2006, anno di NBA Finals dove combattere con le unghie e con i denti e vincere per il rotto della cuffia. Dwyane Wade è stato salvato dalla strada quasi per sbaglio: la serie non poteva avere MVP più iconico.

In Italia la Festa del Papà si celebra ogni 19 marzo, onomastico di tutti i Giuseppe della Terra. Fino al 1977 era dichiarato persino giorno festivo per legge, declassato a giorno feriale con la 54. È da inizio ‘900 che la tradizione ha preso piede nelle varie nazioni, ognuna con la propria data e le proprie motivazioni.
Negli USA, in principio, si era scelto di indicare il 19 giugno. Astrologia? Religione? Politica? No: la semplice iniziativa di una giovane, Sonora Smart Dodd. Nel 1908, ascoltando un sermone del reverendo locale in occasione della Festa della Mamma, si chiese perché non si facesse la stessa cosa anche per la figura paterna. E così fu. Che giorno scegliere? Semplice: il compleanno di William Jackson Smart, veterano di guerra e padre di Sonora, costretto a crescere da solo i figli dopo la morte prematura della moglie. Da Lyndon Johnson in poi il Father’s Day è festa nazionale americana: ogni terza domenica di giugno, figlie e figli onorano chi li ha messi al mondo, omaggiandoli degli insegnamenti impartiti.
Nel 1996 cade il 16 giugno: abbiamo tutti impressi nella mente Michael Jordan sdraiato in lacrime negli spogliatoi dello United Center, aggrovigliato attorno al pallone della decisiva Gara 6 coi Sonics. Dieci anni dopo, la terza domenica di giugno è il 18. Gara 5 delle NBA Finals 2006 tra Miami Heat e Dallas Mavericks, se possibile, aderisce ancor più del pianto di His Airness alla simbologia legata a William Jackson.
L’infanzia di Dwyane Tyrone Wade è stata oggetto di fin troppe morbose ricostruzioni. Il divorzio dei genitori dopo quattro mesi dalla nascita del secondogenito, il tunnel di droga e alcol che inghiotte la madre JoLinda, la sorella maggiore Tragil che porta con sé Dwyane a vivere col padre sulla 79esima.
Crescere a South Side, Chicago, per un bambino di colore senza punti di riferimento affidabili, avrebbe significato delinquenza, dolore, sofferenza. Per fortuna di Dwyane, la sorella e il padre sono stati la sua salvezza. Dwyane Sr non è un uomo facile: duro, severo, protettivo al limite dell’opprimente, cresce Dwyane anche coi no e coi divieti che solo un genitore che deve tentare di recuperare anni di mancata educazione del figlio può permettersi. Dwyane Sr è sicurezza, garanzia, rifugio. Se Flash è diventato il giocatore mostruoso che è stato, se è attuale azionista di minoranza di una franchigia mormona e contemporaneamente padre di una figlia 14enne transessuale, lo deve e lo dobbiamo a Dwyane Sr.
Dwyane Wade condensa nelle sei gare coi Mavs, in particolare nei 53 minuti di Gara 5, l’attitudine all’aggiustare passo dopo passo, al correggere e deviare impercettibilmente la parabola della propria impresa per adeguarsi alle perturbazioni che lo circondano. Ed è qui che il Wade MVP si dimostra un gradino sopra tutti.
Di quanti altri giocatori al terzo anno nella Lega, con una squadra costruita come quegli Heat di Pat Riley, ricordiamo un simile impatto alle prime Finals della carriera? I nomi più altisonanti del roster sono ormai in fase calante, se non calantissima: Shaquille O’Neal, Gary Payton e Jason Williams graffieranno ancora come vecchi leoni, ma coi Mavs sembrano più vecchi che leoni. Udonis Haslem, Antoine Walker e James Posey sono tasselli fondamentali, ma non sono autosufficienti: sono effetti ma non origine, conseguenze determinanti ma non cause scatenanti. A dettare il contesto e a rendere il tutto sostenibile sul parquet sono polpastrelli, spalle e ginocchia di Dwyane Wade.
Di fronte i Mavs, anch’essi alle prime Finals della storia, guidati da Dirk Nowitzki e Jason Terry, che godono dell’apporto dell’ultima versione degna di nota di Jerry Stackhouse e una pletora di role player di pregevolissima fattura.
La serie viaggia costantemente sulle montagne russe: ancora col formato 2-3-2, Dallas fa valere il fattore campo nelle prime due uscite, prima di subire un cappotto nelle successive trasferte all’allora AmericanAirlines Arena e nella conclusiva Gara 6 in Texas. Le singole partite stesse vivono di ribaltamenti, parziali, batoste temporanee assorbite e trasformate in carburante rinvigorente.
Dando un’occhiata alle fredde statistiche, la serie di Wade è davvero sorprendente. Non tanto per i 34.7 punti di media, terzo miglior dato di sempre per un esordiente alle Finals; non tanto per il +16 di Net Rating (confrontato al +2 di Miami); non tanto per i 7.8 rimbalzi in una squadra col monte O’Neal sotto le plance, le 3.7 stocks per gara (32% di tutti gli Heat), e nemmeno i 43 minuti e mezzo sul parquet a partita. A far stropicciare gli occhi sono i 97 liberi guadagnati in sei notti, una Usage% di 36.9 e le 11 triple dell’intera serie, convertite in appena il 27% dei casi.
Com’è possibile ritenere plausibile nel 2023 un attacco completamente nelle mani di un unico giocatore, allergico al tiro da fuori ma capace di mantenere un’efficienza sopra la media? Nell’NBA attuale solo attorno a Embiid, Antetokounmpo e Doncic il pallone orbita con più frequenza rispetto a quella versione degli Heat; nonostante percentuali e volume ridotti da oltre l’arco, il #3 da Marquette è stato indiscutibilmente centro di massa di quelle Finals.
Vedere le sei battaglie di sedici estati fa con lo sguardo di ora è estraniante: sia Dallas che Miami paiono compresse entro i 7.25m, come se fosse loro impedito da una mano invisibile di esplorare con costanza i benefici del tiro da tre. Le aree intasate e le collisioni nei pressi del ferro risultano così ancor più frequenti e contundenti.
Le ginocchia di Dwyane non hanno ancora presentato il conto, salatissimo, nelle annate successive. Oltre alla genetica, la genesi va individuata anche nell’estenuante trattamento riservatogli dai Mavs. Nemico pubblico numero un(ic)o, coach Avery Johnson affida la cura del #3 a una batteria di specialisti chiamati a lavorare ai fianchi la stella avversaria, tartassandolo in ogni penetrazione, battezzandolo passando in terza dietro ogni blocco sulla palla, dichiarando alla stampa di essere contenti che si potesse prendere tutti i tiri che gli avrebbero concesso fuori dal pitturato. A turno Josh Howard, Devin Harris, Adrian Griffin e Marquis Daniels sono deputati, banalmente, a far fare a Flash più fatica possibile.
Cieca fiducia. Disciplina. Temperanza.
Dwyane Wade si prende il proscenio in maniera graduale. Nelle due sconfitte è fuori ritmo, non in pieno controllo del flusso della partita. Brutte percentuali anche in avvicinamento al ferro, difficoltà nel leggere il posizionamento degli avversari in vernice, incapacità nello sfruttare la gravità generata per innescare i compagni sugli scarichi. Col ritorno a South Beach, però, il prodotto degli Eagles inizia a incunearsi carsicamente negli anfratti e nei pertugi del muro Mavs, sgretolando le certezze di Nowitzki e soci in maniera poco appariscente, ma letale.
Solo dopo aver barcollato sull’orlo del precipizio in Gara 3 e Gara 5, solo dopo aver annusato l’acre sapore dell’amarezza, Wade è potuto salire in cattedra e dettare le sue leggi. 36 punti, 10 rimbalzi, 5 assist, 4 rubate, 3 stoppate, 21 viaggi in lunetta in Gara 6. Game, set and match. Premio di Finals MVP in tasca e primo titolo della storia di Miami.
Gli scorci memorabili delle Finals 2006 sono innumerevoli, sia nelle vittorie di Dallas che in quelle degli Heat, sia in Texas che in Florida. Lo spin move e il cioccolatino servito a Walker nel finale di Gara 1; la varietà calibrata perfettamente del finishing al ferro in Gara 2, coadiuvato da un sapiente uso del tabellone; la prima tripla della serie nel momento del massimo bisogno, in Gara 3, sotto di 13 a fine terzo quarto; la stoppata in recupero sulla tripla di Dirk in Gara 4; il quarto periodo di Gara 6, costellato di letture lucidissime, assistenze ai compagni e tiri liberi nel momento topico della ancor breve carriera.
È passato meno di un anno dalla follia di Rasheed Wallace sulla rimessa di Gara 5 contro San Antonio. La memoria corta dell’uomo potrebbe però mietere nuove vittime. L’errore clamoroso di comunicazione tra Payton, Walker e Posey viene graziato da Fortuna: Dirk non vede i liberissimi Stackhouse e Harris sul lato forte, cercando un difficile lob per Howard; Wade lo ha letto con due tempi d’anticipo e salva Miami dallo psicodramma dei supplementari di una Gara 3 vinta, persa, rivinta e quasi ripersa.
Ma quello che è stato Dwyane Wade anche negli anni successivi, fido scudiero di LeBron James, incastrato in un fit tecnico tutt’altro che ideale per esaltare le sue doti di slasher, lo si è intuito nella pivotal game di quella serie. Il Wade che appare dal nulla in aiuto dal lato debole, come se fosse una talpa che sbuca dopo aver scavato una galleria sotto le assi del rettangolo di gioco; la linea della carità , porto accogliente di efficienza e ossigeno vitale, visitata 25 volte, come nessuno mai nelle Finals.
Simboli ed epitomi di una vita recuperata appena in tempo e coltivata nel nome di un padre rigoroso. Dwyane Wade e le Finals 2006 sono un albero dalle radici lontane nel tempo, i cui frutti si staccano dai rami con calma e pazienza.
Cieca fiducia. Disciplina. Temperanza.