Il 31 dicembre del 2001, Michael Jordan riuscì per una partita a fermare il flusso del tempo. Una storia adatta a questi giorni di riflessione sul futuro a cui ci approcciamo
Le Festività, si sa, hanno un ruolo che va ben oltre la ricorrenza che si intende – o non si intende – celebrare formalmente. Tra le più cariche di significato intrinseco, almeno secondo l’opinione di chi vi parla, il Capodanno occupa da sempre in questo senso un ruolo fondamentale.
Una notte di festeggiamenti, anche esagerati, per riflettere – o evitare di farlo, in molti casi – su temi centrali per la vita di ognuno come il tempo che passa, il futuro, il passato, le scelte da compiere e quelle ormai immodificabili. Al di là di dissertazioni filosofiche ben lontane dal tema profano di cui tentiamo di occuparci in questo spazio, comunque, il Capodanno è indubbiamente uno dei rituali laici che scandiscono le nostre vite, mostrandoci da sempre, in un modo forse crudo, come il tempo sia inesorabile e avanzi con una cadenza tanto regolare quanto ineluttabile.
Anche nel mondo NBA, d’altronde, gli esempi non mancano: giocatori fino a pochi mesi prima celestiali smettono di essere competitivi, squadre senza alcuna storia recente di successo salgono agli onori delle cronache ed altre dalla grande tradizione rimangono per lunghissimo tempo a bocca asciutta, segnando un cambiamento dei tempi tanto doloroso quanto evidente.
In alcune condizioni particolari, tuttavia, ci sono serate che possono far dimenticare allo spettatore i passaggi della propria vita sportiva e non, riportando indietro momentaneamente la lancetta e creando un cortocircuito nel sistema, un bug, simile a quello eventuale che tanto preoccupava all’inizio del Millennio.
Tra le storie di questo genere, quella con protagonista Michael Jordan nella notte di San Silvestro del 2001 occupa certamente una posizione di rilievo.
Vigilia: rientro e grandi prestazioni
Il 31 dicembre 2001 Michael Jordan era un giocatore NBA da pochi mesi. Dopo il sesto Titolo, ottenuto tre anni prima in quel di Salt Lake City, MJ si era infatti goduto il secondo ritiro e tre anni di riposo, prima di scegliere di rientrare sul parquet con la canotta dei Washington Wizards, franchigia di cui era President of Basketball Operations dal gennaio dell’anno precedente. Tra i suoi ultimi atti da dirigente, due decisioni che avevano fatto decisamente discutere, nonostante lo status del presidentissimo: la scelta di Kwame Brown con la prima chiamata assoluta al Draft (ancora oggi nel GOAT debate delle selezioni più tragiche della storia) e l’assunzione del suo ex-mentore Doug Collins come allenatore nell’estate del 2001, poche settimane prima di annunciare il rientro come giocatore.
Nonostante le controversie, comunque, MJ è da subito una delle attrazioni-simbolo della capitale. Il mastodontico MCI Center fa immediatamente registrare un boom di presenze, chiudendo l’annata al secondo posto per pubblico pagante, mentre il sindaco Anthony Williams sguinzaglia lacchè e portavoce per tessere le lodi del nuovo totem.
Anche la squadra, nonostante gli acciacchi, sembra vivere un periodo di parziale ma significativo miglioramento. Arrivati alla fine di novembre con un poco esaltante 5-10, l’ultimo mese dell’anno è segnato da una streak di nove vittorie consecutive.
La produzione di MJ, nonostante il miglioramento dei risultati di squadra dovuto a comprimari rivelatisi di buon livello come un giovanissimo Richard “Rip” Hamilton, non sembra stabilizzarsi. Il prodotto di UNC, infatti, alterna prestazioni di medio-alto livello a partite dove non sembra presentarsi nemmeno l’ombra del dominatore della NBA dei due decenni precedenti. Il punto più basso si tocca proprio in quel dicembre 2001 al centro del nostro racconto.
Dopo le nove vittorie, i Wizards di Doug Collins sono attesi nei giorni immediatamente successivi a Natale da un back-to-back di trasferte decisamente complesso. Il 26, infatti, Jordan accompagna i suoi nuovi compagni a “casa” propria, in una sfida contro degli Charlotte Hornets con chiare ambizioni da Playoffs, mentre il giorno successivo la carovana della Capitale si sposta ad Indianapolis, dove dei Pacers in netta flessione aspirano comunque a ricordare al mondo – che seguiva i Washington Jordans con una certa costanza – il motivo della partecipazione di due anni prima alle Finals.
Il mini-road trip è un’ecatombe cestistica. Se la prima partita viene persa di misura (99-93 con tutti i titolari degli Hornets in doppia cifra), nella seconda sfida coach Isiah Thomas – e chi se no – impartisce una lezione memorabile al suo rivale di sempre. 108-81, risultato comunque abbastanza eloquente, non basta a spiegare la nettezza del dominio della compagine di casa: Jordan chiude con 6 punti totali (in quel momento minimo in carriera) e -30 di plus/minus, certificando la disfatta.
Col senno di poi sarebbe ingeneroso giudicare la prestazione in back-to-back di un 38enne che al rientro chiuderà l’annata con 22 punti di media e raddoppiando le vittorie di squadra della stagione precedente, ma media del tempo ed opinione pubblica, molto meno diluite in positivo ed in negativo rispetto a quello a cui siamo abituati oggi, iniziano a massacrare il #23, suggerendo un terzo e definitivo ritiro.
La risposta non si fa attendere, e comincia già con la notte post-Indiana, come raccontato dal compagno dell’epoca Etan Thomas:
“Non so nemmeno se abbia dormito quella notte, è rimasto in palestra e si è allenato, era pronto per la gara successiva. Un giorno prima lo stavano distruggendo, dicevano fosse terribile, il giorno dopo, invece, è di nuovo Dio MJ.”
La Partita: il precedente e la continuità
Quale sia la partita dopo i 6 punti di Indianapolis lo sanno tutti gli appassionati di pallacanestro NBA. MJ gioca nuovamente contro quegli Hornets che lo avevano limitato pochi giorni prima chiudendo con 51 punti, 7 rimbalzi e 4 assist in 38 minuti di gioco. Un dominio impressionante, che fa rivivere le emozioni del prime di His Airness a spettatori, compagni ed avversari, lasciando un segno indelebile anche in un giovane Hornet come Baron Davis:
“Quella roba è pazzesca, sei lì seduto e guardi questo qua pensando ‘Cavolo, sta dominando’. Ti dimentichi persino di che squadra sei. Questo s****o è in campo e sta facendo di tutto. Il nostro coach ha chiamato timeout e ci ha detto che non potevamo lasciarlo ‘sull’isola’. Ho provato a marcarlo, ma Stace Augmon mi ha detto che era una di quelle serate per lui. Lo puoi sentire nell’aria, è magico. Se solo qualcuno ci avesse detto dei sei punti della partita prima, avevamo proprio bisogno di internet ai tempi.”
– Baron Davis
La partita, tuttavia, non suscita né gli effetti duraturi né quelli sperati. I commenti tendono sempre a definire quella sfida come un moto d’orgoglio, lo sforzo di un campione tramontato per mostrare ai critici l’eccezionalità della partita negativa precedente e la possibilità di cambiare il gioco anche ad età impensabili. Lo dimostra lo stesso Michael, particolarmente piccato nelle dichiarazioni post-match:
“Segnare sei punti, il minimo per me, sono quasi sicuro che voi pensaste solo a quanto sia vecchio. Stasera sono convinto di sentire qualcuno incominciare a dire che posso ancora giocare.”
– Michael Jordan
Per coincidenza di eventi, la partita che veramente porta indietro le lancette e permette per un anno di alienarsi dai propositi dell’anno che incomincia e dai residui di quello che termina è la gara successiva, perché la continuità delle due prestazioni ha permesso a tutti gli amanti di Jumpman di illudersi, almeno per un secondo, che alcuni aspetti della vita non debbano pere forza scorrere inesorabili.
La notte di San Silvestro sono in scena in un gremito MCI Center – oltre agli Wizards – i New Jersey Nets di Jason Kidd, Kenyon Martin e coach Byron Scott. Un gruppo fenomenale che, al termine di quella stagione, giocherà – e perderà – la prima di due Finali consecutive.
Differentemente da quanto successo nelle partite precedenti, quindi, il palcoscenico sembra essere quello delle grandissime occasioni, con tutto il paese desideroso di vedere se quella della partita precedente fosse solo una casualità oppure se si trattasse di un “rientro nel rientro”. Lo stesso Jason Kidd, leader tecnico degli avversari di serata, aveva rilasciato prima della partita dichiarazioni contraddittorie.
“Che ne abbia appena segnati 51 è sia un bene che un male. Si è tolto una prestazione del genere dal sistema, ma sappiamo anche che è capace di tornare e rifarlo.”
– Jason Kidd
Come marcatore di MJ – che nell’esperienza wizardsiana gioca quasi unicamente da ala piccola – coach Scotto ha scelto il sophomore Kenyon Martin, con Richard Jefferson come backup. Due difensori aggressivi sulla palla, in pieno stile NBA a basso punteggio dei primi anni 2000, e con la giusta dose di arroganza per non soffrire di timori reverenziali.
La scelta inizialmente funziona. MJ, come ovvio, viene cercato ripetutamente dai compagni, ma è Martin a segnare il primo canestro della partita con una gran schiacciata su assist di Kittles, per poi portare la sfida sul 4-2 (il canestro di Washington è ovviamente a firma Micheal), con un gancio da circa due metri dopo aver giocato il possesso in post basso.
Con il passare dei minuti, tuttavia, la situazione si ribalta. Martin ha in quei giorni qualche problemino alla schiena dovuto con ogni probabilità al sovraffaticamento dello stressante periodo natalizio per le squadre di vertice. Non pago, ha avuto la non ottimale idea di rendere noto questo problema al suo diretto avversario, che comincia a cercare sempre più spesso il contatto spalle a canestro sia in attacco che in difesa.
A 7:21 dalla fine del primo parziale, la prima giocata. Martin si trova nuovamente spalle a canestro contro un MJ in quel momento ancora a 2/5 dal campo. L’ex-Bulls cerca ancora una volta il contatto e assorbe le prime due spallate del giovane al secondo anno, prendendo il tempo giusto per toccare la palla e far partire il contropiede dei suoi. Sarà la prima di tre rubate di Jordan ai danni del suo diretto avversario, e un indice involontario della partita.
Pochi minuti dopo, ad 1:48 dalla fine del medesimo parziale, Martin lascia il campo per un meritato primo riposo. Nello stesso slot, Jordan, uscito per Tyronn Lue due minuti prima, rientra in campo. Nel frangente di riposo di K-Mart i numeri del #23 diranno: 6 punti, 3 rimbalzi, un assist e una rubata. Nel frattempo, il controllo assunto sulla partita stava prendendo anche le pieghe psicologiche che qualunque spettatore di ‘The Last Dance’ ha imparato a conoscere – anche nei suoi difetti.
“Ad ogni canestro ci ricordava quanti anni avesse e come ci stesse insegnando una lezione. Non volava mica. Ci stava semplicemente distruggendo dal mid-range.”
– Jason Kidd
Alla fine del secondo quarto, poi, la dimostrazione di forza. Sul 36-34 l’ennesimo tiro dal mid-range porta Keith van Horn, per sua stessa ammissione ormai unicamente attratto dalla palla e dall’evitare altri canestri, ad un fallo rivedibile e che non ferma la palla dall’insaccarsi al fondo della retina. Sul 40-37 si ripete una scena simile, così come sul 41-41, dove a commettere il fallo è un esasperato Jason Kidd. Alla fine saranno 10 consecutivi nell’ultimo minuto e cinquantacinque di secondo parziale e 12 per aprire il secondo tempo.
Un parziale di Jordan 22 Nets 9 che indirizza definitivamente la partita verso una comoda vittoria capitolina e rappresenta la seconda streak più lunga di punti consecutivi segnati da MJ.
Meritevole di racconto, comunque, è l’ultimo canestro di questa striscia, quello che fa definitivamente strabuzzare i 20.000 presenti all’arena. Michael attacca Kenyon Martin fronte a canestro dal mezzo angolo sinistro, si gira in palleggio ad una velocità inspiegabile se rapportata al declino fisico e va a chiudere al ferro evitando l’aiuto di due giocatori dei Nets. Rientrando, inquadrato, mastica con discreta supponenza la solita gomma rivolgendo parole non esattamente di commossa gratitudine ai tre che avevano tentato invano di fermarlo.
Proprio in questa immagine, tuttavia, riguardando la partita oggi, l’incantesimo si rompe. Certo, alla fine sarà 98-76 Wizards con 45/10/7 Jordan, una prestazione irreale, ma è proprio nel suo iconico staredown che si comprendono tutte le differenze con il classic Jordan: Mike è evidentemente imbolsito, non è arrivato al ferro ma ha deciso di chiudere d’esperienza, boccheggia chiaramente nonostante la voglia di provocare.
È come se, proprio al termine di una run che avrebbe del clamoroso a prescindere dal protagonista, l’illusione più volte citata si rompa, riportando tutti alla realtà. Le sue dichiarazioni post-gara, d’altronde, sono abbastanza eloquenti in tal senso.
“Michael Jordan non è il futuro dei Wizards, al massimo è il qui ed ora. Può fare tutto quello che serve per tramandare una mentalità positiva e un’educazione per quanto riguarda il gioco del basket.”
– Michael Jordan
La necessità di spiegarlo illustra molto della follia di quei giorni. Grazie per le due ore di alienazione, Mike.