30 storie legate ai Draft degli ultimi decenni. Nella seconda e ultima parte (qui la prima), le vicende legate a giocatori scelti dalla 15esima alla prima chiamata assoluta.
- Se vi siete persi la PRIMA PARTE delle nostre DRAFT STORIES (scelte 30-16), la trovate QUI.
15th Pick – Kelvin Cato
Mentre Kelvin Cato viene chiamato sul palco del Draft 1997, TNT manda in sovrimpressione la sua scheda. Altezza, peso, e i seguenti “Draft Facts”: non ha mai giocato a basket al liceo; possiede un pitone birmano lungo tre metri. Fine. Effettivamente Cato, cresciuto nei sobborghi di Atlanta, fino all’ultimo anno di liceo non ha quasi mai preso in mano una palla da basket, preferendogli guantone e mazza da baseball.
Nell’estate del diploma cresce in modo inaspettato, arrivando a sfiorare i 210 cm. Mentre si mantiene facendo il lavapiatti, University of South Alabama decide di offrirgli una chance nella sua squadra di pallacanestro. Nonostante le statistiche rivedibili, coach Tim Floyd vede in lui qualcosa, tanto da volerlo con sé presso Iowa State.
Diventa un interessante rim protector a livello collegiale, ma il passaggio in NBA è piuttosto traumatico: i primi anni a Portland sono disastrosi, quelli successivi a Houston, come cambio di Olajuwon, un pochino meglio.
Quando il nigeriano si ritira – e Cato diventa incredibilmente titolare – chiude due stagioni con circa 6 punti e 7 rimbalzi ad uscita: misteriosamente sufficienti alla folle dirigenza Rockets per offrirgli un prolungamento di contratto di 6 anni a oltre 40 milioni di dollari.
Dopo qualche altra grigia stagione si ritirerà, non prima di aver mostrato un altro particolare lato di sé: scrive H.O.O.P. (Help Out Other People), libro illustrato per bambini che racconta di un giocatore di basket che stimola i giovani a rimanere nel sistema scolastico e andare in chiesa la domenica.
14th Pick – Mateen Cleaves
La cittadina di Flint è da sempre considerata uno dei posti peggiori in cui crescere negli Stati Uniti, essendo una tra le aree più povere e travagliate del paese.
Verso la fine degli anni ’90, però, Flint riesce a finire sulle prime pagine dei giornali non per qualche ennesima notizia drammatica, ma per l’epica storia dei Flintstone, quattro ragazzi locali finiti a Michigan State, che sotto la guida di Tom Izzo portano l’università al titolo NCAA del 2000.
Tre mesi dopo, il miglior giocatore di quella Final Four – Mateen Cleaves – viene scelto alla 18° chiamata assoluta dai Detroit Pistons, la squadra dello stato, la franchigia per cui Cleaves ha fatto il tifo fin da bambino, negli anni dei Bad Boys: la sua gioia è incontenibile.
Difficile trovare una reazione più bella e genuina a nella storia dei Draft NBA.
Al momento dell’intervista, con un’adrenalina e una felicità che non lo abbandonano, Cleaves prende parola e non dimentica da dove viene, salutando amici e parenti a casa come il concorrente di un quiz show televisivo.
Wassup, Flint, I’m coming home, baby! Tony, I love you, boy! I’m coming home, baby!
13th Pick – Kobe Bryant
I retroscena riguardanti la scelta di Kobe al Draft 1996 sono degni di una telenovela sudamericana. Una serie di pressioni esterne e colpi di scena fecero sì che Bryant scivolasse fino alla 13° chiamata, per essere scambiato qualche minuto dopo con l’unica squadra della sua carriera NBA. Come? Quel Draft ha già di per sé così tanto talento che il fatto che un liceale, seppur chiacchieratissimo, finisca a metà primo giro non dovrebbe destare meraviglia. Kobe comunque è già sul taccuino di una squadra alla ottava chiamata: i Nets, che hanno appena assunto un certo John Calipari come head coach.
Calipari è innamorato di Bryant, tanto da convocarlo a tre workout per convincere la dirigenza a puntare su di lui. La proprietà però è spaventata all’idea di sprecare una chiamata così alta per un diciottenne di buone speranze ma che avrebbe bisogno di tempo per adattarsi al professionismo. La reticenza dei Nets irrita l’orgoglioso Kobe, che informa la franchigia di dover guardare altrove, minacciando di andare a giocare in Italia nel caso l’avessero scelto…
Un’altra squadra lo ha lusingato più volte e sembra volerlo ardentemente: i Lakers, nella persona del GM Jerry West. The Logo è convinto di dover fare l’impossibile per ottenere il ragazzo di Philadelphia, ma con la prima chiamata gialloviola prevista solo alla 24 sa di dover essere creativo.
Charlotte sta cercando un centro che possa sostituire Mourning, che in estate ha fatto i bagagli per Miami. Ecco l’illuminazione di West: offrire una trade con la 13° chiamata Hornets in cambio di Divac, liberando così anche abbastanza spazio salariale per offrire un contrattone al free agent più succulento dell’estate, un certo Shaquille O’Neal.
I Calabroni accettano, convinti di chiudere un vero e proprio affare: il problema è la reticenza del serbo.
Vlade è comprensibilmente irritato all’idea di lasciare l’assolata L.A. per il grigio North Carolina, minacciando di far saltare l’accordo. Ma dopo una visita ufficiale, Divac si convince e l’affare può chiudersi.
Nel giro di una settimana, West riesce così a portare in gialloviola Kobe e Shaq: il resto è storia.
12th Pick – Julius Erving
Durante un classico giro serendipico a notte fonda su Wikipedia – di quelli che partono dal medioevo e finiscono sulla biografia di una band death metal svedese… – mi cade l’occhio su un’informazione che mai avevo letto prima di quel momento. Doctor J venne scelto al Draft del 1972 dai Milwaukee Bucks, squadra che in quel periodo aveva a roster un certo Robertson, Oscar e tale Abdul Jabbar, Kareem: prego?!
All’epoca dei fatti, Erving è già professionista con i Virginia Squires nella ABA, che a differenza della NBA permette alle squadre di firmare giocatori che non hanno terminato il percorso universitario. Nel ’72, però, Julius diventa eleggibile e i Bucks usano per lui la 12° chiamata, ignari che il Doctor ha da poco firmato un contratto in gran segreto con gli Atlanta Hawks. Com’è possibile?
“Erving era già professionista e non sottostava alle regole del College Draft”, si difende il proprietario degli Hawks. E fin qui ci siamo: ma perché firmare un contratto con Atlanta quando era ancora in essere un legame con gli Squires? Julius dice di essere stato raggirato dal suo agente, che era anche un collaboratore degli Squires, ai quali Erving decide di fare causa, chiedendo che il proprio accordo con loro venga annullato.
La causa finisce in tribunale, finché un giudice federale sentenzia che l’unico accordo valido resta quello che Julius aveva siglato con gli Squires. Doctor J è costretto quindi ad accordarsi con la squadra della Virginia, per cui giocherà un altro anno prima di essere ceduto ai New York Nets, sempre in ABA. In NBA arriverà solo nel 1976, a Philadelphia, dove scriverà il resto della sua incredibile storia.
11th Pick – Reggie Miller
Per i Pacers sembrerebbe tutto apparecchiato: al Draft del 1987 hanno a disposizione l’undicesima chiamata e Steve Alford è ancora libero.
Era dall’ascesa di Larry Bird che lo stato dell’Indiana non si infiammava così per un giocatore locale: ha appena chiuso quattro anni agli Hoosiers da quasi 20 punti di media a uscita, miglior marcatore della storia dell’università, trascinandola al titolo nazionale nell’anno da senior.
Ma il nuovo GM dei Pacers, Donnie Walsh, ha altri programmi: viene scelto Reggie Miller da UCLA, mentre il ragazzo segue il Draft in TV, seduto in salotto a Riverside con la sua famiglia.
Per il popolo dell’Indiana è un affronto intollerabile e la chiamata di Miller è seguita da un coro di booo, fischi e improperi per Walsh, che si è macchiato del crimine di non esaudire il sogno di uno stato intero.
In Indiana più ancora che in altri posti c’è una pressione incredibile: se non scegli il ragazzo di casa vieni insultato. Ma io sono pagato per rendere questa squadra competitiva e Reggie era la scelta migliore. Anche la dirigenza voleva scegliessi Alford…
Fast forward: nel 2012 Reggie è stato indotto nella Hall of Fame mentre Alford, dopo nemmeno 4 stagioni, ha abbandonato il professionismo. Mai farsi offuscare dai sentimenti.
10th Pick – Brandon Jennings
Nel suo ultimo anno di liceo a Oak Hill Academy, Jennings scuote il mondo cestistico americano, segnando oltre 35 punti di media a gara, venendo tributato di qualunque riconoscimento possibile immaginabile: è il prospetto più interessante della sua generazione.
Nella primavera dell’anno precedente, Brandon aveva preso un impegno con gli Arizona Wildcats ma, dopo la clamorosa stagione da senior, annuncia di aver cambiato idea: sarà il primo americano a saltare il college per diventare professionista in Europa. Perché non direttamente la NBA? La nuova regola della Lega richiede almeno di aver compiuto 19 anni per essere eleggibili, escludendolo dal Draft 2008.
Nel luglio dello stesso anno firma con la Lottomatica Roma un contratto da oltre un milione e mezzo di dollari netti, chiudendo anche un accordo da due milioni con Under Armour: niente male per un ragazzo di Compton orfano di padre dall’infanzia.
Tra le difficoltà di un adolescente in una realtà completamente nuova e l’impatto col professionismo europeo, i numeri di Jennings sono tutt’altro che eccelsi: ma l’esperienza formativa lo ha sicuramente svezzato a dovere e nell’estate del 2009 i Milwaukee Bucks decidono di assicurarselo con la decima chiamata assoluta.
Epica la sua serata del Draft.
Aveva deciso di non partecipare alla cerimonia, preferendo una cena con la famiglia in quel di New York, salvo cambiare idea all’ultimo, abbandonando tutti e catapultandosi al Madison Square Garden per farsi immortalare anche lui sul palco con David Stern: arrivando in ritardo, ciò avviene solo dopo la 14° chiamata.
9th Pick – Dirk Nowitzki
Nonostante il suo nome in Europa riecheggiasse già parecchio, prima dell’estate del 1998 Nowitzki è considerato ancora il best kept secret del vecchio continente. Sono pochi gli scout NBA ad essere andati a vederlo dominare in quel di Würzburg: così ci pensa Wunderdirk ad andare al di là dell’oceano, accettando l’invito per l’annuale Nike Hoop Summit, sfida tra i migliori senior liceali americani e una selezione di giovani under 20 da ogni parte del mondo, allenata quell’anno da Sandro Gamba.
Dicevamo dei pochi scout che l’hanno messo sul taccuino: l’unico pare essere stato Donnie Nelson, figlio di Don, allora coach dei Mavericks.
Abbiamo provato a tenerlo nascosto, non avevo mai visto un giocatore della sua età così dotato e non volevamo perderlo.
Ma Dirk chiude la gara d’esibizione con 33 punti e 13 rimbalzi, portando la selezione internazionale alla vittoria: è definitivamente uscito dall’anonimato, complicando così il sogno di Dallas di draftarlo.
I Mavs sono abbastanza sicuri di poterselo assicurare alla sesta chiamata, ma Nelson è motivato ad arrivare anche a Steve Nash, dato che la squadra ha bisogno come il pane di una point guard.
Come fare ad averli entrambi?
La strategia perfetta viene trovata: prima l’accordo con i Bucks, interessati al compianto “Tractor” Traylor, selezionato dai Mavs alla sesta chiamata e girato immediatamente in Wisconsin; quindi Milwaukee chiama alla nona Dirk, girandolo ai Mavericks, e alla diciannove Pat Garrity, inspiegabile sogno bagnato dei Phoenix Suns, ai quali lo cedono, dando vita a una maxi trade che riesce a far sbarcare anche Nash in Texas.
8th Pick – Rafael Araùjo
Il numero di avvenimenti incredibili e la velocità con cui la carriera giovanile di Rafael Araùjo spiccò il volo sono inversamente proporzionali al tracollo che il suo sogno NBA ha avuto nelle sole tre stagioni da lui disputate oltreoceano.
Centrone di 211 cm di notevole agilità, Rafa cresce a São Paulo diventando uno dei prospetti più chiacchierati del paese. Quando sta per diplomarsi, il video di una sua partita con la Seleçao U19 finisce nelle mani dell’allenatore di Arizona Western College, una scuola di Division II sperduta nel deserto di Yuma.
In modo del tutto irregolare, coach Kelly Green si offre di pagare ciò che serve per il visto di Araùjo, riuscendo a fargli ottenere una borsa di studio sportiva: in due anni dimostra tutto la sua abilità da rim protector, accendendo su di sé i riflettori di alcuni atenei di Division I.
Finisce a Brigham Young, dove nell’anno da senior guida la squadra per punti, rimbalzi, palle rubate e stoppate: numeri incredibili che gli valgono la nomina nel secondo miglior quintetto della NCAA e la convocazione nella nazionale maggiore brasiliana per i Mondiali del 2002.
Prima della rassegna iridata, durante un test antidoping, viene però trovato positivo al nandrolone, venendo squalificato per 24 mesi dalla FIBA. La squalifica non vale per la NBA, però, e quindi al Draft del 2004 i Toronto Raptors decidono di usare per lui l’ottava chiamata assoluta.
La magia scompare sui campi del piano di sopra e dopo meno di 80 partite in tre anni tornerà dapprima in Europa e, dopo una deludente stagione in Russia, in patria, dove ha chiuso la carriera nel 2014.
7th Pick – Stephen Curry
L’innamoramento di New York City per Stephen Curry ha una data precisa: 9 dicembre 2008, quando, in occasione del Jimmy V Classic in quel del Madison Square Garden, Curry decide la sfida tra Davidson e West Virginia con 27 punti e la tripla decisiva per la vittoria.
Il pubblico della Grande Mela è in visibilio e quando una manciata di mesi dopo, nella stessa sede, inizia il Draft, i tifosi dei Knicks sognano di poter vedere Steph con la loro franchigia.
La Lottery ha affidato a New York l’ottava chiamata assoluta: alla 5° e alla 6° Minnesota ha due chiamate consecutive – e un gran bisogno di point guard – e le possibilità che tra le due non vi sia Curry sono molto scarse.
Incredibilmente, i Twolves scelgono Rubio e Jonny Flynn – due point guard! – convinti che la fisicità del gioco NBA schiaccerà Curry. Le speranze dei Knicks si riaccendo, sono rimasti solo i Warriors tra loro e la realizzazione di un sogno.
The Golden State Warriors select Stephen Curry, from Davidson College.
Un grido disperato e un coro di booo si leva dalle tribune: il cuore dei tifosi newyorchesi si sgretola in quel momento e a distanza di oltre 10 anni i cocci non sono ancora stati raccolti tutti.
6th Pick – Jan Vesely
Il momento di maggior clamore della breve carriera NBA di Jan Vesely è sicuramente legato alla notte del Draft, in cui i Washington Wizards lo scelgono addirittura alla 6° chiamata.
Il ceco è seduto al tavolo con la sua famiglia e il suo agente e nel momento in cui Stern fa il suo nome si alza in piedi, come spesso capita nel silenzio generale della sala che non conosce il miglior giovane FIBA del 2010, reduce da alcune stagioni entusiasmanti al Partizan. La prima del suo tavolo ad alzarsi è una ragazza altissima, che pubblico e analisti danno per scontato sia la sorella: ma dopo qualche istante tra i due inizia un bacio appassionato, che si prolunga per qualche istante, prendendo alla sprovvista tutti.
Il pubblico si lascia andare in un boato e fischi di approvazione, come dopo una scena romantica in una sit com, e Jan da quel momento riceve un benvenuto ben più caloroso di quello solitamente destinato ai suoi omologhi europei.
Per la cronaca, la fidanzata si chiamava Eva Kodousdova, giocatrice di basket già in pensione: risulta che i due non stiano più insieme da parecchio tempo.
5th, 4th Pick – Antawn Jamison, Vince Carter
Dopo aver condiviso 3 stagioni in quel di North Carolina, Jamison e Vinsanity si ritrovano entrambi al Draft del 1998 con serie possibilità di essere scelti alle primissime chiamate. I due sono molto amici, nelle settimane precedenti scherzano su chi verrà scelto prima, consacrando sostanzialmente chi è il miglior giocatore tra i due: mai si sarebbero aspettati di essere scambiati l’uno per l’altro.
Golden State vuole Jamison a tutti i costi; i Raptors non vogliono farsi scappare Carter. I Warriors sono terrorizzati all’idea che Toronto sia anch’essa interessata a Jamison e il GM dei canadesi Glen Grunwald, come il migliore dei giocatori di poker, lo lascia credere, lasciando addirittura intendere che potrebbero scegliere Antawn per poi scambiarlo coi Bucks, molto interessati.
A questo punto Golden State fa un’offerta ufficiale: in cambio anche di un ingente somma in denaro, i Raptors accettano di scegliere Jamison alla quattro a patto che la franchigia della Baia selezioni Carter alla cinque, per poi effettuare uno scambio immediato. Tutto questo nella speranza che nessuna delle tre squadre prima scelga uno dei due: ciò non avviene e la transazione può essere compiuta.
Jamison e Carter restano sul palco dopo la loro chiamata, scambiandosi il cappellino, scena inedita e che mai più si è vista da allora.
3rd Pick – Rick Robey
La storia della scelta di Robey da parte dei Pacers al Draft del 1978 è in realtà la storia della mancata scelta della franchigia dell’Indiana di Larry Bird, il più forte giocatore mai uscito dall’Hoosier State.
Robey, pedina fondamentale per la vittoria al titolo NCAA di Kentucky qualche mese prima, è un buon giocatore, ma Bird ai Sycamores di Indiana State ha già mostrato di essere qualcosa di decisamente più speciale. Perché allora questa scelta? Semplice: Larry Legend si era dichiarato eleggibile, sottolineando però che sarebbe tornato al College un altro anno, per chiudere i quattro del suo percorso scolastico e laurearsi in educazione fisica.
Per questo ben cinque squadre decidono di passare il suo nome, tra cui la squadra del suo stato che pagherà a carissimo prezzo questa scelta. Chi non si lascia scappare l’occasione sono i Boston Celtics, nella persona di Red Auerbach.
I verdi vengono da una stagione senza Playoffs e dopo la scelta “a vuoto” di Bird resteranno a secco per un altro anno. Ma come tutti noi ben sappiamo, la scommessa pagherà dividendi enormi, ridando nuova linfa vitale alla dinastia del Leprecauno.
2nd Pick – Steve Francis
I neonati Vancouver Grizzlies, dopo quattro deludenti annate, sono ancora alla ricerca di un vero franchise player, un talento che possa convincere il pubblico dell’hockey a convertirsi definitivamente alla palla a spicchi. Al Draft del 1999 i canadesi hanno la seconda chiamata e un obiettivo chiaro: Steve Francis, inebriante point guard da University of Maryland.
Francis ha però idee leggermente diverse. Informa il GM dei Grizzlies Stu Jackson, lo ribadisce nelle interviste in TV e sui giornali, raccomanda il suo agente di farlo sapere a tutti: non ha nessuna intenzione di giocare a Vancouver.
Ciononostante, Jackson decide di sceglierlo ugualmente, mettendosi in casa una bomba a orologeria che esplode nel momento stesso in cui David Stern pronuncia la frase:
“With the second pick in the 1999 NBA Draft, the Vancouver Grizzlies select Steve Francis”.
Francis è attorno a un tavolo con la sua famiglia, attende l’esito della chiamata con le mani giunte in preghiera, affidandosi a entità superiori per cambiare il suo destino.
Le telecamere indugiano su di lui mentre la voce del Commissioner lo trafigge al petto come una pugnalata. Quasi con gli occhi lucidi, sale sul palco per stringere la mano a Stern con la stessa andatura di un condannato a morte che va al patibolo.
Le settimane successive sono infuocate e alla fine il neo rookie riesce a forzare una trade, che coinvolgerà più di 10 giocatori e tre squadre, finendo a Houston: un avvenimento che minerà per sempre la sua credibilità all’interno della Lega.
E il destino della franchigia canadese.
1st Pick – Michael Olowokandi
Delle tante pessime prime scelte al Draft nella storia della NBA, quella di Olowokandi è sicuramente quella dai retroscena più assurdi.
Nato in Nigeria, figlio di un diplomatico, si trasferisce a Londra con la famiglia quando è molto piccolo e nella metropoli britannica cresce praticando atletica leggera e giocando a calcio come mediano.
Anche qui è la natura a cambiare i suoi piani: cresce di 20 centimetri in meno di due anni, ritrovandosi ben oltre i due metri di altezza, decidendo di provare con la pallacanestro al compimento del suo diciottesimo anno d’età.
Si iscrive alla facoltà di ingegneria meccanica, mentre continua a praticare diversi sport tranne il basket, hobby che coltiva a tempo perso con risultati non eccelsi: ne è prova il fatto che faccia diversi provini per alcune squadre inglesi senza alcun successo.
Il basket però lo intriga, l’altezza lo conforta e decide di provare il colpaccio.Sfogliando la Peterson’s Guide to American Colleges and Universities, decide di subissare di chiamate un numero imprecisato di atenei statunitensi, autocandidandosi come possibile studente-giocatore, fino a che University of Pacific, incuriosita dalla sua altezza, decide di offrirgli un posto in squadra senza borsa di studio.Nell’agosto del ’95 Olowokandi sbarca in California, senza aver mai giocato una singola partita di pallacanestro organizzata nella sua vita.
Al telefono gli dissi che se non fosse stato alto davvero 7 piedi l’avremmo rimesso direttamente sull’aereo per l’Inghilterra. Michael non conosceva minimamente la terminologia cestistica, né le regole base e arrivò in una condizione fisica pietosa. Ai primi allenamenti continuava a fare passi e infrazioni di campo, ma si è impegnato moltissimo ed è migliorato rapidamente. (Bob Thomason, coach UOP)
Ora del suo anno da senior, Olowokandi è diventato quasi un giocatore: 22 punti, 11 rimbalzi e 3 stoppate, premiato come Player of the Year per la Big West Conference.
Chi potrebbe cascarci se non i Los Angeles Clippers, che al Draft del 1998 – pieno zeppo di giocatori di qualità – decidono di usare per lui la prima chiamata assoluta…
È l’anno del lockout e in attesa che la stagione ricominci, Olowokandi riceve diverse offerte dall’Europa. Decide di accasarsi a Bologna, sponda Virtus, squadra reduce dalla doppietta Campionato-Eurolega, che gli offre un contratto da oltre un milione di dollari: per le sei partite disputate – tutt’altro che indimenticabili – il nigeriano può considerarlo un discreto affare.
Inutile soffermarsi sui suoi anni NBA, in cui non ha minimamente lasciato traccia, terminando una carriera che non gli ha certo donato la gloria sportiva.
Ma 38 milioni di dollari, quello sì.
- Se vi siete persi la PRIMA PARTE delle nostre DRAFT STORIES (scelte 30-16), la trovate QUI.