30 storie legate ai Draft degli ultimi decenni. In questa prima parte (qui la seconda), le vicende legate a giocatori scelti dalla 30esima alla 16esima chiamata assoluta.
Il conto alla rovescia verso il Draft è ormai agli sgoccioli e quello di quest’anno entrerà di diritto nella storia NBA come uno dei più attesi di sempre, nonché tra quelli che daranno il là a una narrativa “ex post” molto densa, in un senso o nell’altro.
Tra un flashback e l’altro, dietro ogni scelta spesso si cela una storia interessantissima, fatta di recruiting instancabili, casualità e speranza. Nel momento in cui i giocatori salgono sul palco, poi, inizia il balletto mediatico rituale fatto di recensioni sull’abbigliamento e radiografie accurate di linguaggio verbale e non. E allora, raccontiamo qualche storia.
Di seguito vediamo una rassegna di 30 momenti indimenticabili legati alle scelte al Draft degli ultimi 50 anni, rispettando l’ordine di chiamata dei giocatori in questione.
30th Pick – Rashard Lewis
Mi contraddico subito, ma giuro solo stavolta: di tutte le storie che racconteremo, questa è l’unica che non rispetta la reale chiamata al Draft del giocatore, ma era troppo invitante per lasciarla fuori.
Al Draft del 1998, quando Rashard Lewis viene scelto alla 32° chiamata dai Seattle Supersonics, il ragazzo sta trattenendo le lacrime da diversi minuti e proprio mentre si incammina verso il palco comincia a singhiozzare copiosamente. Perché?
Verso la fine degli anni ’90, l’attrazione delle squadre NBA verso liceali pronti a saltare il college per andare tra i pro è all’apice. Lewis ha rifiutato una borsa di studio da Florida State, dato che quasi tutti i Mock Draft dell’epoca lo danno entro le prime quindici chiamate.
Ne è riprova il fatto che la Lega lo inviti nella famigerata Green Room, riservata agli atleti con alte probabilità di essere scelti al primo giro, così da poter salire sul palco, stringere la mano a Stern, fare le foto di rito eccetera.
Forse perché spaventate dalla sua inesperienza, tutte le squadre della lottery decidono di passare il suo nome. In diretta televisiva planetaria, Lewis vede il suo sogno sgretolarsi: dall’avere un contratto milionario garantito ad essere l’ultimo rimasto nella Green Room, impietosamente cercato dalle telecamere che lo espongono al pubblico ludibrio.
La carriera di Lewis è stata comunque lunga e piena di soddisfazioni, per sua fortuna: ma il ricordo di quella traumatica serata newyorkese difficilmente lo abbandonerà.
29th Pick – Toni Kukoc
Questa storia è ormai nota a tutti grazie a The Last Dance, quel gioiello che ha allietato il nostro primo lockdown.
Kukoc viene scelto dai Bulls alla ventinovesima assoluta del Draft 1990 – all’epoca la seconda scelta del secondo giro – salvo restare in Europa, più specificatamente a Treviso, fino al 1993, quando il croato si aggrega ai campioni NBA orfani di Jordan appena ritiratosi.
L’amore di Jerry Krause per Toni è diventata una specie di inside joke nello spogliatoio di Chicago, così come lo è l’odio di MJ e Pippen per il loro GM. Oltretutto, il contratto garantito a Kukoc sarà più alto di quello di Scottie: l’affronto definitivo per il 33.
Cosicché, quando alle Olimpiadi del 1992 Team USA affronta la compagine croata, i due mostri sacri dei Bulls finiscono per contendersi la difesa sul malcapitato futuro rookie, nella volontà di rendergli impossibile anche solo respirare sul rettangolo di gioco. La sua unica colpa: essere il protégé dell’uomo più odiato della franchigia.
Il messaggio arriva forte e chiaro: Kukoc, un tre volte MVP dell’Eurolega, chiude la gara con 2/11 dal campo nella sfida contro i futuri compagni.
“Fu traumatico, ma capii che era una questione che avevano con Krause e non c’era nulla di personale nei miei confronti. Fu molto educativo: stavo per andare a giocare nella migliore squadra del mondo e il fatto che fossi un top player in Europa non aveva alcun significato, dovevo ripartire da zero”.
28th Pick – Tony Parker
Quando il francese viene chiamato da David Stern al Draft del 2001 il pubblico e gli analisti di TNT hanno la classica reazione che in quegli anni era destinata ai giocatori di formazione europea: un silenzio assordante.
Ernie Johnson se la cava semplicemente descrivendolo fisicamente, Pitino si spinge un po’ oltre dicendo che i Celtics erano interessati a lui e che “sa tirare ed è una point guard”…
Poi è il turno di Charles Barkley:
“Non so molto su di lui, ma se l’hanno scelto al primo giro immagino sia un buon giocatore”.
Genio.
Tony è presente in sala, ma emerge dalle ultime file del Madison, seduto in mezzo ai tifosi: una pratica che ritroviamo anche nelle scelte successive.
26th, 27th Pick – Sasha Vujacic, Samuel Dalembert
L’esperienza vissuta da Rashard Lewis qualche anno prima ha spinto molti giovani giocatori a cambiare i propri piani, una volta dichiaratisi eleggibili al Draft.
Al diavolo la Green Room: dovessero chiamarmi al secondo giro, me ne sto bello in disparte, magari addirittura comodamente seduto sul divano di casa, così da non rischiare di essere perculato dal mondo intero. Oppure starsene in piccionaia, nella speranza che qualcuno chiami.
Proprio due scelte prima di Tony, lo stesso trick l’aveva usato Samuel Dalembert, il centro haitiano, a lungo pivot titolare dei Philadelphia 76ers. Al momento della sua chiamata, David Stern sta per scendere dal palchetto, non essendo stato informato della presenza del ragazzo in sala.
Quando dalle retrovie spunta un 2.11 con gli occhi che brillano, che a grandi falcate si appropinqua al palco per prendersi i suoi due minuti di gloria, lasciando il Commissioner visibilmente sorpreso.
Qualche anno dopo, Sasha Vujacic opta anche lui per l’effetto sorpresa, quando alla 27° chiamata Stern pronuncia il suo nome. A differenza di Dalembert, però, lo sloveno ha un fisico più normale e mentre si avvicina al palco, la sicurezza del Madison lo scambia per un comune tifoso su di giri, fermandolo bruscamente. Benvenuto negli States, Sasha!
25th Pick – Al Harrington
Al Harrington cresce come un ragazzino estremamente paffutello, troppo scoordinato per giocare a basket: l’unico sport cui si dedica è il football, nel quale un corpaccione come il suo fa sempre comodo.
Nell’estate di passaggio tra la scuola media e il liceo però – in soli 4 mesi – cresce da 177 a 195 centimetri, subendo sostanzialmente una mutazione genetica. A questo punto si concentra sulla pallacanestro e in soli quattro anni diventa talmente forte che gli Indiana Pacers decidono di scommettere su di lui – 18enne – senza una formazione cestistica collegiale.
Alcune università hanno cercato di convincerlo, chi con mezzi leciti, chi meno: una scuola della Conference ACC – unica informazione rivelata al riguardo – gli avrebbe offerto 450mila dollari in contanti, un SUV nuovo di zecca oltre che dare lavoro presso l’ateneo alla madre.
“Ho sbagliato a non accettare: fossi andato al college, e poi tra i pro, avrei avuto 450mila dollari in più! Non avrebbero potuto farmi nulla, al massimo ci sarebbe andata di mezzo la scuola…”
Il giorno della presentazione in maglia Pacers è esilarante.
Dopo una notte di bagordi post Draft, ha un aereo da prendere destinazione Indianapolis per la conferenza stampa di rito; il suo manager lo aspetta a una fermata dei Taxi, alla quale Harrington si presenta già con un discreto ritardo. L’auto gialla arriva, ma c’è un problema: l’agente di Al è troppo grasso e non entra nella vettura, così che i due devono aspettare l’arrivo di un minivan più capiente, finendo per perdere l’aereo.
Vi lascio immaginare la reazione del coach dei Pacers – un certo Larry Bird – alla notizia che la conferenza stampa del suo nuovo rookie andrà spostata perché ha perso un aereo…
24th Pick – Arvydas Sabonis
Di come uno dei più leggendari centri della storia del gioco sia stato scelto due volte – in due Draft consecutivi – salvo arrivare in NBA solo 9 anni dopo la chiamata ufficiale della Lega.
Nel 1985, Sabonis viene scelto alla 77° assoluta dagli Atlanta Hawks – sì, ai tempi si andava lunghi – già noti per aver chiamato, negli anni precedenti, altri international players come Manuel Raga e Dino Meneghin, mai sbarcati oltreoceano.
Forse per un errore di compilazione della data di nascita, forse perché ignari della regola che imponeva di essere almeno ventunenni, la scelta di Sabonis viene annullata, dato che all’epoca il lituano è ancora ventenne.
La primavera successiva, quindi, Arvydas è nuovamente disponibile e stavolta sono i Portland Trail Blazers a selezionarlo, al primo giro del Draft, nonostante abbia subito un infortunio al tendine d’Achille.
Il sogno americano però dura poco: siamo ancora in anni di Guerra Fredda e l’Unione Sovietica non permetterebbe mai al proprio giocatore simbolo di giocare negli States.
E infatti Sabonis resta allo Zalgiris. Dopo il crollo del Muro, sarebbe libero di raggiungere l’Oregon ma, a sorpresa, decide di trasferirsi al Real Madrid, dove passerà 3 stagioni fatte di grandi successi e tremendi infortuni.
Nell’estate del ’95 Portland e Arvydas tornano a parlarsi, nella speranza di consumare questo matrimonio a distanza lungo quasi 10 anni. I dubbi sono enormi: il medico dei Blazers, dopo aver visionato la sua cartella clinica, disse che Sabonis avrebbe potuto “fare richiesta per una pensione d’invalidità” per come era messo. Nonostante ciò, la scommessa viene colta e le 7 stagioni del lituano in NBA restano comunque leggendarie, con picchi di qualità straordinari ancorché giocando alla velocità di un bradipo.
Aver visto soltanto il canto del cigno di Sabonis in America resta tutt’oggi uno dei più grandi big if nella storia della NBA.
21st, 22nd, 23th Picks – Pavel Podkolzin, Viktor Khryapa, Sergei Monia
Quasi vent’anni dopo la scelta di Sabonis, al Draft 2004, abbiamo la riprova che l’Unione Sovietica si sia davvero sciolta. Un vero e proprio ciclone russo si abbatte sul tardo First Round, con tre scelte consecutive che vengono dalle steppe. E che gridano vendetta.
Sono gli anni in cui gli international players vanno di moda: tutti sono alla ricerca di un nuovo Nowitzki, ma l’equazione nome esotico-futuro MVP non è sempre automatica.
Alla 21 viene chiamato Pavel Podkolzin, centrone in forza a Varese, gigante di 226 cm con una pesante storia di infortuni ai piedi, dovuti alla stazza fuori scala. In NBA disputerà solo sei gare con la maglia dei Mavs per poi tornare sul freddo suolo patrio.
Alla 22 e alla 23 vengono scelti due giovani talenti cresciuti nel vivaio del CSKA Mosca, che ha chiuso al terzo posto la precedente Eurolega: Viktor Khryapa e Sergei Monia. Entrambi finiscono – manco a farlo apposta – ai Portland Trail Blazers, che a questo punto rischiano di essere messi sotto indagine dalla CIA per cospirazione comunista.
I due si fanno un po’ di compagnia, ma non troppa: sommando le loro carriere, non si va oltre le 5 stagioni al di là dell’Oceano, prima del rientro in Russia per entrambi.
20th Pick – David Stern Vs. Haters
I tifosi NBA hanno sempre avuto un rapporto di amore/odio nei confronti di David Stern, reo secondo molti di aver snaturato il Gioco a favore del business, favorendo determinate franchigie rispetto ad altre, in base al loro bacino economico.
Il Draft è anche uno dei pochi momenti in cui Stern è davvero esposto agli insulti dei tifosi comuni, spesso particolarmente “alticci” sugli spalti del Madison. Quello del 2013 è un Draft speciale per l’avvocato newyorkese: si tratta dell’ultimo da commissioner della Lega, prima di cedere lo scettro al suo fedelissimo, Adam Silver. Sale sul palco per l’ultimo giro di annunci e il clima è frizzantino già dalle prime scelte.
Insulti e boati crescono in un climax inarrestabile fino a quando, dopo la ventesima chiamata, Stern si silenzia, lasciando che tutta la potenza dei suoi detrattori si sfogasse impunemente.
Per poi rispondere con una punchline epica.
“Spieghiamo al nostro pubblico internazionale che in America i boo sono considerati una forma di rispetto”.
Grazie David.
19th Pick – Nate “Tiny” Archibald
L’incredibile velocità e destrezza con cui Archibald schivava avversari e ostacoli sul campo era la stessa con cui crescendo compieva slalom speciali per stare lontano dalla droga e dalla violenza.
Patterson projects, South Bronx: uno dei posti peggiori in cui vivere, negli anni ’60.
Tiny a 14 anni è già una leggenda dei playground newyorkesi, ma quando si tratta di basket organizzato sembra essere timido e impacciato. Inoltre, essendo meno di un metro e 80, i suoi allenatori liceali non vogliono perderci troppo tempo, finendo per tagliarlo. Per sua fortuna, due guru del basket di strada della Grande Mela come Floyd Layne e l’Harlem Globetrotter Pablo Robertson convincono la DeWitt Clinton High School a riprenderselo, e nel solo anno e mezzo disputato lascia tutti a bocca aperta, come faceva sul cemento.
Università di livello però non se ne fanno avanti, visti i pessimi voti scolastici, ma dopo un anno di community college riesce a sbarcare a Texas El Paso, dove per tre stagioni illumina la NCAA e riesce ad avvicinare il miraggio NBA.
Al primo giro nessuno si prende la briga di chiamarlo: per lui usano la seconda scelta del secondo giro i Cincinnati Royals, che presto diventeranno Kansas City Kings.
Alla guida della squadra c’è un certo Bob Cousy che decide di affidare ad Archibald le chiavi della squadra: non prima aver fatto una incredibile figura di palta al primo incontro ufficiale col ragazzo, scambiandolo per un fattorino dell’albergo di Memphis dove si erano dati appuntamento.
13 stagioni dopo, Tiny lascerà la Lega con un Titolo NBA, svariate presenze all’All-Star Game, essere riconosciuto come uno dei 50 più forti giocatori di sempre e il record di unico giocatore ad aver chiuso una stagione primo in punti e assist (34 ppg, 11 apg nel 1972-73).
18th Pick – Mirsad Türkcan
Mirsad Jahović nasce nel giugno ’76 a Novi Pazar, cittadina serba al confine col Kosovo prevalentemente abitata da famiglie musulmane. Tra queste la sua, composta di madre e padre medici e una sorella futura cantante pop di discreto successo nei Balcani.
Il giovane Mirsad invece mostra una predisposizione quasi genetica per la pallacanestro: a 14 anni viene notato dal Bosna di Sarajevo che lo mette sotto contratto. La guerra è però alle porte e nel 1992 la famiglia Jahović, con grande lungimiranza, si trasferisce a Istanbul, dove trova pace e nuovi passaporti, cambiando cognome in Turkcan.
Nel 1994 Mirsa inizia il suo percorso da professionista nelle file dell’Efes Pilsen, dove in meno di quattro anni diventa uno dei più interessanti prospetti europei: un istinto micidiale a rimbalzo, un’agilità straordinaria per i suoi 206 cm e una mano celestiale. Nessuno è sorpreso quando, al Draft del 1998, i Rockets decidono di usare per lui la 18° chiamata assoluta, facendo di Turckan il primo turco a entrare nella NBA.
“È un grande passo per me e per tutta la Turchia, sono molto orgoglioso dei miei progressi e spero di poter fare bene in America”.
Non esattamente.
Turckan viene ceduto subito, finendo sballottato tra Philadelphia e New York. Dopo sole 7 partite ai Knicks finisce a Milwaukee, dove troverà ancora meno spazio. Stazza, fondamentali impeccabili e agonismo: a Mirsad non mancherebbe nulla per ben figurare nella Lega, ma sono anni in cui c’è ancora una certa reticenza verso i giocatori europei.
Deluso per non aver ricevuto l’occasione che sentiva di meritare, Turckan decide di tornare in Europa già nel 2000, finendo per vincere tutto in Turchia – oltre a un titolo di MVP dell’Eurolega al CSKA nel 2002.
17th Pick – Doug Christie
Quando Christie viene scelto dai Supersonics al Draft del 1992 per lui, nato e cresciuto a Seattle, sembra l’inizio di una splendida favola.
Ma dopo qualche colloquio con la dirigenza, la favola si trasforma rapidamente in un incubo.
“Sono davvero triste e deluso, mi hanno fatto un’offerta ridicola che non posso accettare. Voglio giocare a basket sopra ogni cosa, ma non voglio essere preso per il culo. Se non vogliono darmi un contratto decente che mi scambino, così posso andare avanti con la mia vita”.
Quanto ridicola era questa offerta? Il giocatore scelto dopo Doug, Tracy Murray da UCLA, ha appena firmato un contratto da 725 mila dollari per la sua prima stagione NBA. Christie sente di valere almeno un milione, ma decide di scendere a 800 mila. Dopo numerose contrattazioni, tanta era la sua voglia di giocare per la franchigia di casa, pare che la sua richiesta sia scesa addirittura a mezzo milione, ma l’ultima offerta dei Sonics è di 300 mila, il massimo che possono offrire per non sfondare il salary cap.
A questo punto Christie minaccia di tornare a Pepperdine per un altro anno, per poi tornare eleggibile al Draft l’anno successivo: davanti a questo ultimatum, il presidente Bob Whitsitt è costretto a forzare una trade. Doug finisce ai Lakers, dove trascorrerà una sola deludente stagione, prima di iniziare il percorso che lo porterà ad anni entusiasmanti tra Toronto e Sacramento.
La sua lotta per un contratto “giusto” è stata presa ad esempio da molti negli anni successivi.
“Se non mi faccio valere adesso, all’inizio della mia carriera, sarà difficile ricevere un trattamento migliore negli anni a venire”.
16th Pick – Lucas Nogueira
“Lucas just won the Internet with that afro”.
Bill Simmons al commento direi che riassume perfettamente il sentimento di tutti.
In uno dei Draft più assurdi di sempre, con un numero enorme di giocatori scelti al primo giro finiti nel dimenticatoio – salvo un greco scelto alla 15 diventato MVP – tutto quello che è successo prima e succederà dopo la scelta di Nogueira viene oscurato dalla sua chioma incredibile.
Il momento in cui si appoggia il berretto dei Celtics sulla cima dei capelli è già storia nel momento stesso in cui avviene; il tutto reso ancor più esilarante dalla sublime pronuncia del suo nome da parte di Stern qualche istante prima. Nu-ga-rah, con quel tipico accento di Salvador De Bahia.
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