Le tappe fondamentali della straordinaria carriera di Robert Horry: clutch player per eccellenza, sempre al posto giusto al momento giusto e autore di alcuni dei canestri più emblematici della storia della NBA.

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Potete leggere la parte 1 di questo pezzo dedicato a Robert Horry cliccando QUI


Quale modo migliore per riprendersi dal “Towelgate” se non sbarcare a Los Angeles, in una squadra futuribile, vibrante e con tanta attenzione su di sé.

Horry diventa una pedina centrale di quei Lakers, costruiti sul triumvirato O’Neal/Van Exel/Eddie Jones, con un 18enne appena diplomato di nome Kobe Bryant che comincia a prendere le misure col basket professionistico.

I gialloviola chiudono bene la stagione, con un 56-26 che è il quarto miglior record ad Ovest, e Robert contribuisce con buoni numeri alla causa. Ai Playoffs, però, sulla strada degli uomini di Del Harris arrivano degli Utah Jazz in missione, che strapazzano i meno esperti californiani in 5 partite, l’ultima delle quali passata alla storia per i quattro airball consecutivi di Kobe Bryant tra ultimo quarto e overtime. In estate, la dirigenza gli offre un importante prolungamento: sette anni a 35 milioni di dollari, un accordo a lungo termine che soddisfa tanto Robert quanto la franchigia, che sente di aver bisogno di giocatori abituati a vincere da affiancare alla coppia di emergenti campioncini. Quella che segue è un’altra stagione fantastica per i gialloviola, che chiudono 61-21, mandano quattro giocatori all’All Star Game, e volano spediti verso la post-season. Trovandosi di fronte nuovamente ai Jazz.


C’è grande voglia di rivincita, forse troppa, e Utah si dimostra ancora più pronta e fredda dell’anno precedente, col solo ossessivo obiettivo del rematch con i Bulls di Jordan.

Risultato: uno sweep mortifero. Horry, incaricato di limitare Malone, finisce per subire la più severa punizione della carriera – il Postino chiuderà la serie a 30 di media e oltre il 50% dal campo.

Nell’anno del lockout, Bob perde il posto da titolare, diventando definitivamente un role player pronto a entrare dalla panchina per mettere qualche tiro e cercare di aumentare l’intensità collettiva della squadra. È una stagione travagliata, con coach Del Harris che viene sostituito dai suoi assistenti Bill Bertka prima e Kurt Rambis poi, ma nonostante tutto il record finale è ottimo. Ancora una volta però, i Playoffs sono una doccia fredda: i futuri campioni degli Spurs sono più solidi e organizzati e banchettano sui gialloviola in 4 partite, al secondo turno.

Arrivare in fondo comincia a diventare una chimera.

Ma il sogno di tornare in cima al mondo è troppo grande per la famiglia Buss, e in estate arrivano cambiamenti importanti, uno su tutti: Phil Jackson rientra dalla pensione anticipata, prendendo posto sulla panchina – trono – dei Lakers, in una nuova casa, lo Staples Center.

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“Ha cambiato faccia alla squadra con la sua sola presenza. Il suo lavoro con Jordan, come era riuscito a gestire lui e i Bulls, gli avevano fatto guadagnare molto rispetto agli occhi dei giocatori. I 6 titoli vinti a Chicago furono la spinta per uno come Shaq ad andare in palestra e lavorare il triplo, diventando il giocatore più dominante della Lega”.

L’aggiunta di alcuni veterani – il fedelissimo Ron Harper, Brian Shaw e il ritorno di A.C. Green – e la motivazione extra data dal maestro Zen, fruttano una stagione da MVP per Shaq – 30 punti e quasi 14 rimbalzi a uscita – e una crescita esponenziale per Kobe, che migliora tutte le sue statistiche e viene premiato col First Team All Defense.

“Kobe era incredibile, non si fermava mai, Bastava dirgli << Scommetto che non riesci a segnare 5 canestri di fila da metà campo >> che quel figlio di puttana si allenava finché non ci riusciva. Questo è quello che la gente non capisce quando parla di campioni e mentalità vincente: l’impegno e la dedizione di Kobe per il gioco era irreale”.

L.A. si presenta ai Playoffs col miglior record della Lega, e dopo aver superato i Kings al primo turno, non senza difficoltà, e aver strapazzato i Suns al secondo turno, affrontano i Portland Trail Blazers in finale di Conference.

Sotto clamorosamente 3-1, riesce a capovolgere la serie vincendola in Gara 7, per poi assicurarsi il titolo in una finale già scritta contro gli Indiana Pacers.

Gara 4 alla Conseco Fieldhouse è il crocevia della questione: con Shaq fuori per falli e un Kobe acciaccato alla caviglia, Horry segna 17 fondamentali punti in uscita dalla panchina, decisivi per portare la partita all’overtime, dove il Mamba dimentica i problemi fisici e per la prima volta dimostra tutte le sue strepitose potenzialità di leadership.

Appare evidente a tutti che non resterà un successo isolato e che le possibilità di costruire una dinastia sono solide. A livello personale, l’inizio della stagione 2000-2001 per Horry è molto difficile. La sua famiglia è costretta a vivere a Houston a causa delle condizioni di salute della piccola Ashlyn e Robert è costantemente tormentato dal pensiero di uscire dal contratto per tornare vicino ai suoi cari nel Texas. Dopo lunghe consultazioni con sua moglie, decide di restare a L.A., in una squadra devastante con la quale può togliersi ancora tante soddisfazioni. E che, nonostante l’enorme talento nel roster, ha assolutamente bisogno di lui.

I Playoffs 2001 dei gialloviola iniziano con un’impressionante – e senza precedenti – serie di vittorie: 3-0 ai Blazers al primo turno, 4-0 in semifinale contro Sacramento e 4-0 agli Spurs in finale di Conference.

Nelle Finals ci sono i Sixers e la musica, da subito, cambia. I Lakers perdono Gara 1 allo Staples, sconvolti da una leggendaria prestazione di Allen Iverson – R.I.P. Tyron Lue – e nonostante la rivincita nella seconda partita perdono il fattore campo.

Gara 3, a Philadelphia, è decisiva. A meno di un minuto dalla fine, l’equilibrio la fa da sovrano, con i Lakers sul +1; il First Union Center è una bolgia, accesa dalla tripla di Kevin Ollie che ha riportato le squadre a meno di un possesso di distacco. Nell’attacco decisivo la palla è tra le mani di Kobe, che viene raddoppiato: è costretto a scaricare il pallone su Brian Shaw, la rotazione dei Sixers lascia Horry solo nell’angolo. La palla inevitabilmente finisce tra le sue mani e Big Shot Bob ricorda a tutti il suo soprannome: non ha neanche un decimo di esitazione, la lascia andare.

“Sono le terze Finals in cui prendo questi tiri, non è una novità. Bisogna conoscere la situazione della partita, essere pazienti, e portare a termine la missione”. La serie finisce su quel tiro, i Lakers riprendono il controllo della faccenda e la chiudono in Gara 5: è repeat.

L’anno dopo, i Lakers sono ancora la squadra da battere, ma stavolta sembrano più battibili: il rapporto tra Shaq e Kobe comincia a scricchiolare e i risultati sono tangibili sul campo..

Ai Playoffs ci sono ancora i Blazers al primo turno, e nella decisiva Gara 3 Horry veste di nuovo i panni del supereroe.

Gialloviola sotto di 2 a meno di 5 secondi dalla fine, con Bryant che penetra ma è ben chiuso dal cosiddetto Kobe stopper, Ruben Patterson. Pippen, istintivamente, va per il raddoppio, lasciando però Horry nell’angolo. Bob è lì, pronto per ricevere e portare a termine la missione ancora una volta. Kobe gli scarica il pallone, tutta la panchina dei Blazers è a un centimetro dal suo orecchio. Ma davvero pensano di poterlo destabilizzare?

Al turno successivo ci sono gli Spurs e, dopo l’1-1 iniziale, Horry viene promosso in quintetto come ala forte. Fortuna? Caso? Fatto sta che i Lakers vincono le successive tre gare e tornano in finale di Conference contro i cugini del nord California, i Sacramento Kings.

Della serie delle serie si è già detto tutto, forse una delle più belle, discusse ed emozionanti della storia della NBA. Quel che succede in Gara 4, però, merita una sezione dedicata. È un film scritto, diretto e interpretato da Robert Horry. I Lakers, sotto 2-1, riescono a riprendere la partita pur essendo andati sotto anche di 24 punti nel primo tempo. A pochi secondi dalla fine hanno la palla per la vittoria.

Kobe sbaglia. Shaq sbaglia. Divac smanaccia.

Lo sapete dove finisce il pallone? Lo sapete cosa succede?

Ancora una volta Big Shot Bob salva la stagione, senza mezzi termini, chiudendo una sontuosa partita da 18 punti, 14 rimbalzi e 5 assist con uno dei canestri più iconici della storia della NBA.

Superato l’ostacolo Kings in sette partite, le Finals sono una formalità: sweep ai New Jersey Nets e terzo titolo consecutivo per i Lakers, con Horry che finisce i posti sulla mano per i suoi anelli.

L’idillio losangelino, però, si spegne l’anno dopo il threepeat.

“Per quanto fossimo dominanti negli anni del threepeat, ho sempre avuto la sensazione che potessimo vincere molto di più, non fosse stato per il compiacimento e gli eccessivi ego nel roster…”

La stagione 2002-03 è maledetta fin dall’inizio, con O’Neal costretto ad operarsi al piede e una squadra che risente tremendamente della sua assenza. In qualche modo si assesteranno, chiudendo col quinto posto ad Ovest. Arrivati al secondo turno dei Playoffs, sono pronti alla dura sfida con gli Spurs delle Twin Towers, alle quali ora si sono aggiunti Ginobili e Tony Parker. Nelle prime quattro partite il fattore campo viene rispettato e si arriva a Gara 5 sul 2-2, al SBC Center di San Antonio. Gli Spurs sprecano un vantaggio di 25 punti nel terzo quarto, permettendo ai Lakers di arrivare a 10 secondi dalla fine con in mano il pallone per guadagnarsi un match point in casa. Bryant è chiuso in angolo da Bowen, Shaq è seguito a vista da Duncan, ma Horry, incredibilmente, è solo dietro alla linea da tre punti, a pochi passi dal Mamba. Riceve il pallone, il disperato tentativo di close out di Parker non può intaccare il suo movimento.

Sputato dal ferro. I Lakers perdono la partita e due giorni dopo perderanno la serie, con una rovinosa sconfitta 110-82 allo Staples.

Quel tiro dentro-fuori segna la fine di un’era per i Lakers. In estate Kupchak e Jerry Buss puntano al folle sogno del superteam, aggiungendo al duo Kobe-Shaq, ben oltre i ferri corti, i due veterani hall of famer Payton e Malone, alla disperata ricerca di un titolo NBA. In tutto questo, sembra non esserci più spazio per Horry.

“Ho lasciato i Lakers con molto odio nei loro confronti, mi trattarono veramente male. Grandi abbracci e sorrisi davanti a me, ma alle mie spalle tramavano senza pietà. So che volevano Malone a tutti i costi, dissi alla dirigenza che mi sarei ridotto l’ingaggio ma non erano interessati. Sono solo affari, certo. Resta il fatto che l’addio a L.A. mi ha dato la motivazione per andare avanti. Si può dire che i Lakers mi abbiano fatto vincere 5 titoli: tre giocando con loro, due per come mi hanno fatto fuori”.

Big Shot Bob non è solo tiri memorabili e statistiche mediocri: la quantità di intangibles, la qualità della sua difesa e la sua leadership silenziosa non sono misurabili e vengono sottovalutate dai gialloviola.

Horry è quindi senza contratto; ma 72 giorni dopo quel tiro sbagliato contro gli Spurs, sono proprio i campioni in carica a offrirgli un pluriennale. Per Bob è la soluzione perfetta: una grande organizzazione, una squadra che punta a vincere e un netto avvicinamento alla famiglia – Houston e San Antonio distano solo 300 km. Il primo anno ai neroargento si chiude però nel modo più traumatico possibile: eliminati proprio dai Lakers, dopo il clamoroso buzzer beater di Derek Fisher – noto come 0.4 shot.

Se c’è una squadra in grado di riprendersi da queste delusioni, ora lo sappiamo, sono gli Spurs. Se c’è un giocatore cui gli alti e i bassi non fanno grande differenza, è proprio Robert Horry: si farà sempre e comunque trovare pronto, incurante del passato.

Nei Playoffs del 2005, San Antonio veleggia senza troppe difficoltà verso le Finals, dove incontra i campioni in carica dei Detroit Pistons, dando vita a una serie di rara bellezza e intensità. Sul 2-2, Gara 5 diventa la partita combattuta punto a punto che tutti i tifosi imparziali aspettavano: dodici cambi di leadership, diciotto volte appaiate in parità.

Fino alla fine del terzo quarto, Horry è ancora fermo a zero sul suo tabellino. Da lì comincia un clinic di tiro – 5/6 dalla lunga distanza – chiudendo la partita con 21 punti, tutti segnati tra ultimo quarto e supplementare: la tensione è altissima, diversi compagni faticano, ma non lui.

“Devi avere quella mentalità da << Quel che succede succede >>. Non si può controllare tutto, devi semplicemente dare il massimo. Molti in queste situazioni cominciano a pensare << Devo segnare, devo segnare! >> Io no: mi sono sempre detto << se va dentro bene, altrimenti pazienza >>”.

Dopo una clamorosa schiacciata di sinistro in faccia a Rip Hamilton, subendo fallo, arriva l’ennesimo momento memorabile della sua carriera.95-93 Pistons, 9 secondi alla fine. Rimessa di Bob nelle mani di Ginobili, chiuso in angolo da Tayshaun Prince. Wallace, incaricato di ostacolare la rimessa, va per il raddoppio sull’argentino. Così Horry è di nuovo pronto a ricevere, nella stessa identica posizione di due anni prima con la maglia Lakers, quando il pallone uscì.

Stavolta non esce. Ancora una volta, sembra venuto al mondo esclusivamente per momenti come questo. L’eroico canestro di Horry dà la spinta necessaria agli Spurs per vincere poi in 7 partite, facendo conquistare a Bob il sesto titolo in carriera, al pari di Jordan, Pippen, Abdul-Jabbar e Bob Cousy: non proprio gente qualunque.

Ne arriverà un altro, di titolo; nel 2007, facendolo diventare l’unico giocatore della storia, non membro degli storici Celtics degli anni ’60, ad avere 7 o più titoli nel suo palmares.

Il suo zampino c’è anche in quest’ultima cavalcata trionfale degli Speroni, stavolta non con un tiro, ma con una “giocata” che porterà i suoi detrattori a soprannominarlo Cheap Shot Bob, “Bob colpo basso”.

Gara 4 del secondo turno di Playoffs contro i Phoenix Suns. Sotto di tre nell’ultimo minuto di partita, Horry ferma Nash partito in contropiede con una dura spallata, chiaramente intenzionale, che fa finire il canadese contro il tavolo. Steve ne esce illeso, ma Boris Diaw e Amar’e Stoudemire, due giocatori vitali per quei Suns, lasciano la panchina per andare a vendicare il loro leader.

Risultato: verranno sospesi dalla Lega, una partita a testa, permettendo agli Spurs di vincere agevolmente la gara successiva e chiudere la serie in Gara 6 davanti al proprio pubblico.

Questo era Robert Horry.

Un giocatore pronto a tutto per vincere, sceso in campo ogni singola gara con il solo obiettivo di fare il bene della propria squadra, non avere rimpianti alla sirena finale, farsi sempre trovare pronto e cercare di fare la cosa giusta. Il resto è nella mani del destino.

“Phil Jackson ci aveva fatto un piccolo test: scegliere tre parole con cui avremmo voluto essere ricordati a fine carriera. Io voglio che siano << He had fun >>. Voglio che si ricordi che non ho mai giocato una partita senza sorridere, perché mi sono divertito, mi sono goduto ogni singolo momento sul campo”.

Horry ci perdonerà, ma le tre parole con cui lo ricorderemo noi sono “Big Shot Bob”. E non potrebbe essere altrimenti. La sua è stata una carriera affascinante, trovando il suo posto nella Lega come role player, spesso estraneo al gioco, senza grandi numeri, ma il cui nome ritorna sempre nella NBA degli anni ’90 e nel primo decennio del XXI secolo. Una sorta di Forrest Gump sui generis: sempre al posto giusto al momento giusto; ma che a differenza abissale rispetto al personaggio interpretato da Tom Hanks non è mai parso lì per caso. Ha sempre avuto uno scopo ben preciso, una missione da portare a termine scritta nel suo DNA. Uno dei giocatori più amati dai tifosi delle proprie squadre e tra i più odiati dagli avversari, un atleta che di sicuro mai ha prodotto indifferenza. Se non è un segno di grandezza questo…