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Niente.

In TV non c’era un accidente di niente.

Oddio, a occhio e croce due o tre programmi interessanti si potevano anche trovare. Ma erano in tedesco. E di tedesco lui non capiva una parola. A malapena “Morgen” e “Danke”, giusto per dire qualcosa al personale del ristorante dove si scodellava tre pasti al giorno da una settimana.


Non era il tipo da lamentarsi, ma la cucina locale non la digeriva proprio. Sauerkraut a colazione? Dio mio, no. E poi salsicce extralarge che puzzavano maledettamente (anche se non erano malaccio), un pane nero e acido che riusciva a trangugiare solo con quantità industriali di burro e una poltiglia immonda di yogurt, germi di grano e succo di frutta che chiamavano “Bircher Muesli”. Finiva per farsi andare bene tutto perché moriva di fame, ma avrebbe dato un braccio per ingozzarsi di pancake con sciroppo d’acero e sgranocchiare due strisce di bacon come Dio comanda

Fortuna che la sera si mangiava meglio, seppure in modo un po’ monotematico: Wiener Schnitzel il lunedì, Wiener Schnitzel il martedì, Wiener Schnitzel il mercoledì e via discorrendo. Magari c’era anche altro sul menù, ma non voleva rischiare, anche perché non ci capiva un’acca. E poi c’era Ingrid, la cameriera che regolarmente lo serviva al tavolo e che due cucchiaiate extra di patate gliele dava sempre, assieme a un mezzo sorriso da cavare il fiato. Non che la guardasse più di tanto in faccia, intendiamoci: indossava sempre un costume tipico bavarese che lasciava poco all’immaginazione, e ogni sera lui si sorprendeva a invocare Domineddio con la devozione di un anacoreta che un bottone – uno solo! – di quella camicetta bianca tutta sbuffi decidesse di ammutinarsi per una frazione di secondo. Purtroppo il Padreterno non aveva finora compiuto miracoli di natura sartoriale. Anche se forse era meglio così: non era sicuro di cosa avrebbe fatto se la sua richiesta fosse stata esaudita. Specialmente con un genitore di fianco. Meglio non pensarci.

Finalmente, dopo uno zapping indolente durato cinque minuti buoni, si trovò a decidere tra un orrendo festival di musica tirolese, una partita di calcio e un film western. Scartata per ovvi motivi la prima opzione, pensò che di sport nei prossimi giorni ne avrebbe visto anche troppo e quindi si decise per il western. Tornò a sedersi in poltrona, mentre sullo schermo un biondo vestito di stracci affondava la faccia in una padella di fagioli al sugo. Non era Shaft, ma poteva anche andare bene da qui a ora di cena.

Il padre era sdraiato sul letto, intento a leggere Baldwin in silenzio, le gambe interminabili appoggiate sull’altra poltrona. Niente di nuovo, per carità: anche se quello era il migliore albergo di Monaco, sembrava tutto in miniatura. Specialmente per un sette piedi.

Si chiese come facesse a prendere sonno in quella sorta di scatola da scarpe, e poi si rese conto che la domanda era superflua: tanto non gliel’avrebbe mai detto. L’illustre genitore non era tipo da fare rimostranze inutili, anche se molti (specialmente la stampa di Boston) la pensavano diversamente.

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Passò qualche minuto. Sullo schermo il rumore esagerato di cazzotti e pallottole, sul letto il fruscio delle pagine. E in sottofondo, il ronzio dell’aria condizionata in quel pomeriggio di fine agosto 1972. Anche se aveva appena piovuto, faceva un caldo becco. Il mondo si preparava alla cerimonia di apertura della XX Olimpiade, Brando corleoneggiava sontuosamente nei cinema e a pochi isolati di distanza, i fanatici palestinesi di Settembre Nero si preparavano per scrivere una delle pagine più sanguinarie nella storia dello sport.

Ma William Russell Junior questo non lo sapeva. Suo padre gli aveva regalato quel viaggio in Europa perché voleva fargli respirare un’atmosfera diversa da quella di Seattle e tenerlo occupato dopo la scuola. E ovviamente, entrambi erano ansiosi di assistere a quello che molti definivano “il più grande spettacolo del mondo.” Certo, per papà Bill non era la prima volta: aveva vinto l’oro (ça va sans dire) a Melbourne nel ’56. Godersi le Olimpiadi da spettatore era un’altra cosa, però. Specialmente con un quindicenne al seguito.

“Papà?”

“Mhm?”

“Che ne dici della squadra di quest’anno?”

“Niente male.”

“Secondo te vinceranno?”

“Direi di sì. Anche se i russi sanno il fatto loro.”

“Chi è il tuo preferito?”

“Hank Iba.”

“Ma lui è l’allenatore, papà! Intendo tra i giocatori.”

“Hank Iba.”

William Junior scosse la testa. A volte il suo vecchio non lo capiva proprio. Cosa voleva dire? Che un allenatore conta più di chi è in campo? Che Hank Iba era speciale e sapeva ottenere risultati indipendentemente dal talento a sua disposizione? Boh.

Sembrava quasi che gli piacesse risultare incomprensibile. Ma d’altronde glielo aveva insegnato nonno Jake. “È sempre meglio capire che essere capiti.” Appunto.

“Papà?” chiese all’improvviso, sempre fissando lo schermo.

“Mhm?” bofonchiò il padre, senza smettere di leggere.

“Tu pensi che possa giocare nell’NBA?”

“Se è questo che vuoi e lo desideri abbastanza, allora sì. Ma prima di tutto devi andare al college.”

“Gioco tutti i giorni, sai. E ho battuto tutti quanti a scuola.”

“Bravo”.

“Mi sa che devo trovare un nuovo stimolo.”

“Bene.”

“Papà?”

“Mhm?”

“Vuoi giocare uno contro uno?”

Silenzio.

Russell senior abbassò il libro. Russell junior distolse lo sguardo dalla TV dove un tizio con la barba le stava dando di santa ragione a tre messicani. Per una frazione di secondo che parve eterna, i due si fissarono.

“Lo sai che non gioco più, figliolo.”

Non mentiva. Sin da quando aveva appeso le scarpe al chiodo, nessuno l’aveva mai visto con un pallone da basket in mano. Nessuna partita delle vecchie glorie, nessuna esibizione di beneficenza. Niente. I nastri dei vecchi incontri venivano conservati insieme ai filmini di famiglia, gli album con i ritagli di giornale accumulavano polvere nella libreria. La casa sul lago in cui vivevano non aveva neanche un canestro in giardino. Gli unici due segni della storica carriera di William Felton Russell erano le foto appese alle pareti dello studio e una bacheca traboccante di medaglie, coppe e trofei celebrativi, molti dei quali rabberciati alla meglio con il nastro adesivo. Ma per il resto, nessun segno di ostentazione. Nessuna icona celebrativa. Come diceva sempre, il basket era stato parte della sua vita ma non era la sua vita.

William Junior era deluso. A scuola gli chiedevano sempre com’era vivere con una leggenda e lui invariabilmente rispondeva, spiazzante: “Non saprei. Io vivo con mio papà.”

Lo sapeva bene che suo padre non aveva più toccato palla dal 23 aprile 1969. L’aveva letto tante volte. I Lakers erano sicuri di vincere quella Gara 7. Avevano appeso al soffitto un oceano di palloncini gialli e viola che dovevano cadere sulla folla dopo la sirena, mentre la banda di USC suonava “Happy Days Are Here Again”, come descritto nel volantino stampato in migliaia di copie e lasciato sui seggiolini del Forum. E il buon Bill, visto il programma della serata, aveva pensato bene di fare il guastafeste. Risultato? 108-106 e titolo ai Celtics, come da copione.

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Ce n’erano di storie da raccontare. E forse era vero. Forse William viveva davvero con una leggenda. Ma per lui quel gigante dall’aria solenne e dalla risata esplosiva che amava giocare a golf, gli controllava i compiti e collezionava trenini elettrici era solo papà. E allora perché non fare due tiri con suo figlio, santiddio? Era davvero così importante rispettare un impegno preso… con chi, poi?

William Junior si sentiva esasperato da quell’eccesso d’integrità. E per una volta, l’irruenza dei suoi quindici anni ebbe la meglio sul suo enorme rispetto per l’uomo che l’aveva messo al mondo.

“Cos’è, hai paura di fare una figuraccia?”

Silenzio.

“No.”

“Be’, secondo me hai paura”, ribatté William Junior con un mezzo sorriso di sfida.

Silenzio.

Si accorse di aver fatto andare la bocca a sproposito e di dover cambiare argomento, per cui accennò un saluto frettoloso e tornò in camera sua per prepararsi per la cena. Si infilò in doccia. Voleva presentarsi tirato a lucido all’appuntamento con Ingrid e quel fatidico bottone. Hai visto mai che stasera era la volta buona.

Aveva appena finito di asciugarsi quando il telefono sul comodino squillò. E dall’altra parte, una voce che conosceva bene pronunciò un ordine secco.

“Scendi.”

Click.

William Junior restò per due secondi con la cornetta in mano, inebetito. Appena riavutosi, infilò senza guardare una t-shirt e un paio di pantaloni della tuta, calze bianche e le adidas che la mamma gli aveva regalato per Natale. Si catapultò giù dalle scale. Meglio non farla aspettare, quella voce.

Arrivato nella hall, si sentì chiamare. E, voltatosi, lo vide. Indossava una maglietta bianca da allenamento, calzoncini verdi – quei calzoncini verdi – con due bande bianche e le scarpacce nere di tela usate nella finale del ’69. Nella mano destra reggeva un secchio da champagne stracolmo di ghiaccio, dal quale spuntavano quattro colli di bottiglia con tappo a corona e un cavatappi di metallo.

“Andiamo.”

“Dove?”

“Vedrai.”

OK, pensò lui. Meglio non fare domande. Tanto non avrebbe cavato un ragno dal buco.

Dieci minuti più tardi, il taxi si fermò davanti all’entrata di una cattedrale di cemento nel cuore di Monaco.

“Aspetta qui. Torno subito.”

Due minuti dopo, Bill senior tornò verso l’auto, pagò il tassista e gli disse semplicemente: “Eine Stunde”. Il tizio al volante annuì.

“Vieni.”

William uscì dal taxi, sempre più incuriosito e sempre più a corto di parole. Uno sbarbato sovrappeso vestito da guardia giurata salutò entrambi con un cenno del capo e si avviò verso una delle porte di servizio. Bill lo seguì a ruota, con William Junior che dovette correre per stargli dietro. Cinque minuti buoni di marcia in corridoi semibui, il silenzio interrotto solo dai passi dei tre e dal tintinnio delle bottiglie. E poi finalmente videro una pozza di luce che illuminava a giorno un campo da basket circondato da un mare di tribune immerse nell’oscurità. All’interno del cerchio di centrocampo, un pallone.

Bill recuperò una banconota da 200 marchi dal calzino, afferrò le due birre nel secchio e allungò il tutto allo sbarbato, che ricambiò con un sorriso a trentadue denti e si diresse verso gli spogliatoi felice come una Pasqua. Sarebbe rientrato tardi stasera, ma una settimana di paga extra per un’ora di straordinario valeva bene i teutonicissimi improperi della sua signora.

Senza proferire verbo, papà Russell entrò in campo, posò il secchio sul tavolo del referto e prese in mano il pallone.

“Be’, che aspetti?”

William Junior, che stupido non era ma aveva bisogno di raccapezzarsi, ritrovò finalmente il numero di casa.

“Papà, ma dove siamo?”

Basketballhalle”.

“La palestra olimpica?”

“Esatto.”

“Ma come…? E che ci facciamo qui?”

“Uno contro uno. A quanto arriviamo?”

Non ci credo, pensò. L’ho convinto.

“Ai 21?”

“OK”.

Si diressero verso l’area, sempre in silenzio. Bill passò il pallone al figlio, piegò le gambe in posizione difensiva sulla linea del tiro libero e attese. Il giovane Russell non poté trattenere un sorriso. Finalmente.

Fece una partenza incrociata a sinistra, due palleggi e una volta sotto canestro fece per segnare in appoggio. Era stato facile. Troppo facile. William Junior vide tutto nero, sentì solo il rumore sordo della palla che si stampava sul tabellone e prima che potesse capire cosa stava succedendo, il padre lo stava guardando con la sfera in mano.

“Riprova.“

Tentò allora il tiro in sospensione. Aveva un buon jump-shot, questo lo sapeva. Niente di letale, ma abbastanza affidabile. Gli sembrava una conclusione più sicura. Il polso rilasciò la palla con una parabola altissima. Questa entra, pensò. Ma Bill saltò da fermo e, senza neanche sforzarsi, interruppe la traiettoria del pallone a mezz’aria e lo tirò giù con entrambe le mani come una mela dall’albero.

“Riprova.”

OK, papà. L’hai voluto tu. Uscì dall’area palleggiando, preparandosi mentalmente all’impatto. Se il suo vecchio voleva giocare duro, tanto meglio. Prese una rincorsa che sembrava infinita, mise la palla a terra due volte e si librò in aria con tutta la sua forza del suo metro e novanta. Adesso ti schiaccio in testa, papà.

All’improvviso si scontrò con un muro di cemento armato, sentì il braccio cedergli e si ritrovò lungo disteso per terra mentre Bill gli sorrideva con l’arancia nella mano sinistra. Aveva appena avuto l’onore di ricevere non uno, ma tre di quelli che i cronisti sportivi chiamavano “Wilsonburgers”, anche se gli era stata risparmiata l’ignominia di doversi rimangiare la sfera.

“Adesso tocca a me”.

Il tutto durò una frazione di secondo. Primo passo a sinistra, due falcate e William Junior vide papà – il suo papà, quello che solo un’ora prima era disteso sul letto a leggere “The Fire Next Time” e che da tre anni e mezzo non entrava in campo neanche per una partitella con gli amici – abbandonare il suolo e decollare. Letteralmente. Una sorta di uragano caraibico fece tremare tutto il supporto del canestro.

“Uno a zero”.

Uh-oh, si disse William Junior. Mi sa che sono nei guai.

Bill si riposizionò in cima all’area con il pallone in mano. Come da migliore tradizione dei playground, chi segnava aveva diritto a mantenere il possesso.

Finta di tiro. Il giovane Russell abboccò come da manuale, liberando la pista per un altro decollo. Affondata a due mani e due a zero.

Provò a difendere in maniera più aggressiva. Niente da fare: il padre si portò spalle a canestro e lasciò partire un gancio sinistro che andò a segno dopo aver fatto sponda sul tabellone. “Tre a zero”.

Va bene. Allora facciamolo tirare da lontano. Dopotutto era un centro e i centri non sono buoni tiratori, giusto? Tiro piazzato dalla media distanza. Solo rete e quattro a zero. William Junior si sentì cadere le braccia. C’era qualcosa che non sapesse fare? E poi si ricordò di zio Wilt, che il giorno del Ringraziamento parcheggiava la sua Lamborghini nel vialetto di casa Russell per sbranarsi un tacchino intero e passare il pomeriggio a giocare con i trenini elettrici nello studio.

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Zio Wilt aveva appena vinto il suo secondo titolo con i Lakers, ma i migliori anni della sua carriera li aveva passati affrontando suo padre. Era una sorta di divinità pagana prestata al basket, uno che spostava gli avversari sollevandoli come bambole di pezza quando gli davano noia. Era anche una macchina da statistiche: aveva segnato 100 punti in una partita e 50 di media in una stagione, prendeva rimbalzi a grappoli e stoppava l’impossibile. Aveva persino vinto la classifica degli assist, porca miseria. Lui e papà se le davano di santa ragione ogni anno e zio Wilt aveva quasi sempre la meglio, anche se poi erano i Celtics a portare a casa l’anello.

Papà è abituato a giocare – e a vincere! – contro uno così. Che speranza ho io?

Nessuna, era ovvio. Ma non poteva tirarsi indietro. Era un Russell e da tempo immemore, i Russell avevano una parola sola. Per cui decise di dare il massimo e vendere cara la pelle. Al diavolo il risultato.

Finalmente, dopo il decimo canestro consecutivo, William Junior riuscì a catturare un rimbalzo su una palla vagante. Tirò subito, preso dal panico, scheggiando solo il ferro. Miracolosamente riuscì a mantenere il possesso. Cacciò un respiro che gli disingolfò il cervello e cercò di concentrarsi. E lentamente, azione dopo azione, i muscoli cominciarono a sciogliersi. Inizio à tirare in modo meno legnoso, a muoversi con più decisione, a difendere con maggiore aggressività e meno timore reverenziale.

La partita assunse gradualmente un suo ritmo. E, come per tacito accordo, nessuno dei due parlava, neanche per segnare il punteggio. Era una sorta di magico rituale, una danza antica e sempre nuova tra uomo e uomo. Uno scontro tra generazione che si ripeteva da secoli in tutte le culture del mondo.

Presente contro futuro.

Padre contro figlio.

Russell contro Russell.

E quando sul 19 a 0 il pallone finì in tribuna dopo l’ennesima stoppata subita, William Junior seppe dentro di sé che avrebbe continuato volentieri a giocare per sempre. Poco importava che non riuscisse a fare un singolo punto. Gli piaceva il fatto che suo padre non gli facesse sconti, che lo rispettasse abbastanza per trattarlo come uno dei suoi avversari. Per trattarlo da uomo.

Ti voglio bene, papà – pensò.

Andò a recuperare la palla e si posizionò sul gomito dell’area, pronto per un altro disperato attacco al canestro, quando vide che Bill era immobile, dritto come un palo. “Segna.”

Cosa?! No. Lui non era tipo da elemosinare canestri da nessuno, mai. Specialmente in un momento puro come questo.

“No, papà”.

“Segna”.

“Ma perché? Non capisco.”

“Tu segna e basta. Due volte.”

“Vuoi fregarmi con una stoppata all’ultimo come sempre?”

“Ti prometto che non mi muovo.”

William Junior sapeva che non mentiva mai, ma non riusciva a raccapezzarsi. Sapeva anche che avrebbero passato lì tutta la notte se non gli avesse ubbidito, per cui decise di stare al gioco e accennò un’entrata a destra: palleggio, palleggio, due passi e appoggio a canestro. 19 a 1. Suo padre non si era spostato di un centimetro. Non si era neanche voltato a guardare il canestro.

Non aveva senso. Perché, dopo essersi scannati per un’eternità, farlo segnare così? Gli faceva pena, forse? Pieno di rabbia in corpo, tornò a fronteggiare il padre, che con la maglietta gocciolante di sudore era bloccato sulla linea di tiro libero.

Fece una breve finta di tiro. Niente. Poi una finta di testa. Niente. Gli sembrava di avere di fronte una statua. Alla fine decise e palleggiò una volta, si arrestò in due tempi e lasciò partire una parabola perfetta. 19 a 2.

Recuperò il pallone da sotto il canestro e si riposizionò in cima alla lunetta. E in una frazione di secondo, la statua si rianimò: suo padre piegò di nuovo le ginocchia e allargò le braccia lunghissime, occupando per intero la sua visuale come un’eclissi, più feroce e determinato di prima. Le ostilità ripresero con maggiore foga e determinazione.

A William Junior quella farsa non era piaciuta. Ricominciò a combattere su ogni possesso, a difendere alla morte e a saltare su ogni rimbalzo. Voleva dimostrare che poteva segnare da solo, senza pietà o concessioni da parte di nessuno. Quei punti se li voleva guadagnare.

Ma dopo altri cinque minuti di lotta senza quartiere in cui arrivò quasi a realizzare un altro canestro, giunse il momento di svegliarsi dal sogno. Bill mise a segno l’ennesimo gancio dall’angolo con appoggio al tabellone e chiuse la pratica con tomahawk che squassò i muri della palestra. 21 a 2, partita finita.

William Junior crollò a terra esausto. Era sudato fradicio, gli mancava il respiro e per un interminabile minuto non riuscì a fare altro che fissare il soffitto. E poi vide una mano enorme tendersi verso di lui e due occhi pieni d’affetto guardarlo come solo un padre sa guardare un figlio. “Forza.”

Bill lo aiutò a rialzarsi. William Junior si rimise in piedi a fatica. “Vuoi da bere?” – “Certo.”

Bill andò verso il tavolo del referto e affondò la mano nel secchio pieno d’acqua, estraendo due bottiglie di Coca Cola gelate. Rimasero in silenzio, bevendo a lunghi sorsi.

La faccia dello sbarbato fece capolino dal buio, con l’aria colpevole di chi sa di avere interrotto un momento speciale. Ma l’ora era passata, la birra finita e lui doveva tornare a casa per beccarsi la sua meritata dose d’insulti. Bill gli fece cenno col capo. Padre e figlio si diressero verso il corridoio che li avrebbe riportati all’esterno. Era sicuro che il tassista li stesse aspettando – i tedeschi sono gente precisa.

“Papà?”

“Dimmi”.

“Perché mi hai fatto segnare due volte?”

“Per due ragioni. La prima è che non voglio che tu dica in giro che sono stato così cattivo da massacrarti.”

“E la seconda?”

“La seconda è che potrai vantarti con tutti di aver segnato due volte contro Bill Russell.

William Junior non potè fare a meno di sorridere.

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Si chiusero alle spalle la porta di servizio. Lo sbarbato barcollò verso una scassatissima Volkswagen e partì senza indugio alla volta di casa. Assaporava già un’altra birra e voleva mostrare alla moglie i 200 marchi. Il tassista, come previsto, li aspettava con il motore acceso. Papà Bill abbozzò un sorriso. Precisi, questi tedeschi.

Cominciarono a camminare verso il taxi. “Andiamo. Non vogliamo far tardi per cena. Ti deciderai a parlarle stasera?”

“A chi?”

“Alla cameriera… come si chiama?”

“Ingrid. Ma come…?”

“Mi prendi per cieco? Sono stato giovane anche io, sai. E poi si vede che le piaci.”

“…”

“Se la guardassi in faccia ogni tanto, invece di fissarle la camicetta, l’avresti già capito.”

William Junior arrossì violentemente. “Dai, non prendertela”, gli disse Bill, scoppiando in una delle sue famose risate. “Ci siamo passati tutti. Certo, ti devi dare… ci dobbiamo dare una ripulita. Non ci possiamo mica presentare così, no?”

“È vero, papà.”

Salirono sul sedile posteriore del taxi e chiusero la portiera. L’auto fece una rapida inversione a U, uscì dal parcheggio del palazzetto e s’immise nel traffico.

William Junior si mise a guardare fuori dal finestrino, assaporando per la prima volta una strana sensazione di pace. Era come se l’universo avesse ristabilito una sorta di equilibrio. In quel momento si rese conto di essere stato parte di qualcosa di speciale in quella sera di agosto 1972. Non aveva affrontato solo suo papà: aveva affrontato la storia del Gioco. La tradizione. Aveva dato del filo da torcere al più grande cestista di tutti i tempi.

E soprattutto poteva dire di avere lottato con l’uomo più speciale che conoscesse. Aveva giocato nell’ultima partita di sempre del grande Bill Russell, uscendone a testa alta. E all’universo non poteva chiedere di meglio.