Dall’essere il più giovane MVP di sempre, ad una fase finale da veterano in viaggio: fotografia di una carriera esistenzialista
In un’intervista di 10 anni fa con Jon Greenberg (The Athletic), si evince come Derrick Martell Rose, in famiglia Pooh e in arte The Son of the Wind, avesse fatto pace con la sua carriera, il suo corpo e soprattutto i suoi sogni:
Non ho più sogni, ormai. Li avevo di tornare, dopo il primo infortunio, ma dopo il secondo no. Dopo il primo ne avevo tanti: niente di drammatico, volevo tornare in campo. Ma al risveglio avevo un tutore sul ginocchio…
Rideva, a quel punto. Le lacrime finiscono, le sue e quelle dello United Center, che per mezzo secolo aveva atteso sul parquet un suo figlio. Ma quel sogno – per quanto probabilmente rimarrà incompiuto – non è stato una bugia. Anzi, è una delle storie più intrise di realness che la Lega abbia saputo offrire, ai limiti del verismo. Giovedì, dopo una carriera lunga 16 anni, D-Rose ha annunciato di ritirarsi, chiudendo una parabola molto americana, e chiudendola da vincitore, finalmente nella pace dei sensi.
Englewood, le origini, l’ascesa
Rose è stato culto a Chicago sin da giovanissimo, dai tempi della Simeon HS. Ovviamente aveva addosso tutti i licei della metropoli, ma scelse il citato per due motivi, uno concreto e uno romantico: il primo è che la Simeon è praticamente circondata da un complesso industriale, il che la rende uno dei posti più sicuri di Englewood, da statistica uno dei quartieri più violenti degli States; il secondo è dato dalla leggenda di Benji Wilson, numero 25 a cui Pooh – nomignolo nato dalla nonna per il pigmento giallastro da bambino e che gli è rimasto – si è sempre ispirato, ovvero il miglior giocatore di high school mai ricordato, e mai andato oltre per una storia che ad Englewood, purtroppo, somiglia a molte altre. Finito il liceo, è il momento di andare a sud: Rose sceglie la Memphis di coach Calipari, il cui imprinting non sarà mai dimenticato dal nostro, che porterà le Tigers fino al National Championship perso – guarda caso – contro i Kansas Jayhawks, dopo aver eliminato in semifinale la UCLA di un altro MVP, Russell Westbrook.
Ovviamente si parlava già di uno dei one-and-done più prolifici di sempre, e dopo aver visto costruire la propria carriera altrove tanti talenti – Tim Hardaway e Dwyane Wade 5 anni prima su tutti, nella Windy City sembrava ripetersi la stessa storia. E invece alla lottery del 2009, con l’1,7% di possibilità, i Bulls pescano la #1 assoluta. A guardarsi indietro oggi, era troppo bello per essere vero. L’impatto è immediato: rookie of the year, con l’ex della seconda tornata di Micheal Jordan, Stacey King – tuttora seconda voce delle partite di Chicago – conia l’immortale “too big, too strong, too fast, too good”, e la consacrazione di quell’anno arriva a casa dei campioni in carica: a North Station, Boston, Rose lascia basito il pubblico verde in Gara 1 – serie che si protrarrà grazie a lui fino alla 7 – con questa prestazione:
Il ballo del debuttante ebbe i suoi effetti, l’anno successivo si consacra All-star facendo inoltre venire alla luce la Rose-rule, e nel media day della stagione successiva mise insieme l’iconica profezia dell’MVP:
The way I look at it, why can’t I be the MVP in the league?
E quell’anno di momenti da MVP ne ebbe tanti – e infatti arrivò – tra cui il game winner di Natale a casa dei Lakers di Kobe o l’evoluzione in Point Guard fino agli 8 assist di media. Era la speranza finalmente riuscita di una città che nella decade post MJ aveva avuto soddisfazioni solo dall’hockey, ed era anche un caso a suo modo storico: l’ultimo MVP uscito da un liceo di una città metropolitana fu Wilt, curiosamente. Il rapporto con Englewood è sempre stato complesso: fu il suo compagno di squadra Jeremy Pargo a tessere le lodi di Rose come membro preminente della comunità, mentre lui in svariate interviste rimpiangeva di non frequentare le sue zone quanto e come avrebbe voluto.
It’s special that a little kid from Englewood won MVP.
Quel little kid tuttavia aveva obiettivi ben precisi: ancora in un’intervista con Greenberg, Rose racconta che nelle settimane successive all’eliminazione inflitta dagli Heat di LeBron James prese un treno per Los Angeles, per un programma di off-season. Durante questo rifiutò svariati inviti nei late-night show, lasciando il trofeo nel Condo di Chicago: asseriva che non avesse senso presenziare in quel momento, ma solo dopo aver riportato un titolo in Illinois.
Crociati e lacrime
Nella stagione accorciata dal lockout che seguì, i Bulls erano di nuovo una seria contender, e si attendeva solo la rivincita contro Miami. Ma in una serata che stava andando secondo copione, con i Bulls in doppia cifra di vantaggio sui Sixers, tutto precipitò. Irrimediabilmente. Il sogno era finito, e dopo qualche anno, fu chiaro a tutti. Sia la franchigia sia l’Adidas spinsero una vera e propria propaganda dal titolo #thereturn, mentre Rose spesso diventava emotivo nelle interviste; tutto fu gestito male da tutti, e non passò un messaggio che due anni dopo fu evidente. A seguito di una stagione di purgatorio senza il #1, mentre le voci su contratti garantiti, egoismi e complotti medici si rincorrevano, la stagione del #return si esaurì in solo 10 partite, quando sul parquet di Portland fece crack l’altro legamento crociato, il destro. A quanto pare, era davvero troppo bello per essere vero. Tornando all’inizio, bisognava necessariamente scendere a patti con una carriera diversa, ma non per questo lontana da Chi-town. Per quanto effimera, qualche soddisfazione c’è stata, anche grazie alla pesca di Jimmy Butler. Nel 2015, Rose raggiunge così l’ultimo picco della sua storia in postseason:
Dopo l’esonero di coach Thibodeau che, al di là delle sue remore verso qualsivoglia cambiamento, pagò la cecità di un gruppo di controllo ancora oggi in balia di sé stesso, fu scambiato anche Rose, che tornò dal suo eterno coach, a New York. Fu l’inizio di un lungo vagabondare, ricordando in notti romantiche cosa avrebbe potuto essere, e abbracciando sempre più sinceramente il ruolo di veterano e mentore. Appunto, una carriera diversa.
Un numero da ritirare e ciò che avrebbe potuto essere, in numeri
Al di là di tutto, in ogni suo ritorno allo United Center, il figlio del vento è stato celebrato come meritava: boati più per i suoi canestri che per quelli dei Bulls – i tempi erano e sono duri – e cori di MVP mai mancati. Anche lui sembra aver accettato il suo viaggio, cercando nuovi obiettivi e nuovi modi di rendersi utile. Quello del numero da ritirare non dovrebbe neanche essere un dibattito. Non esistono argomenti contrari a ciò che Rose ha significato e significa per Chicago, non certo due infortuni, ed è davvero difficile che qualcun altro, vestendo il#1, possa far vivere emozioni i puramente sue e non riportare la mente a chi quel numero ce l’ha tatuato. È frustrante sentir parlare di un giocatore con questo sostrato sempre e solo come di un what if. È dello stesso avviso Jeremias Engelmann di ESPN, il creatore del RPM (real plus minus). Quindi, per quanto impossibile in un certo senso, ha provato un “educated guess” su quella che sarebbe stata la carriera di Rose con due ginocchia sane.
Lo stesso analista ha stabilito che generalmente il prime di un esterno termina intorno ai 29 anni. Ciò vuol dire che il Rose MVP a 22 anni avrebbe reso per una volta vero il cliché “Sky is the limit”. E invece dai – quasi – 24 anni del primo legamento crociato, è iniziata l’inesorabile discesa in termini di produzione. Discesa che comunque, tra Bulls e Knicks, l’ha portato ad avere medie di 18 punti e 5 assist, ma ormai era difficile convincere un front office della sua stabilità fisica, di conseguenza questi splits sono risultati solo in un annuale al minimo con i Cavs, per far parte di una campagna che, a guardarla oggi, si fa fatica a credere sia esistita, specialmente considerando la presenza di LeBron.
Arturo Galletti di Daily Roto già nel 2017 ha guardato l’impatto di Rose comparandolo ad altre guardie che abbiano raggiunto un certo livello di successo in giovane età. Ciò è stato fatto calcolando l’influenza sulle partite con una metrica onnicomprensiva, Point margin produced (PMP), volta a mappare le contribuzioni al margine di vittoria.
L’arco di carriera di Rose appare molto diverso da quello dei pur eminenti colleghi nel grafico, pur senza avvicinarsi al giocatore che era pre-infortunio. È spaventoso, oltre che frustrante, pensare ad un prime. Eppure, anche questo è indicizzabile: l’ha fatto Jacob Goldstein di Nylon Calculus, inserendo nel modello statistico i numeri pre-infortunio, e il risultato è quello che vi aspettereste:
Questo modello, oltre a risultare razionale ad un primo eye-test per chi ricorda la stagione da MVP, conferisce a Rose una compagnia davvero elitaria.
Giocando fino a 36 anni senza infortuni – l’ha fatto nella vita reale, figurarsi senza – sarebbe stato nella discussione delle migliori Point guard di sempre. I 23.440 punti, oltre a porlo appena fuori dalla top 30 assoluta, lo renderebbero la quinta Point Guard per punti all-time, dietro solo a Oscar Robertson, John Havlicek, Steph Curry e Russell Westbrook. Ma la questione migliora: 7.741 assist sono buoni per il tredicesimo posto all-time, ma va considerato che sopra a 23000 e 7000 ci sono solo Robertson e James. Nella vita reale, tutto ciò si tradurrà nell’unico MVP della storia a non entrare nella Hall of Fame.
Tuttavia, TuPac Shakur, prima del tempo e completamente dall’atro lato della Route 66, aveva centrato cos’è stato e cosa per sempre sarà Derrick Rose, per Chicago, per chi sa apprezzare il figlio del vento e per chi sa cos’è l’esistenzialismo. L’ha fatto nella sua, guarda caso, The Rose that grew from the Concrete:
“We wouldn’t ask why a rose that grew from the concrete for having damaged petals, in turn, we would all celebrate its tenacity, we would all love its will to reach the sun, well, we are the roses, this is the concrete and these are my damaged petals, dont ask me why, thank god, and ask me how.”