Dai fasti degli anni 80 a Finals ricche di gioie e dolori: riviviamo la lunga e appassionante storia della ricostruzione dei Boston Celtics.
Il cronometro segna 15.3 secondi alla fine della partita. In lunetta per Orlando c’è Horace Grant, l’ala ex Bulls del primo Three-peat e riconoscibile per via degli occhiali dalla vistosa montatura. Siamo a Gara 4 del primo turno dei Playoffs 1995, si sfidano Orlando Magic e Boston Celtics.
Il numero 54 realizza il secondo tiro libero e chiude definitivamente i giochi per quanto riguarda partita e serie. Nell’aria c’è una strana atmosfera, i padroni di casa sono appena stati eliminati, ma al pubblico non importa molto. Quello che conta è che il libero di Grant sia stato l’ultimo canestro segnato in quel palazzo, il cui parquet incrociato profuma di terra consacrata.
Siamo dentro al leggendario Boston Garden.
Il nuovissimo e moderno Fleet Center (oggi TD Garden) è già pronto adiacente alla vecchia struttura, destinata ormai alla demolizione.
Su quel campo si è costruita la storia dei Celtics e hanno difeso i colori bianco-verdi emerite leggende come Bill Russell, Bob Cousy, John
Havlicek o Larry Bird.
Ma soprattutto, quel campo ha visto Boston vincere il suo ultimo Titolo NBA nel 1986, sconfiggendo in finale Houston per 4-2.
La vittoria sui Rockets darà il via ad un lungo digiuno di successi, che si concluderà solamente col fantastico trionfo del 2008, per opera dei Big Three.
Per ritornare in alto, i Celtics hanno affrontato un lungo viaggio infarcito di frustrazione, sfortuna, tragedia e tante tante sconfitte.
Nonostante il grande dominio negli anni ’80, il leggendario Red Auerbach è conscio che il tempo non risparmi neanche icone come Bird, McHale e Parish.
Nel cercare di inserire talento giovane al roster, tramite trade ottiene la seconda pick assoluta al Draft 1986.
La scelta ricade su Len Bias, da Maryland.
La disgrazia che si abbatte sulla capitale del Massachusetts è la prima avvisaglia di un interminabile periodo buio.
Bias muore durante una festa all’interno del campus della sua ex università, la notte tra il 18 e il 19 giugno 1986, solamente poche ore dopo essere stato scelto dalla sua nuova squadra NBA.
A stroncarlo un’aritmia cardiaca dagli esiti fatali, frutto di un consumo smodato di cocaina.
Pur profondamente scosso l’ambiente bianco-verde affronta con decisione la stagione 1986-87, arrivando in finale con una dolorosa sconfitta contro i Lakers.
Per la squadra del trifoglio rimane d’attualità la ricerca di forze fresche da aggiungere al roster e, al Draft del 1987, viene selezionato Reggie Lewis, da Northeastern University di Boston.
Il beniamino locale fatica nel suo anno da rookie, ma vede le proprie cifre crescere esponenzialmente col passare delle stagioni, fino a diventare un All-Star e un giocatore da oltre 20 punti a partita.
Col ritiro di Bird a fine stagione 1991/92, è lui il nuovo leader dei Celtics.
Al primo turno dei Playoffs del 1993, Lewis collassa in campo durante Gara 1 contro gli Hornets. Si rialza quasi subito ed esce dal campo con le proprie gambe, ma lo staff medico decide di porre fine alla sua stagione per ovvi motivi precauzionali.
Il 27 luglio 1993, mentre si allena in una palestra in vista della successiva stagione NBA, il numero 35 collassa a terra nuovamente, ma questa volta non si alzerà più. Nonostante i tentativi di rianimarlo, Reggie Lewis muore all’età di 27 anni, vittima di una cardiomiopatia ipertrofica.
Il secondo dramma in pochi anni genera un contraccolpo fragoroso in ambito psicologico e tecnico.
Per i Celtics inizia un lungo periodo farcito di infinite sconfitte , “grazie” alle quali staccano l’abbonamento ai bassifondi della classifica.
La dirigenza bianco-verde decide che è arrivato il momento di cambiare strategia, ispirandosi al glorioso passato.
Al timone della squadra serve un uomo dallo spiccato carisma, che inverta la rotta di tutto l’ambiente, proprio come era stato Red Auerbach.
Direttamente dal grande successo avuto con University of Kentucky, Rick Pitino diventa nuovo allenatore e general manager con pieni poteri.
L’esperienza a Boston dell’ex coach NCAA si rivelerà tutt’altro che positiva, con una gestione manageriale poco oculata e risultati sportivi del tutto assenti (mai qualificato ai Playoffs).
Durante la sua gestione tuttavia, i Celtics compiono il primo passo verso un ritorno ai grandi fasti degli anni ’80.
Dal Draft 1998 arriva Paul Pierce.
L’ex Kansas Jayhawks è accreditato a una delle cinque prime chiamate; Boston ha la scelta n. 10. La squadra del Massachusetts non ha nemmeno fatto provini con Pierce, convinta che non sarà mai disponibile.
Per fortuna o totale scelleratezza altrui, le varie squadre non chiamano Paul, abbagliate da altri possibili talenti.
Boston ha messo gli occhi su un poco conosciuto ragazzone biondo di A2 tedesca, tale Dirk Nowitzki.
Il talento di Wurzburg viene però chiamato da Dallas, così i bianco-verdi sono piacevolmente sorpresi di poter selezionare il nativo di L.A.
Con l’aggiunta di Pierce nel motore, i Celtics non riescono ugualmente a invertire il trend negativo, chiudendo per altre tre stagioni fuori dai Playoffs.
Il 20 settembre del 2000, la comunità di Boston rivive, con terrore, un’esperienza che riporta alla mente i drammi di Bias e Lewis.
In un locale della città, il Buzz Club, scoppia una rissa che vede coinvolto anche l’ex Kansas. Viene accoltellato 11 volte tra testa, collo e schiena.
Fortunatamente il numero 34 viene prontamente soccorso e non riporta danni considerevoli. Anzi, riesce a essere regolarmente al proprio posto al via della stagione.
Nel corso della Regular Season 2000/01 la dirigenza bianco-verde riconosce che l’esperimento Pitino sia definitivamente naufragato.
L’ex coach di Kentucky viene sostituito dal proprio assistente, Jim O’Brien.
Già vice di Pitino anche con i Wildcats, O’Brien riesce a organizzare in maniera proficua il gioco di Boston, sfruttando al meglio i giocatori a propria disposizione.
Il risultato porta la squadra del Massachusetts finalmente a risorgere nell’annata 2001/02.
Paul Pierce, alla terza stagione nella Lega, eleva il proprio gioco in maniera considerevole, ottenendo la prima convocazione per All-Star Game e il soprannome di The Truth.
Il nickname viene coniato da Shaquille O’Neal, dopo che l’ex Jayhawks ha letteralmente demolito i suoi Lakers.
A guidare i nuovi Celtics c’è anche il talento e sregolatezza di Antoine Walker, la regia folle e talentuosa di Kenny Anderson e una serie di giocatori che ben si sposano tra loro nel sistema di O’Brien – tra gli altri Tony Delk, Tony Battie, Rodney Rogers e un giovanissimo Joe Johnson.
Il risultato non è solo la prima apparizione ai Playoffs dopo sette anni, ma anche una rincorsa all’anello che si ferma solo nella finale di Conference contro i Nets.
Nella squadra del trifoglio inizia a circolare la convinzione che i tempi bui siano finiti e che la strada intrapresa sia finalmente quella giusta.
In realtà la stagione successiva Boston viene eliminata al secondo turno, e nell’annata 2003/04 le cose vanno ancora peggio, con l’uscita al first round della post season.
Durante la stagione regolare Jim O’Brien rassegna le proprie dimissioni.
La ragione del passo indietro del coach è da ricercarsi in un nome e un cognome: Danny Ainge.
L’ex giocatore bianco-verde da maggio 2003 ha assunto il ruolo di President of Basketball Operations .
Si rivela da subito un executive attivo, imbastendo varie trade, tra cui quella che spedisce Antoine Walker a Dallas o lo scambio coi Cavs di Eric Williams, Tony Battie e Kedrick Brown per Ricky Davis, Chris Mihm e Michael Stewart. Una mossa non gradita a O’Brien, che per l’appunto si dimette.
A partire dalla Regular Season 2004/05, Ainge affida la panchina a Doc Rivers.
L’ex coach di Orlando è perfetto per far crescere la squadra. Ha ottenuto risultati ottimi in Florida, in proporzione al roster, ottenendo il premio di Coach Of The Year.
È un ex giocatore che conosce le dinamiche del gioco e soprattutto è un eccellente motivatore, che sa arrivare al cuore dei propri ragazzi.
Il Draft 2004 porta talenti come Al Jefferson, Delonte West e Tony Allen.
Con queste novità i Celtics conquistano il terzo posto a Est, col solito Pierce a guidare i giochi.
Nonostante una cocente eliminazione al primo turno, torna l’ottimismo nel Bay State.
In realtà l’annata successiva si rivela disastrosa, con solo l’undicesimo posto a Est, mentre la stagione 2006/07 è, se possibile, ancora peggio.
Il 28 ottobre si spegne, all’età di 89 anni, Red Auerbach. Paul Pierce è costretto a stare fuori per infortunio per oltre sette settimane e Tony Allen si rompe il legamenti crociato anteriore e collaterale mediale, salutando anzitempo i compagni.
Boston chiude addirittura ultima nella Eastern Conference.
Nonostante un’annata agonistica da dimenticare, viene riposta grande speranza nel Draft 2007, che presenta due grandi talenti come Greg Oden e Kevin Durant.
Il pessimo piazzamento nella Regular Season appena conclusa concede ampie probabilità di una scelta molto alta.
Ma nonostante la nota fortuna degli irlandesi, la dea bendata non arride ai Celtics, che pescano addirittura la quinta chiamata.
La pressione inizia a farsi sentire sulle spalle di Danny Ainge.
Da quando si è seduto nella stanza dei bottoni del bianco-verdi, i numerosi scambi imbastiti da “Trader Danny” non hanno mai portato i risultati sperati, generando spesso forti critiche.
Inoltre Pierce inizia a palesare la volontà di poter competere per l’anello, richiedendo una squadra all’altezza.
L’estata 2007 di Ainge è estremamente aggressiva.
Per prima cosa, il giorno del Draft, scambia la propria scelta n. 5, Wally Szczerbiak e Delonte West coi Seattle Supersonics per Ray Allen e la chiamata n. 35.
Non contento il 31 luglio prende vita una trade da record con addirittura sette tra giocatori e scelte dirette a Minneapolis.
In cambio, dai Timberwolves arriva un solo giocatore, un MVP: Kevin Garnett.
Con questa mossa, l’executive bianco-verde aggiunge a Paul Pierce il miglior tiratore da 3 punti e uno delle migliori power forward di tutta la Lega.
Tre All-Star nella stessa squadra.
La mossa che ha unito i Big Three crea subito grosso clamore all’interno della Lega.
È palese che in casa Celtics qualunque risultato diverso dall’anello sia vissuto come un fallimento, ma ci sono comunque numerosi elementi da considerare, prima di parlare di squadra da Titolo.
Anche perchè – particolare storico – mai nella storia una squadra è riuscita a vincere il Titolo al primo colpo con l’acquisizione di due top players.
Inoltre il roster presenta ancora grandi lacune, da colmare obbligatoriamente per poter fornire un efficace supporting cast ai Big Three.
La regia è affidata al sophomore Rajon Rondo, mentre il centro titolare è il roccioso Kendrick Perkins.
In panchina fondamentale è la firma dell’ala James Posey e della geniale follia di Eddie House.
Minuti importanti sono previsti anche per Tony Allen, il rookie Glen Big Baby Davis e Leon Powe.
La stagione dei nuovi Celtics inizia in Italia. A Roma si gioca una tappa del 2007 NBA Europe Live Tour, il torneo che vede match amichevoli tra team NBA e squadre di Eurolega.
Per Doc Rivers un’ottima occasione sia per iniziare a creare gli equilibri in un roster quasi interamente rinnovato, sia la possibilità di cementare il gruppo.
I risultati sono subito sotto gli occhi di tutti. I nuovi Celtics si dimostrano una squadra concreta fin dalla prima palla a due ufficiale.
Nel mese di dicembre hanno già racimolato lo stesso numero di vittorie dell’intera stagione precedente.
Il 2007 si chiude con un impressionante record di 29-3.
Dopo un piccolo passaggio a vuoto nel mese di gennaio (5 sconfitte), Boston riprende il proprio ruolo di schiacciasassi, dominando la Eastern Conference e chiudendo con un sontuoso 66-16.
È la prima volta che la squadra più titolata NBA raggiunge quota 60 vittorie addirittura dalla stagione 1985/86.
Il fulcro offensivo del team sono ovviamente i Big Three, che si suddividono le responsabilità, segnando 55.8 punti a sera sui complessivi 100.5 della squadra.
L’equilibrio perfetto tra i tre permette pericolosità offensiva sia con 1vs1 frontali di Pierce, sia con giocate dal post da parte di Garnett – ma anche dello stesso The Truth – con KG che può anche spaziare col suo pericoloso tiro dalla media.
Ray Allen è ovviamente immarcabile in uscita dai blocchi, oltre a essere un tiratore illegale sugli scarichi.
Rondo poi, nonostante difetti di un tiro da fuori praticamente inesistente, si rivela prezioso nel dettare i ritmi di un attacco tanto talentuoso.
Al contrario di quanto si possa pensare, l’elemento chiave dei ragazzi di coach Rivers non si racchiude nelle qualità offensive, ma nella difesa. C’è un uomo nel coaching staff di Boston che ha costruito un autentico muro.
Il suo nome è Tom Thibodeau.
Il futuro allenatore di Bulls e Timberwolves, si dimostra particolarmente attento al lavoro svolto nella metà campo dei suoi.
Coach Thibs richiede grande aggressività sul perimetro, ma allo stesso tempo sfrutta in maniera proficua le rotazioni, traendo grande vantaggio dalla cattiveria agonistica e dalla grande mobilità di Garnett, preposto a presidiare l’area.
Sam Cassell, P.J. Brown e James Posey, arrivati in estate, sono la ciliegina sulla torta. L’ex Heat in particolare si è già dimostrato prezioso nel Titolo vinto da Miami nel 2006 con la propria difesa sul perimetro.
Anche a Boston, partendo dalla panchina il numero 41 porta un grandissimo contributo nella metà campo bianco-verde.
I Celtics sono pronti per iniziare la cavalcata finale verso il Larry O’Brien Trophy: i Playoffs NBA 2008.
Al primo turno trovano gli Atlanta Hawks.
Nonostante una sfida apparentemente semplice, l’ottava seed a Est si dimostra ben più coriacea del previsto.
Boston vince le prime due gare in casa forte di una super difesa (solo 81 e 77 punti subiti), ma Atlanta sfrutta il proprio atletismo nelle sfide in Georgia, pareggiando così la serie.
Prevale sempre il fattore campo e la sfida si risolve solo a Gara 7, con Pierce e compagni ad avere la meglio.
Il secondo turno si rivela fotocopia del primo. Vittime sacrificali i Cleveland Cavaliers di LeBron James.
Ancora una volta, Boston è spietata in difesa, ma si rivela incapace di vincere lontano dalle mura del TD Banknorth Garden.
Ci vogliono ancora sette partite per avanzare alle Eastern Conference Finals.
Il penultimo atto della corsa vede come avversari i Detroit Pistons. La squadra del Michigan perde Gara 1 in trasferta, ma pareggia incredibilmente vincendo a Boston. Già con le spalle al muro, i Big Three guidano i compagni alla prima vittoria on the road dei Playoffs, espugnando il Palace sia in Gara 3 che nella decisiva Gara 6.
I Celtics tornano alle Finals, dopo che l’ultima apparizione risaliva al 1987.
A sfidarli, oggi come allora, i loro più grandi avversari, i Los Angeles Lakers.
Rispetto alla sfida tra Larry Bird e Magic Johonson, il 2008 vede i Big Three scontrarsi contro Kobe Bryant.
I giallo-viola hanno aggiunto la classe di Pau Gasol a stagione in corso, traendone grande beneficio. Oltre al catalano e al Black Mamba, il roster è completato dal talento enigmatico di Lamar Odom, dal venerabile maestro Derek Fisher, oltre che dal contributo di vari gregari come Radmanovic, Vujanic, Walton, Turiaf e Farmar.
Gara 1 porta subito la serie nel vivo. L.A. guida di 5 punti all’intervallo, ma nel terzo quarto un evento svolta la gara.
In uno scontro sotto canestro con Perkins, Pierce finisce a terra lamentando un forte dolore al ginocchio destro.
Viene portato in spogliatoio addirittura in carrozzina, lasciando presagire un grave infortunio.
Tuttavia, dopo pochi minuti il numero 34 sbuca dal tunnel del Garden accomodandosi in panchina e mandando in delirio il pubblico.
La memoria vola subito al leggendario ritorno dagli spogliatoi di Larry Bird nei Playoffs del 1991, dopo aver sbattuto violentemente la testa sul parquet.
Successivamente monteranno numerose polemiche, con The Truth accusato di aver eccessivamente accentuato l’infortunio.
In ogni caso, la spinta emotiva sul pubblico e sulla squadra è immensa, con Pierce che segna due triple consecutive appena rientrato sul parquet.
La ribattezzata “Wheelchair Game” va a Boston.
Gara 2 vede i bianco-verdi ancora protagonisti portarsi su un rassicurante +24 con circa otto minuti da giocare. Kobe non si arrende e il parziale Lakers di 31-9 porta gli ospiti in vantaggio, prima che Pierce chiuda i giochi.
2-0 e si vola in California.
L’aria di casa giova decisamente agli uomini di Phil Jackson. Trascinati da KB24 (36 punti per lui) e dai 20 punti di Vujacic, i “lacustri” riaprono la serie, complice anche la pessima vena offensiva di Pierce e Garnett – solo Allen è positivo con 25 punti e 5/7 da 3.
I padroni dello Staples Center dominano il primo quarto di Gara 4 (35-14), ma vengono incredibilmente rimontati dai Celtics, che ottengono il primo vantaggio nell’ultimo periodo, grazie anche al contributo della panchina.
3-1 è un deficit mai recuperato nella storia delle Finals, ma Los Angeles non vuole certo mollare tra le mura amiche e vince Gara 5 riportando la serie sulla costa Est.
Gara 6 è fondamentale: per i Lakers per sopravvivere nelle Finals, per i Celtics per chiudere subito ed evitare la lotteria di Gara 7.
Fin dalla palla a due si capisce che il diciassettesimo stendardo sarà presto appeso sul soffitto del TD Garden.
Boston già nel secondo quarto allunga a +23 e non si fermerà più. L’attacco semplicemente rasenta la perfezione, con un ispirato Ray Allen (26 punti, 7/9 da 3 e una spaventosa percentuale reale del 95.8%) e un mortifero Kevin Garnett (26+14).
La difesa bianco-verde si conferma l’arma vincente. I dettami di Thibodeau per la finale sono chiari: grande pressione su Kobe, con l’idea di farlo ricevere in ala e spingerlo verso il fondo, dove scatta l’aiuto/raddoppio, spesso con Garnett.
Le rotazioni sulla riapertura poi, sono da enciclopedia.
131-92 il risultato finale: i Boston Celtics sono campioni NBA.
Danny Ainge ha vinto la propria scommessa, Doc Rivers ha concretizzato la propria fama di grande allenatore, i Big Three ottengono finalmente il tanto agognato anello.
Per i neo regnanti della Lega è già partita una nuova sfida, ben più difficile: confermarsi sul trono.
PARTE 2: Celtic Pride is back 2/2