatore, ora necessità un cambio di passo per diventare davvero una contender.

Il nuovo corso inizia con una gara che è l’epitome di cosa saranno gli anni a venire nella terra dei Mormoni. Intensità, difesa, contropiede, concretezza: il tutto partendo dalle spalle di due campioni dal carattere atipico come Malone e Stockton, che già da un paio di anni affinano un’intesa che sfocerà nella telepatia.

Quella sera se ne ha già una prima dimostrazione.

Davanti a oltre 12mila spettatori, i padroni di casa vincono per 122 a 113, punteggio che nasconde il dominio totale per lunghi tratti della gara.

La prestazione dei due gioielli di coach Sloan è quella che attira maggiormente l’attenzione. Il Postino firma 40 punti con 18/25 al tiro oltre a 16 rimbalzi e 5 assist in meno di 40 minuti di utilizzo; il Muto ne segna 23 comodi conditi da 19 assist, massimo per un opening night nella storia della Lega. Devastanti.

Due doppie-doppie, il marchio di fabbrica di entrambi lungo l’arco di due carriera fantastiche, spese interamente nello Utah, non fosse per la sciagurata parentesi losangelina di Malone, alla disperata ricerca di un Titolo.

Inizia quella sera la parabola lunga 23 anni dei Jazz targati Jerry Sloan, spesso definiti come una delle migliori squadre a non aver mai vinto l’Anello; una franchigia dall’identità precisa e vincente, un marchio indelebile che sembra aver lasciato il segno anche nelle nuove incarnazioni della squadra fino ai giorni nostri.

Dallas Mavericks @ Phoenix Suns 111-108 (2OT)
(1 novembre, 2005)

Mettetevi nei panni del povero Dirk Nowitzki alla notizia che la stagione 2005/06 si sarebbe riaperta esattamente come aveva chiuso la precedente, qualche mese prima: di fronte ai Phoenix Suns, che il 20 maggio, dopo sei sanguinose sfide, mettevano fine alla corsa Playoffs dei Mavericks. Non certo una sfida qualunque per WunderDirk: la franchigia dell’Arizona è guidata da Steve Nash, MVP in carica nonché suo ex compagno di squadra, con cui tanto ha condiviso nei primi difficili anni in NBA.

Scalfire un’amicizia come la loro è quasi impossibile, ma la rivalità venutasi a creare tra le due squadre, nella prima metà degli anni 2000, ci ha provato in tutti i modi. Entrambe con grandi ambizioni di titolo – spesso stroncate dal dominio ad anni alterni degli Spurs – Suns e Mavs hanno dato vita ad alcune delle sfide più belle degli ultimi vent’anni, sia in post season che durante la stagione regolare. E il season opening che va in scena la notte di Halloween non è da meno in quanto a spettacolo: come potrebbe, data l’anima profondamente offensiva delle due squadre guidate da Mike D’Antoni e Don Nelson?

Fin dalla palla a due, contesa tra Eric Dampier e Kurt Thomas, si capisce che l’intensità della gara sarà la stessa di maggio: idealmente è un prolungamento di quella serie, una Gara 7 giocata con qualche mese di ritardo. E non basteranno 48, frenetici minuti per decretare un vincitore.

Nei primi tre quarti sono i Suns a condurre la gara con grande sicurezza, con un Nash ispiratissimo che chiuderà con 30 punti a referto, pur con 6 palle perse. L’ottimo apporto di Raja Bell, alla prima con la maglia di Phoenix, portano la squadra a 17 lunghezze di vantaggio a metà dell’ultimo parziale.

Qui si mette in moto il Tedesco, che con tre triple consecutive riavvicina le squadre: i Suns non vedono più il canestro e si trovano addirittura sotto nel punteggio, dopo un comodo layup di Jason Terry.

A pochi secondi dalla fine Nash subisce fallo e, ovviamente, manda a segno i due liberi a disposizione, forzando la partita all’overtime.

Nel primo supplementare i Suns ritrovano ritmo in attacco, con i due volti nuovi Bell e James Jones che trovano canestri importanti, ma Dallas risponde colpo su colpo con una tripla di Keith Van Horn e un altro jumper decisivo di Jason Terry, che sulla sirena trasforma con grande serenità, portando la partita a un secondo supplementare.

A questo punto subentra la stanchezza e i Suns, ridotti all’osso a causa di numerose assenze devono cedere: segnano solo 7 punti nel secondo OT, nessuno negli ultimi due minuti di gioco. Il tiro libero di Van Horn a 24 secondi dalla fine è l’ultimo canestro della partita e vale la vittoria 111-108, nonostante un tentativo disperato da 3 punti di Steve Nash.

I Mavericks, con i 28 + 15 di Dirk e i 23 del Jet, portano a casa la prima vittoria di una stagione straordinaria, che la vedrà arrivare dritta fino alle Finals, perse dolorosamente contro i Miami Heat di Shaq e Wade. E Dirk aspetterà per ben 6 anni la rivincita di quella sfida…

Chicago Bulls @ Los Angeles Lakers 88-87
(25 dicembre, 2011)

Si diceva di come, negli anni, la NBA abbia tentato di costruire un evento attorno al season opening, cercando di trovare una combinazione appetibile per i tifosi collegati da ogni parte del mondo.

Nel 2011 si esagera dato che, a causa del lockout scatenato dal mancato accordo per un nuovo contratto collettivo, alla data di inizio delle danze corrisponde il Santo Natale. Bulls e Lakers si sfidano allo Staples Center, dove si respira un’aria frizzante, data sì dal clima mite della California ma anche dalla grande attesa per quelle che sono probabilmente le due franchigie con più tifosi al mondo.

Chicago viene da una finale di Conference, una stagione che ha consacrato Derrick Rose come il più giovane MVP della storia della Lega e tante speranze per un Titolo che potrebbe tornare sulle sponde del Lago Michigan.

I Lakers invece sono alla ricerca di un’identità. Dopo il back-to-back di anelli del 2009 e 2010, nella stagione precedente i Dallas Mavericks hanno inferto ai gialloviola una punizione esemplare alle Western Conference Semifinals.

Phil Jackson lascia la panchina per sempre, lasciando spazio a Mike Brown – che vorrà Ettore Messina come suo assistente. A lui l’arduo compito di ricevere l’eredità di un vero e proprio totem per il basket NBA tutto, con contorni del santo patrono nella città degli Angeli.

Che sarà una partita speciale è tangibile dai primi momenti della gara.

Si prova sempre una straziante malinconia nel rivedere vecchie immagini del D Rose pre infortunio: un giocatore straordinario e unico, i cui orizzonti di gloria e sogni non erano ancora stati infranti da quelle maledette ginocchia.
In questo caso, la compresenza di un Kobe d’annata, che gioca sul dolore, con la faccia delle grandi occasioni, rende la partita davvero un’esperienza dolorosa, non fosse un autentico instant classic degli ultimi 10 anni.

La squadra di Thibodeau impone subito il suo gioco: trascina i padroni di casa in una partita dal basso punteggio, che parte dalla difesa e vola velocemente in attacco.

Alla fine del primo quarto Rose è fermo a 0, seduto in panchina; ma nel secondo si accende, mostrando sprazzi del suo atletismo e aggiungendo due bombe dal palleggio di strapotere puro.

Come detto, è la sua stagione post MVP e in estate ha siglato un nuovo contratto da 95 milioni di dollari per 5 anni che lo responsabilizza non poco: già da questa prima gara stagionale mostra come non esiti più a prendere il tiro da tre punti, limite dei suoi primi anni nella Lega, segnandolo con continuità. Come ebbe a dire Buffa in telecronaca: “Sono guai”.

Dopo un terzo quarto interlocutorio, ma con i Lakers che ritornano sopra di un punto, nell’ultimo quarto i padroni di casa costruiscono un solido vantaggio, trascinati da un Bryant che chiuderà la sfida con 28 punti senza triple.

A meno di due minuti dalla fine, i Lakers sono sopra di 8 lunghezze e rischiano di riaprire la faccenda con quattro liberi consecutivi sbagliati da Gasol prima e McRoberts poi.

Un canestro straordinario del Mamba dopo un giro dorsale con arresto in fade away sembra ridare fiducia ai gialloviola, sopra di 6 a meno di un minuto dalla sirena. Sarà l’ultimo punto della loro partita.

Deng realizza un gioco da tre punti su un pigro fallo di Gasol, altri due liberi nel possesso successivo per l’africano d’Inghilterra e i Bulls si ritrovano a meno uno, prima della ultima incredibile sequenza.

Rimessa Lakers nella metà campo offensiva: Kobe riceve nella peggior posizione del campo, viene raddoppiato ed è costretto a scaricare in emergenza. Deng recupera il pallone, che finisce poi nelle sapienti mani di Rose che prepara l’ultimo possesso offensivo della gara a là Jordan in quel di Salt Lake City. Instant classic.

Dopo quel tiro in corsa Bryant avrebbe ancora un’ultima occasione: si lancia in una penetrazione piuttosto avventurosa e viene respinto con perdite ancora una volta da Deng, autentico eroe del match.