Tra luce ed oscurità. Le due facce della medaglia di una delle più discusse ed elettrizzanti guardie della NBA degli anni ’90.

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“Non si riusciva a distinguere cosa fosse: era come una grande ombra, nel mezzo della quale si trovava una forma scura di dimensioni umane, o anche più grossa; potere e terrore parevano sprigionarsi da essa e precederla […] con un ruggito le fiamme s’innalzarono in segno di saluto, intrecciandosi intorno a lui; un fumo nero turbinò nell’aria. La criniera svolazzante dell’oscura forma prese fuoco, avvampando […] era al tempo stesso ombra e fiamma, forte e terribile”.

Con queste parole J.R.R. Tolkien ne’ “Il Signore degli Anelli” descrive il Balrog di Morgoth, un demone del mondo antico.

Antico come ormai può sembrare oggi il basket NBA degli anni ’90.


Un’immagine che in maniera eccezionalmente evocativa può raffigurare e riassumere cosa sia stato Latrell Sprewell nella Lega dal 1992 al 2005.

L’ombra di una personalità al limite – in alcuni casi decisamente oltre il limite – amalgamata ad un talento, un’energia, un basket totale che, per chi lo ha visto calcare i parquet americani, non può che richiamare il fuoco sprigionato da un lanciafiamme. Fiamme alternate, non continue, ma comunque letali.

Una pantera nera di 196 cm per 90 kg, Latrell Fontain Spreweell nasce a Milwaukee l’8 settembre 1970.

È un’infanzia dura la sua, la madre picchiata dal marito prima, poi anche dal suo secondo compagno.

Latrell è introverso, e conosce il basket solo grazie ai playground della fredda Milwaukee. Poi, prima a Washington High School, in seguito al Three Rivers Community College e infine a University of Alabama, la pantera sboccia anche nel basket “organizzato”.

Dopo due ottime stagioni in Alabama al fianco di Robert Horry, nel 1992 Spree approda con il suo Fuoco nella baia di San Francisco, alla corte di Don Nelson, i cui Warriors erano guidati dall’inventore del crossover come lo conosciamo ora, Timmy Hardaway.

Latrell porta con sé in dote contropiedi fulminanti, jump shot dalla media, triple e una difesa asfissiante che solo The Glove Gary Payton poteva pareggiare in termini di intensità e pressione sulla palla; ma – più in generale – un fuoco agonistico senza pari.

E il fatto che quest’ultima caratteristica di Spree salti all’occhio, in una Lega popolata da agonisti come Michael Jordan, Dennis Rodman, Alonzo Mourning, Larry Johnson, Reggie Miller e i Bad Boys di Detroit, è già di per sé qualcosa di sorprendente.

Ma al Draft del 1992, i Golden State Warriors portano a casa con la 24 (!) il pacchetto Sprewell all inclusive e, insieme al Fuoco, anche l’Ombra della pantera di Milwaukee.

OMBRA: IL “MOSTRO” DI MILWAUKEE

Tra il 1992 e il 1997 Latrell non scende mai sotto i 18.9 punti di media, con un career high di 24.2 punti e 6.3 assist nella stagione ’96-’97. Cifre che, sommate a tre convocazioni all’All-Star Game, gettano una luce limpida sul suo futuro nella Lega.

Luce, a dire il vero, offuscata da alcuni episodi umbratili.

Un sucker-punch stile pugile anni ’40 alle spalle del compagno Byron Houston.

Una rissa con Jerome Kersey che, se per alcuni vede Jerome suonarle a Spree – salvo poi il ritorno di quest’ultimo con una chiave inglese minacciando di uccidere il compagno – per altri dipinge Kersey rintanato in spogliatoio, mentre Spree se ne va promettendo di tornare con il suo “ferro” per sistemarlo. Pistola o chiave inglese?

Oltre che litigi con Hardaway e, da ultimo, un esaurimento nervoso provocato al placido e pacifico B.J. Armstrong, che chiede alla direzione dei Warriors di essere ceduto.

Fino al 1° dicembre del 1997.

Sessione di tiro al campo dei Warriors.

PJ Carlesimo, coach dall’atteggiamento aggressivo e dai modi spesso offensivi ed umilianti nei confronti dei propri giocatori, osserva Latrell dalla linea di fondo campo.

Non passa il pallone come dovrebbe. Svogliato. Superficiale. Poco intenso.

È questo che pensa PJ. Lo richiama ad alta voce.

Spree lo ignora, Spree sa come si passa un pallone.

PJ però non è abituato a essere ignorato dai propri “ragazzi”. Non gli interessa che le personalità dei giocatori NBA abbiano quella dose di ego e sicurezza che gli studenti della Seton Hall non avevano. Ego e sicurezza da approcciare con cautela.

Ego, sicurezza e Ombra.

Del resto PJ ha preso il posto di Don Nelson, che si era fatto cacciare a causa di attriti con i giocatori, tra cui Chris Webber.

I giocatori non li subisce: lui li affronta a muso duro.

Attraversa il campo.

Inizia a gridare a Spree. Lo insulta. Faccia a faccia. Lo insulta ancora.

Il Balrog avvampa, l’Ombra prende il controllo.

Le mani scure stringono il collo bianco. Stringono. Sono abbastanza grandi da chiudere completamente la presa intorno al collo del piccolo italo americano.

Gli occhi brillano sgranati. 5 secondi, 10 secondi, 15 secondi. I compagni continuano a tirare.

Carlesimo annaspa… bei tempi quelli di Seton Hall.

L’Ombra all’improvviso svanisce. Il Balrog si avvia verso lo spogliatoio.

PJ sotto shock inizia a riprendersi e a razionalizzare… bang!

Il Balrog è tornato e gli ha piantato un destro in pieno volto.

A quel punto i giocatori intervengono e l’Ombra se ne va per davvero. A bordo di una Lamborghini Diablo nera.

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L’“incidente” con Carlesimo arriva in un periodo storico in cui la Lega sta registrando diversi episodi di violenza e insubordinazione.

L’anno prima Dennis Rodman era stato sospeso e multato per aver preso a calci un cameraman a bordo campo e Charles Barkley era stato da poco coinvolto in una discussione con un giornalista avvenuta in un bar di Orlando. Discussione che alcuni testimoni riportarono essere terminata con il giornalista lanciato in una vetrina.

Era giunto il momento per il Commissioner David Stern di dare un segnale forte.

L’opinione pubblica e la morale americana – che non dimentichiamo essere intrinsecamente pregne di ipocrisia, senso di colpa e finger pointing di radice Quacchera (avete mai letto la Lettera Scarlatta di Hawthorne?) – lo richiedono a gran voce.

Del resto Dennis Rodman ha Phil Jackson e Michael Jordan come guardiani e garanti, e Charles Barkley è un MVP, oltre che un buon diplomatico nelle relazioni con l’NBA e i media (vetrine a parte).

Latrell non ha nulla di tutto ciò.

“Face it, Latrell Sprewell is a bad guy. He hates everyone”. Così alcuni giornalisti dell’epoca inquadravano la questione.

Latrell è cattivo, odia tutti.

La conseguenza è una sospensione per un anno e la risoluzione del contratto da parte dei Golden State Warriors per i rimanenti 24 dei 32 milioni previsti.

E qui ha inizio il gioco dei colori: bianco, nero o verde?

Latrell ingaggia l’avvocato Johnnie Cochran, famoso per aver assistito O.J. Simpson nel processo più famoso d’America, durante il quale fondò le proprie tesi difensive integralmente sulla discriminazione razziale.

Una vicenda dunque di bianco o nero?

Alcuni compagni ed ex compagni di squadra si schierano con Latrell, presenziando alla conferenza stampa del giocatore insieme a Cochran.

Durante la conferenza stampa, Sprewell composto e posato si scusa per i propri gesti, sottolineando tuttavia come la propria carriera non possa essere compromessa per un singolo errore senza aver nemmeno ricevuto dalla NBA la facoltà di esprimere la propria versione dei fatti.

Anche l’Associazione giocatori prende posizione sul tema, supportando Latrell sul tema contrattuale: Patrick Ewing, l’allora Presidente, spiega:

“Alcune persone ritengono che Sprewell abbia oltrepassato il limite con le sue azioni. L’Associazione giocatori ritiene che anche la NBA e i Golden State Warriors l’abbiano fatto”.

Si vocifera persino di un piano dei giocatori per boicottare la Lega, spintasi troppo oltre nelle sanzioni nei confronti di Sprewell. Piano che sembra implicare la deliberata assenza dall’All Star Game e dagli appuntamenti della nazionale USA.

La condotta deprecabile del giocatore non sembra essere oggetto di discussione. Lo è però la risoluzione contrattuale. Una vicenda dai contorni giuslavoristici dunque. Del colore verde del dollaro.

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Povero David Stern: da un lato i Quaccheri, da un altro i soldi dei giocatori, da un altro ancora – ma forse più pretestuosa e paventata che non realmente fondata e sostenuta – la questione razziale.

Proprio Charles Barkley, in un’intervista al programma Crossfire della CNN, si esprime diffusamente – e in maniera piuttosto equilibristica – sull’episodio, rassicurando (o forse no) che non ci sarà alcun boicottaggio da parte dei giocatori, in quanto la condotta di Latrell è stata inaccettabile; oltre che il peggior avvenimento sportivo a cui abbia assistito sino ad allora.

Sir Charles non è nemmeno d’accordo sul fatto che alcuni compagni di squadra di Latrell abbiano spalleggiato quest’ultimo durante la conferenza stampa, quasi a giustificare lo “strangolamento”, né sul presunto tentativo da parte di Sprewell di volerne fare una questione di colore della pelle, come l’ingaggio di Cochran sembrava suggerire.

Tuttavia il buon Charles sottolinea la preoccupazione dei giocatori della Lega per come “il giudizio discrezionale delle franchigie su individui sgraditi per fatti commessi fuori dal campo possa rendere inefficace un contratto”.

Non possono prendere i suoi soldi” – prosegue Barkley – “faremo in modo che lui abbia indietro i suoi soldi. Sappiamo bene che ciò che ha fatto Latrell è sbagliato, ma la Lega è andata oltre”.

Risultato, il 4 marzo 1998 l’arbitro (nell’accezione giuridica del termine) John Feerick, investito del compito di valutare e dirimere la vertenza contrattuale, dichiara invalida la risoluzione contrattuale da parte dei Golden State Warriors e riduce la sospensione di 5 mesi.

L’aggressione a Carlesimo costò a Latrell 6,4 milioni di dollari. Ma il contratto prevedeva altri due anni per 17,3 milioni. Trade.

FUOCO: NEW YORK, PARADISE LOST

“Lunga ed impervia è la strada che dall’inferno si snoda verso la luce”.

Morgan Freeman, nei panni del detective Somerset dell’acclamato thriller “Seven”, cita così John Milton e il suo Paradise Lost.

Nella stagione 1998 il nostro anti eroe da Milwaukee comincia dunque la sua tortuosa ascesa verso la luce. Lo fa dove le luci sono più scintillanti e le ombre più scure: New York City. Chi meglio di un giocatore talentuoso e incazzato nero poteva rappresentare la franchigia di una città come New York? Un ambiente sempre critico, incazzato.

Spree approda a NY durante il primo lockout della storia della NBA, avendo saltato 68 partite – durante la squalifica per lo strangolamento 3 mesi li passò ai domiciliari per avere causato un incidente stradale i cui dettagli rimasero abbastanza oscuri.

Mentre gli altri giocatori iniziavano una stagione da 50 partite dopo uno stop di 10 mesi, Sprewell era fermo da 15, prima dei quali viaggiava a 21.4 punti ad allacciata di scarpe, 4.9 assist e una difesa da primo quintetto difensivo.

Il management dei Knicks e l’allenatore Jeff Van Gundy riponevano però fiducia in Latrell, dal quale avevano ricevuto le giuste rassicurazioni sul suo comportamento (l’aspetto cestistico non era mai stato un tema in discussione). Il capo ultras dei Knicks Spike Lee lo adotta subito, investendolo fin dalla prima partita del ruolo di nuova bandiera della squadra. Indossando la canotta numero 8 ad ogni apparizione al Madison Square Garden.

Anche fuori dal campo riceve una sorta di assoluzione firmando con il brand And 1 un contratto come testimonial. In uno dei suoi primi spot Spree recita:

“Dicono che sono il peggior incubo dello sport americano. Ho fatto 3 volte l’All Star Game: io sono il sogno americano che diventa realtà”.

Del resto un tipino minuto con l’acconciatura a treccine come Latrell, che giocava a Philadelphia con il 3 e arrivava da Georgetown, aveva dichiarato con decisione che se avesse potuto scegliere il “gioco” di qualcun altro, non avrebbe di certo scelto quello di Michael Jordan, bensì quello di Latrell Sprewell.

Amen.

Qualche anno dopo, in un’intervista Latrell spiegava così il proprio inserimento ai Knicks:

“Penso che per me sia stato facile. Sono una persona totalmente diversa fuori dal campo. Ma quando si accendono le luci sul parquet io entro in una zona differente. Entro in modalità attacco. Il mio unico obiettivo è vincere e fare ciò che serve ad aiutare la squadra a farlo. Quando le luci si accendono, è ora di giocare”.

A dir la verità, l’inserimento non fu poi così indolore. Complice anche un infortunio al tallone, Latrell parte infatti come sesto uomo – scelta tecnica non graditissima – guidando la second unit energetica di New York in coppia con un giovane Marcus Camby.

Il quintetto vede Charlie Ward – “il Predicatore” – in cabina di regia, nel backcourt Allan Houston – miglior guardia tiratrice pura dell’NBA di allora – e Larry Johnson, Ewing e Thomas come lunghi.

Spree regala prestazioni altalenanti durante l’inizio di stagione, cercando di trovare i propri spazi in una squadra ben congegnata, con un’anima difensiva che tenta – faticosamente – di spostare la trazione da anteriore a posteriore senza scontentare il vecchio totem Ewing (già, proprio il Presidente dell’associazione giocatori).

“Solo il pensiero che i Knicks potessero essere ancora in campo a metà giugno era nient’altro che uno scherzo per tutti quelli che non vivevano a New York. Erano una delle più deludenti e altalenanti squadre della Lega, e peraltro correvano il rischio di saltare i Playoffs per la prima volta dal 1987”.

Così il Los Angeles Times avrebbe in seguito commentato quello che avvenne verso la fine della corta stagione regolare 1999.

I Knicks vincono 6 delle ultime 8 partite di stagione regolare e nei Playoffs ribaltano il fattore campo per ben 3 volte: contro Miami – capitanata da un certo Tim Hardaway – Atalanta e Indiana, diventando così la prima squadra a raggiungere la Finale partendo dall’ultimo posto della griglia.

Il Nostro contro Indiana segna 17,6 a partita di cui 29 in Gara 5, per un sofferto 4-2 Kinicks finale.

Nel cappotto rifilato ad Atlanta – seconda all’Est dietro Indiana – nella finale di Conference si esprime al suo meglio.

Il Fuoco brucia e New York gioca il suo miglior basket sia offensivo che difensivo.

Il Balrog mostra la via, illuminando il campo con 31 punti in 33 minuti di impego in Gara 1, 31 in 38 in Gara 2, spaccando il campo con contropiedi devastanti e un’efficacia ben fotografata dal 50% da 2 e dal 80% dalla lunetta.

Purtroppo in finale i Knicks trovano la San Antonio del favoloso Tim Duncan. Una squadra lunga e compatta, ben allenata, con ottimi difensori sugli esterni e le Twin Towers sotto canestro. Troppo anche per la più ruvida e coraggiosa Cinderella del basket americano.

4-1 Spurs, con la certezza però che i Knicks siano stati la più degna avversaria di San Antonio in tutti i Playoffs.

Sprewell è il migliore dei suoi, incontenibile. 26 punti di media con 6.6 rimbalzi e una Gara 5 in cui il suo Fuoco, quel titolo agli Spurs, non lo vuole proprio lasciare: 35 punti di cui 14 consecutivi tra terzo e quarto periodo, 10 rimbalzi e una schiacciata su Jaren Jackson che fa esplodere il Madison. E avrebbe tramortito un elefante.

Ma l’eroica cavalcata dei Knicks nel 1999 viene riassunta da Latrell con un caustico “all for nothing”. Paradiso Perduto.

EPILOGO – RITORNO NELL’OMBRA

Purtroppo la nostra, al pari di “Seven” di David Fincher, non è una storia a lieto fine.

New York nelle stagioni successive fece di Spree l’uomo franchigia, offrendogli – con la disapprovazione di David Stern – un quinquennale da 61,9 milioni di dollari, ma la squadra non ottenne i risultati sperati.

Nel 2003 venne ceduto ai Minnesota Timberwolves di Kevin Garnett e Sam Cassell, dove contribuì a far disputare ai Lupi la loro miglior stagione e raggiungere la loro prima finale di Conference.

Nell’ottobre del 2004 la franchigia di Minneapolis offrì a Latrell un’estensione contrattuale per 3 anni a 21 milioni di dollari, offerta che però non lo lasciò per nulla soddisfatto: 7 milioni all’anno erano pochi per uno come lui, che aveva “una famiglia da sfamare”.

Spree, unico, bipolare, maldestro, genuino Spree.

The end: Latrell lasciò l’NBA per non farvi più ritorno.

Lasciò una NBA che lo aveva sì accolto, ma anche repentinamente etichettato per le treccine e per gli atteggiamenti da bad boy; che lo aveva subito crocifisso per l’Ombra.

Certo, una NBA che lo aveva senza dubbio pagato profumatamente per il suo Fuoco, ma sempre storcendo un po’ il naso, senza mai riconoscere o comprendere fino in fondo anche quelle doti umane e di etica del lavoro sul parquet che alcuni come Bimbo Coles, Robert Horry, Marcus Camby, Allan Houston e Jeff Van Gundy hanno saputo apprezzare e testimoniare negli anni.

Se si rimane soli nell’ombra, il rischio è di perdersi.

Finito tra i sospettati in un’aggressione sessuale nel 2006, riconosciuto dallo Stato del Wisconsin come il più famoso e importante evasore fiscale in circolazione nel 2011, Spree è stato arrestato il 1° dell’anno del 2013 per disturbo della quiete pubblica.

Era solo in casa con la musica a tutto volume. Solo insieme alla sua Ombra.

L’ultimo saluto da Spree ci arriva un paio di anni fa dal piccolo schermo con un’amara apparizione in una pubblicità per Priceline.com in cui fa dell’autoironia, dando “consigli” disillusi a una bimbetta in tema di scelte di vita e di approccio positivo.

Ma ormai più che di fuoco si trattava – purtroppo – solo di un lume di candela.