Le tappe fondamentali della straordinaria carriera di Robert Horry: clutch player per eccellenza, sempre al posto giusto al momento giusto e autore di alcuni dei canestri più emblematici della storia della NBA.

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Di tutti i termini anglosassoni che il basket ha esportato nel resto del mondo, uno dei più intriganti da tradurre è senza dubbio clutch. Ce la si può cavare con una lunga perifrasi, del tipo “in grado di compiere la giocata importante nel momento cruciale della partita”, o accontentarsi di un banale “decisivo”.

“Clutch significa portare a termine la missione. Sono contento di essere considerato uno dei giocatori più clutch di sempre, significa che ho sempre svolto bene il mio lavoro”.

Difficile trovare qualcuno più adatto di Robert Horry a darci la definizione esatta di un concetto che nella NBA – e nello sport in generale – ha sempre avuto una rilevanza enorme. Partite, stagioni, carriere possono essere decise da una palla che va dentro o che va fuori: spesso si tende a incolpare la sfortuna o il destino in caso di esito negativo, e viceversa ringraziare vari santi o un allineamento favorevole dei pianeti in caso di esito positivo. Per una banale legge psicologica, ricordiamo maggiormente le volte in cui la palla va dentro, nonostante siano molti di più gli errori in situazioni del genere. Ci sono però dei giocatori che, al di là delle statistiche, sono più decisivi di altri: quando la palla finisce nelle loro mani i tifosi si sentono più tranquilli – il celebre “se da un tiro dipendesse la mia vita, vorrei lo prendesse X”. Chiunque abbia giocato a pallacanestro sa che un tiro per la vittoria a pochi secondi dalla sirena non è un tiro come gli altri: per la maggior parte dei mortali è inevitabile farsi travolgere dalle emozioni, dalla pressione del momento.


Altri esseri umani, invece, riescono regolarmente a esaltarsi, diventando affidabili nei momenti decisivi. Sempre o quasi.

Bird, Jordan, Kobe, Reggie: tutte grandi leggende, hall of famer, che si sono contraddistinte per tirare fuori quel quid nei momenti più caldi.

Robert Horry non salirà mai sul palco di Springfield: le statistiche individuali delle sedici stagioni regolari della sua carriera non sono mai state particolarmente scintillanti – 7 punti, 2 assist, meno di 5 rimbalzi a gara – e sono spesso quelle a fare la differenza. D’altra parte, però, Rob ha appeso le scarpe al chiodo dopo sette titoli NBA, vinti con tre maglie diverse.

Coincidenze? Fortuna? Un pochino, certo, per aver giocato in tre grandi squadre, con eccezionali leader al suo fianco.Ma com’è, come non è, ha lasciato il segno in tutti e sette gli anelli alle sue dita.

“Big Shot Bob”: nessun gregario scalda panchine e sventola asciugamani potrebbe mai avere un soprannome del genere, non vi pare?

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Terminati i suoi quattro anni a University of Alabama, due dei quali condivisi con Latrell Sprewell, Horry è considerato un discreto atleta, un ottimo difensore – record dell’ateneo per stoppate – ma non certo un top player.

Il Draft del 1992 è però piuttosto scarno di talento: a parte le prime due scontate scelte di Shaq e Alonzo Mourning, tutto può succedere e anche Rob ha ottime chance di essere chiamato in alto.Viene selezionato alla undici dagli Houston Rockets, che vengono da un anno con cambio di allenatore – a febbraio arriva Rudy Tomjanovich – e la mancata qualificazione alla postseason.

Nell’anno da rookie, l’energia e l’atletismo di Horry si dimostrano subito utili alla causa e fin da subito entra stabilmente nel quintetto iniziale, al fianco di un Hakeem Olajuwon in stato di grazia.

I Rockets sbancano la Midwest Division, superano i Clippers di Larry Brown al primo turno di Playoffs, salvo uscire in un’epica – e molto controversa – gara 7 di semifinale di Conference, persa all’overtime contro i Seattle Supersonics. In quella partita abbiamo già una prima testimonianza di quello che Big Shot Rob sarà.

Sul punteggio di 91 pari, verso la fine dell’ultimo quarto, Olajuwon è costretto a scaricare verso lo scadere dei ventiquattro. Horry riceve e fa partire una disperata conclusione che va dentro, dando ai suoi il temporaneo vantaggio, che non sarà sufficiente per la vittoria finale.

In ogni caso, un tiro non banale per un rookie.

La squadra ha dimostrato di essere pronta per puntare alle Finals e questo è l’obiettivo dichiarato per la stagione 1993-94. Houston riparte non forte, fortissimo: pronti, via, record di 15-0, che arriva addirittura a 23-1 prima di Natale.

A livello personale, Il rendimento di Horry cala leggermente, seguendo una costante della sua carriera: se le cose a livello di squadra vanno bene, perché cercare di gonfiare le proprie voci statistiche individuali?

Un motivo ci sarebbe: convincere la propria franchigia di essere indispensabile, soprattutto quando si è giovani e non si è ancora dimostrato molto. La sua tendenza all’eccessivo altruismo, a prendersi pochi tiri, convince la dirigenza dei Rockets a ritenere Horry sacrificabile, nonostante, a detta dello stesso Tomjanovich, il suo impatto sul gioco esuli dalle mere statistiche.

Prima della sosta per l’All Star Game viene inserito, insieme all’ala Matt Bullard e a due future scelte, in una trade per arrivare a Sean Elliott, solido giocatore dei Pistons, leggermente in difficoltà in quel di Motor City. È tutto fatto, ma Elliott non supera le visite mediche a causa di un problema renale che si porterà avanti per tutta la carriera: lo scambio salta e Horry resta in Texas.

“Ho pensato a lungo a quella trade saltata. Non con astio, perché so che nella Lega è tutta una questione di affari; ho pensato a che svolta avrebbe preso la mia carriera fossi finito a Detroit. Quel mancato scambio ha salvato la mia carriera. A quel punto mi sono detto: non voglio più rischiare di essere scambiato per essermi preso pochi tiri. La prossima volta, al massimo, mi scambieranno perché ne prendo troppi”.

Il 2 aprile nasce la sua primogenita, Ashlyn.

La bimba viene al mondo affetta da una rara anomalia cromosomica, che la porterà a restare in ospedale per quasi tutto il suo primo anno di vita, prima della tragica e prematura scomparsa a soli 17 anni. Non certo un anno facile per Rob, dunque.

I Rockets rallentano, ma sono comunque la seconda forza ad Ovest: spazzati via i Trail Blazers al primo turno di Playoffs, si trovano di fronte ai finalisti della stagione precedente, i Phoenix Suns di Barkley e Kevin Johnson.

Houston parte bene in Gara 1, andando in vantaggio e gestendo bene per tre quarti di gara, salvo subire il ritorno dei Suns nell’ultimo quarto e perdere incontro e fattore campo.In Gara 2 partono ancora meglio, portandosi addirittura sul +20 grazie a un mostruoso terzo quarto da 40 punti, e sembrano poter pareggiare la serie.

Ma un altro quarto periodo disastroso da soli 8 punti li trascina all’overtime, dove perderanno nuovamente: 2-0 Phoenix.

Il giorno dopo, il quotidiano locale – il glorioso Houston Chronicle – è impietoso: in prima pagina recita “Choke City”.

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Choke è l’esatto opposto del clutch di cui sopra, quando cioè non si è in grado, nei momenti cruciali, di gestire la pressione, finendo per esserne schiacciati. Il fatalismo della città è piuttosto giustificato, dato che nella sua lunga storia di sport non è mai riuscita a portare a casa un Titolo. I Rockets, nello specifico, hanno già perso due finali – nel 1981 e nel 1986 – e questi due vantaggi sprecati in gara 1 e 2 contro i Suns sembrano raccontare una storia già vista.Invece, fu proprio la spinta di cui i ragazzi di Tomjanovich avevano bisogno.

Mario Elie, nuovo acquisto della franchigia, si fa scrivere Choke City sulle scarpe, come promemoria, e quando la serie si sposta in Arizona, i Rockets hanno una faccia diversa.

Gara 3 e Gara 4 sono un assolo dei texani, che quando tornano a casa per gara 5 trovano ad aspettarli i tifosi con dei cartelli sorprendenti: Clutch City, un mantra colto da un’intervista al proprietario della squadra, Leslie Alexander, che non lascerà più la franchigia.

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Superati i Suns, Houston non si ferma più.

Sbarca alle Finals, dove batterà i quotati Knicks in sette partite, una serie nota soprattuto per la storica Gara 5, in cui la NBC, desiderosa di non perdere audience televisiva, riduce a un piccolo riquadro in basso nel teleschermo le immagini del match, per trasmettere l’inseguimento autostradale di O.J. Simpson, in fuga dalle autorità dopo l’omicidio della ex moglie.

Nella stagione successiva, la terza nella Lega, Robert Horry compie il primo step importante per assumere lo status che non lo lascerà più.

La regular season 1994/95 è ben più complicata. A Ovest c’è una concorrenza spietata, tra i Jazz, sempre più solidi, i Suns, perennemente a un passo dalla gloria, i Sonics, sempre in grande ascesa e gli Spurs, che registrano il miglior record di tutta la Lega. Houston finisce per avere il sesto seed, che la costringe a scontrarsi contro Malone e Stockton senza il fattore campo al primo turno. 2-2 dopo quattro partite, i ragazzi di Tomjanovich vanno al Delta Center con una missione complicata, ma trascinati da Drexler e Olajuwon sconfiggono i padroni di casa con una prestazione strepitosa nell’ultimo quarto.

Ancora una volta, Clutch City.

Al turno successivo ci sono i soliti Suns. Stesso film già visto, con grande equilibrio, grande intensità e serie che si trascina fino a Gara 7, ancora una volta in Arizona.

Il Cagnaccio Mario Elie, quello di “Choke City” scritto sulle scarpe, la decide con il tiro che passerà alla storia col nome di Kiss of Death.

La finale di Conference è il derby texano contro i favoriti Spurs e tutti i media indugiano sullo scontro epico tra i due lunghi più dominanti della Lega, The Dream e l’Ammiraglio David Robinson.

Gara 1 all’Alamodome è esaltante, caratterizzata da un equilibrio pressoché perfetto. Da una parte, Drexler e Olajuwon sono i trascinatori dei Rockets, per gli Spurs oltre a Robinson e un Rodman da 20 rimbalzi si fa notare Sean Elliott con oltre venti punti: sì, proprio l’uomo che doveva finire alla corte di Tomjanovich al posto di Horry. Robert fatica tutta la partita, sbaglia ognuna delle poche conclusioni dal campo prese, continua col suo “vizio” di passare buoni tiri per cercarne di migliori a tutti i costi e non fosse per il 5 su 8 ai liberi il suo tabellino reciterebbe ancora zero.

Ma è così che funziona con Big Shot Bob: si manifesta quando meno te lo aspetti, proprio quando la squadra ha più bisogno.

Ancora una volta pensa a scaricare per un compagno ma stavolta non può davvero esimersi. Il suo primo canestro dal campo, questo jumper a 6 secondi dalla fine, consegna una fondamentale vittoria a Houston.

Gli Spurs batteranno due colpi in trasferta, ma la vittoria in Gare 1 e 2 ha dato un’inerzia particolare ai Rockets: l’MVP stagionale Olajuwon chiude la serie con 35 punti, 12 rimbalzi, 5 assist e 4 stoppate di media, polverizzando Robinson nel confronto.

Houston è di nuovo in finale, con il risultato di 4-2. Di fronte, gli Orlando Magic di Shaq e Hardaway in grande ascesa. Anche per questa serie tutta l’attenzione dei media è rivolta verso la sfida tra O’Neal e il suo idolo, il nigeriano.

Gli stessi media che, esagerando, parleranno di un Olajuwon che manderà a scuola The Diesel per tutta la serie. In realtà, nonostante Hakeem fosse all’apice della sua carriera e abbia sicuramente disputato delle Finals sublimi, il giovane Shaq ha tenuto botta, sfiorando più volte la tripla doppia. Il titolo è stato deciso dai cosiddetti role players, come Kenny Smith, eroe di gara 1 dopo la tragicommedia di Nick Anderson, o Sam Cassell, in grado di illuminare la squadra uscendo dalla panchina. E Poi ci sarebbe Robert Horry, che chiude la serie con 17 punti, 9 rimbalzi, 3 stoppate e 4 rubate a partita, di fatto triplicando la produzione rispetto al resto della stagione.

Oltre a registrare un altro momento memorabile, con uno dei suoi tiri assassini. In Gara 3 i Magic, dopo lo choc delle prime due partite perse, hanno le spalle al muro e devono obbligatoriamente uscire dal The Summit con una vittoria per sperare di ribaltare la serie.

A 30 secondi dalla sirena finale, i padroni di casa sono sopra di una lunghezza e vogliono andare a punti per mettere un possesso pieno di vantaggio tra loro e gli avversari. Come hanno fatto per tutti i Playoffs, vanno dal loro leader spirituale in post basso. Olajuwon viene raddoppiato e non ha alcuna possibilità di rendersi pericoloso. Horry prende posizione sulla mattonella che in futuro gli darà tante soddisfazioni: l’ala sinistra, dietro la linea da tre punti. Il nigeriano non esita a scaricare il pallone per alleggerire la pressione, certo che Horry gliela riconsegnerà. Ma Rob ha altri piani.

Nonostante il close out deciso di Horace Grant, decide di portare lui a termine la missione.

“Quando ho ricevuto da Hakeem sapevo che avrei dovuto ridargliela e fargli giocare l’uno contro uno. Ma è stato più forte di me, me lo sentivo ed è andata bene”. Tre giorni dopo, Houston terminerà lo sweep, vincendo il secondo titolo NBA consecutivo. L’anno successivo, Michael decide di tornare a fare sul serio, non lasciando altra possibilità al resto della Lega di giocare per il secondo posto.

La forza prorompente dei Sonics spazza via in 4 gare Houston, che in estate sente di aver bisogno di maggior talento per restare a galla con le nuove forze della Lega. Il giocatore scelto è Charles Barkley e, per arrivare a lui, sono pronti a sacrificare alcuni membri fondamentali della squadra campione in back-to-back: Mark Bryant, Chucky Brown, Sam Cassell e Robert Horry, i quali finiscono a Phoenix.

I Suns credono di aver acquisito due giocatori di ruolo pronti a fare il salto di qualità e diventare leader per il futuro della franchigia. Niente di più sbagliato: né Sam I Am né Big Shot Rob riescono ad adattarsi al nuovo sistema di gioco. Phoenix inizia talmente male che il GM Jerry Colangelo decide di cacciare coach Fitzsimmons dopo neanche un mese, facendo insediare Danny Ainge, al suo esordio da head coach dopo aver chiuso la carriera da giocatore proprio in Arizona.

Ainge è noto per non avere mezze misure e prende di petto i problemi che sente di avere in squadra, nello specifico i due nuovi innesti: Cassell, prima di capodanno, viene spedito a Dallas. Horry lascia meno di un mese dopo, ma in modo decisamente più clamoroso.

Tra i due ci sono strascichi che ci si porta dietro dalle battaglie che Rockets e Suns hanno condiviso negli anni precedenti e il rapporto non ingrana. Il picco viene toccato durante una trasferta a Boston.

Uno scambio piccato in panchina culmina in quello che venne definito il “towelgate”: Horry, innervosito da qualche parola del suo coach, gli getta un asciugamano in faccia, di fatto firmando la sua condanna. Horry viene sospeso e dopo meno di una settimana, in cui Colangelo bussa a tutte le porte della Lega, trova una nuova casa.

Una casa in cui si troverà molto più a suo agio e dove scriverà altre pagine di storia: la sua e quella della NBA.

Potete leggere la parte 2 del pezzo dedicato a Robert Horry cliccando QUI