Anno domini 2023, tempo di malinconiche celebrazioni in casa Sixers.
In attesa di altre, future, agognate, chissà se mai possibili vittorie, la franchigia di Philadelphia ha festeggiato il quarantesimo anniversario dalla conquista dell’ultimo anello.
Era il 1983, un altro secolo, un altro sport. Quasi un’era geologica fa.
Ha festeggiato invitando le vecchie glorie a sfilare sul parquet. Non tutti c’erano, in particolare mancavano due pezzi da novanta. Due pilastri di quel trionfo. Uno, ahimé, non avrebbe proprio potuto, avendoci lasciato 8 anni fa. Moses Malone, il profeta. L’altro invece, come sua vecchia abitudine, non si è presentato. Andrew Toney, lo strangolatore.
Vecchie ruggini, insanabili ferite, rancori mai sopiti che tengono Toney lontano dai Sixers, da Philadelphia, dall’NBA. Un distacco – che speriamo possa prima o poi essere sanato – che ha portato una grande ombra di oblio su un giocatore che meriterebbe di essere ricordato come un grande tra i grandi. Anche se per breve tempo.
Un tempo così breve, in un’era così lontana, tanto che qualcuno si chiederà “ma chi era Andrew Toney?”.
Andrew Toney era, sportivamente parlando, uno cattivo. Quello forse il suo miglior pregio.
Cattiveria, coraggio, forza e scorza dura.
Magari non era l’assassino della definizione datagli da alcuni. Neppure così sinistro come lo Strangolatore di Boston, nomignolo con il quale sarebbe passato alla storia del basket.
Ma di paura ne metteva. Chiedete a Michael Cooper, oppure a Danny Ainge, non esattamente delle mammolette. Chiedete ai compagni di squadra, magari i malcapitati journeymen che dovevano contenerlo in allenamento. Andrew li mangiava vivi, li scaraventava fuori dalla palestra. Metaforicamente e non solo.
Charles Barkley, un altro osso duro, lo adorava. “Solo lui e Moses Malone erano in grado di portarmi in post”, ricorda Drew. Lui, una guardia di poco più di 1.90, ma con dei tronchi al posto delle cosce, spalle rotonde e quella che a Napoli chiamano cazzimma.
Anche Andrew era del Sud, di Birmingham, Alabama, sud degli Stati Uniti. Quello profondo. Alabama e Louisiana, dove avrebbe frequentato Louisiana-Lafayette, luoghi non facili – eufemismo – per un nero, ancora oggi. Immaginate nei “burning years” ’60 e ’70. Essere duri per avere – forse – una speranza di sopravvivenza. Tutto il resto, umiliazione.
Nei quattro anni di college Andrew emerse come scorer prolifico e affidabile e il suo nome cominciò a circolare tra gli scout. Meccanica di tiro non ortodossa, ma efficace, di chi ha imparato sui canestri attaccati ai portoni dei fienili. Ball-handling da play, capacità di occupare il pitturato da lungo e soprattutto la rara attitudine a segnare nei momenti decisivi. Il prototipo del clutch player.
Lo adocchiarono, tra gli altri, i Sixers del GM Pat Williams, che nel 1980 sceglievano alla 8. Fino all’ultimo temettero di perderlo, visto che i Nets avevano le due chiamate immediatamente precedenti. Le Retine pescarono altrove e l’opera di architettura in via di assemblaggio a Phila trovò in lui un pilastro fondamentale.
Nell’anno da rookie scalò a grandi falcate le gerarchie, per ritrovarsi, molto presto, in rotazione. Da lì a diventare il nemico pubblico numero uno dei rivali di Boston fu quasi un tutt’uno. Sul finire di stagione gliene piazzò prima 35, un antipasto, per poi realizzarne 26 e ancora 35, in Gara 1 e 2 delle ECF, nella tana del lupo, in casa Celtics. Il suo sforzo fu vano e i Sixers subirono una dolorosa rimonta.
La sua consacrazione da serial killer della post-season sarebbe arrivata nel 1982. Trascinatore dei suoi nelle prime due gare fuori casa, vide il vantaggio di 3-1 svanire ancora una volta per mano degli indomabili biancoverdi. Settima ancora al Garden. A sentir Toney, gli bastava incrociare anche solo gli inservienti della mitica arena di Beantown, per mandarlo in bestia. Per caricarlo quindi al punto giusto. Quella sera di fine maggio 1982 ne segnò 34, trascinando i suoi alle Finals. Peccato dall’altra parte, dell’oceano e della lune, ci fossero i Lakers e soprattutto ci fosse un certo Earvin Johnson, detto Magic.
L’anno dopo Andrew conquistò il quintetto, con quello i 20 punti di media e la sua prima partecipazione all’All-Star Game. La presenza di Moses e il suo Fo’ Fo’ Fo‘, la parola d’ordine per riportare i Sixers sul tetto del mondo. Andrew Toney, in prima fila nella cavalcata. Solo la presenza di compagni dal prestigio inarrivabile gli impedì di fregiarsi anche di riconoscimenti personali. Fu un trionfo, durò poco.
Nella stagione successiva e negli anni a venire qualcosa si incrinò all’interno della squadra, stessa cosa accadde ai piedi di Andrew. Fitte sempre più forti e insistenti lo costringevano a uscite penose. Provava a giocare col dolore, ma le prestazioni ne risentivano. Fratture da stress, malformazioni congenite. Difficile diagnosi. La medicina di allora non era in grado di dare risposte. All’interno della dirigenza Sixers crescevano dubbi e malumori.
Fu lo stesso proprietario, Harold Katz, a minare la fiducia nel rapporto giocatore-squadra. Secondo lui, Toney stava solo battendo cassa, forzando la mano per strappare un nuovo contratto. Circolarono voci su presunti abusi di stupefacenti – cosa invero non rara, all’epoca – venne sottoposto a test antidoping, la polveriera esplose. A cinque anni dal suo approdo in NBA a due dal titolo, la carriera di Toney cominciò a deragliare. Alla fine dell’ottavo anno, al compimento dei 30 anni, giunse ad un binario morto.
Il veleno, sparso sulla coda della relazione con quella che fu la squadra che arrivò all’anello anche grazie a lui, non venne più riassorbito. Andrew uscì dal giro per chiudersi in se stesso. Si rifugiò in Georgia, dove per alcuni anni insegnò in una scuola elementare.
Nessuna rimpatriata di vecchie glorie, nessun contatto col mondo del basket, nessun riconoscimento alla carriera. Poi il ghiaccio sembrò sciogliersi. Discrete apparizioni in tribuna ed esplosioni di giubilo all’annuncio del suo nome al Wells Fargo Center. Lui, però, rimase ancora ufficialmente contumace. “Ma tornerò”, fece sapere.
Nel frattempo, il grande Moses e il pirotecnico Darryl ci hanno lasciati, oltre a Doctor J, anche Maurice Cheeks e Bobby Jones, sono giustamente entrati nella Hall of Fame.
Lassù dove sventolano le maglie ritirate c’è molto affollamento, ma pure un grande vuoto. Quello non ancora riempito dalla 22 di Andrew Toney.
Un duro, uno sportivamente cattivo. Una pietra miliare della storia dei Sixers. Un giocatore ingiustamente dimenticato e invece degno di essere annoverato come un grande tra i grandi.