Ci sono tiri che, oltre a stravolgere le sorti delle Finals, hanno marchiato le rispettive epoche cestistiche. Da Jerry West a Ray Allen, passando per Steve Kerr: ai campioni, talvolta, basta un istante per scrivere la storia del gioco.

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Primo palleggio

Il pallone viene colto dal fondo della retina con un imbelle senso di pesantezza.

È finita. Perlomeno per Chamberlain.


A tre secondi dalla fine un canestro del genere è una mazzata psicologica troppo forte per riprendersi.

Il Fabolous Forum di Los Angeles, in quel 29 aprile del 1970, viene avvolto da una fitta coltre di silenzio.

Nella testa dei presenti corre un solo pensiero: per Gara 3, ormai, bisogna soltanto cedere alla resa.

Gara 4 dovrà partire da quella finta e tiro in controtempo di DeBusschere.

Walt Frazier si era affidato a lui perché uomo perfetto in quelle situazioni: il nativo di Detroit era un mastino in difesa, ma anche un catalizzatore in attacco, concentrato a giocare per il collettivo Knicks e a prendere i tiri che servissero. A prendere quel tipo di tiri. Per segnarli.

In quella finta e tiro c’era il lavoro sinergico di una squadra vera, granitica. Prima di affrontare la scintillante corazzata giallo-viola, New York aveva eliminato in semi finale di Conference i Washington Bullets di Black Jesus Earl Monroe e il suo ubriacante spin move; in finale era toccato ai Bucks di Lew Alcindor, poco prima che l’Islam lo convertisse in Kareem Abdul-Jabbar.

Una squadra solida e vera, degna avversaria di quei Lakers nei quali le sei mani di Chamberlain, Baylor e West componevano e scomponevano pallacanestro a piacimento.

Gara 3 era stata tirata sino all’ultimo. Un botta e risposta continuo come in un circolo di saggi: i sapienti del Gioco.

Fino all’acuto di DeBusschere, che, sul 100-102, sapeva tanto di sigillo blu-arancio.

Lo sguardo di Wilt è rivolto verso il basso, trafitto. I granelli di sabbia della clessidra sono ormai giunti sul fondo: manca solo l’ultimo sospiro, quello che, passando attraverso la strozzatura, aumenta vertiginosamente di velocità per adagiarsi sul cumulo sottostante. Troppo poco.

La rimessa in gioco sa di condanna: la palla è lanciata verso le mani di Jerry West protese in ricezione.

Chamberlain si dirige direttamente verso gli spogliatoi.

È come scalare una montagna scalzi. Non può farcela.

Dietro la sua schiena rivolta ormai al campo, West riceve il pallone. Il movimento a rivolgersi verso il canestro avversario è fulmineo, la mente sgombra.

Tre secondi. Nulla da perdere. Tutto da guadagnare.

Palla terra. Primo palleggio.

Secondo palleggio

Lo chiamavano “Mister Clutch”. Per West la pressione assumeva i connotati di una splendida donna, elegante nel suo morbido vestito di panno bianco e glaciale dietro il suo brillante sguardo inquisitorio. Quasi fosse una dea, la Pressione: regolatrice di uomini e intenti.

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Capita spesse volte nella mitologia classica che gli uomini mortali riescano a sedurre le dee. Gli occhi azzurri del numero 44 amoreggiavano, con quello sguardo.

Non c’è uomo migliore cui affidare un tiro del genere. Anche se, a dire il vero, più che di un tiro si tratta di un impercorribile miracolo.

I presenti sono spaccati in due fronti: alcuni, come Wilt, hanno abbandonato ogni illusione di una fine lieta; altri sentono in cuor loro che possa esistere ancora una possibilità. Sono entrati in una sorta di limbo emotivo: abbandonare la fredda logica per abbracciare la passionale speranza. Perché non può finire così. Non deve finire così. E il pallone è finito nelle mani giuste: quelle di “Mister Clutch”. Perché lui, la Pressione, la seduce con parole al miele.

“Two seconds… one second…”. La voce di Bob Wolff, storico commentatore dei Knicks, urla nel microfono. Dentro di sé, in pieno tumulto per quanto visto fare da Debusschere, sente che la bilancia stia per pendere definitivamente nella giusta direzione. Tuttavia, sino a che non sentirà risuonare gracchiante la sirena, il suo cuore resterà appeso al corso degli eventi. Il primo palleggio era stato battuto sul parquet lucido quasi con una impietosa necessità di sollecitudine. Bum. Il secondo segue il primo con eloquente frequenza, quasi a dire “Se ci speri ancora, datti una mossa Jerry”.

Terzo palleggio

Stanno perdendo. Per l’ennesima volta i Lakers stanno assaggiando il sapore amaro della sconfitta. E pensare che nella prima frazione quella Gara 3 sembrava propendere solo verso le calde acque della costa californiana.

Ma il progetto di DeBusschere e di Dick Barnett non era certo quello di tornare a NY City con una sconfitta sulle spalle. Tiro dopo tiro. Canestro dopo canestro. Come due abili sarti avevano ricucito nel secondo periodo quello svantaggio di 14 punti con il quale si era andati a riposo all’intervallo. Da 56-42 i Knicks avevano pareggiato i conti fissando il punteggio sul 96 pari, a due minuti dalla fine.

Ci aveva pensato poi Reed, un minuto dopo, a dare il vantaggio alla Grande Mela: 98-97 blu arancio, e spettri irridenti a sogghignare sul Fabolous Forum.

Stanno perdendo, di nuovo, e West questo non lo può accettare.

Giocava così, col fuoco dentro. Il fuoco della competitività infiammava il suo animo e lo spingeva a renderlo indomito, a stupire pubblico e compagni con giocate di smisurato livello tecnico e rara efficacia.

Stupiva pubblico e compagni. Se stesso no, mai. La sconfitta lo ossessionava, lo spingeva alla perfezione. Perché qualunque dettaglio era fondamentale a griffare una vittoria. Una volta, di fronte ad una quadrupla doppia da 16/17 dal campo, 12/12 ai liberi, 12 rimbalzi, 12 assist e 10 stoppate, aveva avuto l’ardire di affermare che in difesa, dal punto di vista della squadra, non si sentiva di aver giocato molto bene. “Raramente sono soddisfatto di come ho giocato.”

Un’immersione nel paradosso, che però suscitava enorme rispetto da parte degli avversari. Rispettavano la sua ossessione, stimavano il suo voto al sacrificio al cospetto di un talento così cristallino.

Stanno perdendo, di nuovo. E quel precedente canestro da fuori, a 38 secondi dal termine, che aveva ridato il vantaggio ai Lakers aveva tradotto la rabbia che Jerry provava dentro di sé. Dopo un primo tempo del genere tutto questo era inammissibile. Ma Barnett, quasi provocatorio, aveva restituito il favore riportando i Knicks sul +1 a 18 secondi dalla fine: 99-100.

Ancora sotto. Ancora la sconfitta all’orizzonte. Una partita a scacchi tra due fronti provati dalla tensione.

LA aveva chiamato time-out per costruire una giocata vincente, ma ancora una volta era emersa la vecchia volpe che c’era in Barnett: fallo su Wilt – che tirava con un modesto 45% i liberi – per avere il coltello dalla parte del manico. Di sicuro non avrebbe mai permesso che la palla finisse nelle mani di Jerry, perché il coltello avrebbe potuto ribellarsi e trafiggere i Blu-Arancio in pieno petto.

Il primo libero era finito, granitico, fuori dall’anello. Il secondo, invece, era entrato.

Parità a quota 100.

Le pupille corrono uno per uno i 20 metri che separano il pallone dal canestro avversario. Raccogliere la palla alla giusta altezza è fondamentale per compiere quello sforzo, quasi disumano dopo 48 minuti di gioco.

Il terzo palleggio è il più importante. Deve essere il più deciso.

Il pallone è accompagnato verso il basso con forza maggiore: la forza della speranza. Dopo un tum più nitido schizza verso l’alto e viene accolto da entrambe le mani.

1…

Ci siamo. È il momento.

Tiro

Se non altro la parità sarebbe risultata agrodolce. Magra consolazione, al cospetto di una partita che sarebbe dovuta essere in cassaforte già da molto tempo. Più di così, a Wilt, non si poteva chiedere. Era anzi andato oltre quelle aspettative che gli impietosi numeri sancivano.

A 18 secondi dal termine i Knicks avevano una giocata in serbo, pronta per poter essere sfoderata in quei frangenti. Un blocco di DeBusschere per il futuro senatore degli Stati Uniti Bill Bradley e open shot per quest’ultimo. La palla doveva essere nelle mani di Frazer, per un passaggio ad alta percentuale di esito positivo.

Ma la difesa giallo-viola aveva forzato la giocata, non permettendo la ricezione a “Dollar Bill”. Frazier, glaciale e perfettamente in controllo, aveva scelto la seconda opzione: palla a DeBusschere, il quale aveva fintato in prima battuta il tiro e poi lasciato andare il pallone dopo aver messo fuori tempo il difensore.

La palla si era impennata, aspettando soltanto che la retina l’accogliesse nel suo caldo abbraccio.

Chamberlain aveva raccolto il pallone dal fondo del canestro con un imbelle senso di pesantezza, per rimetterlo nei palmi di Jerry. Per Wilt quel confronto era finito.

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Entrambe le mani contengono il pallone allo stesso modo in cui le corazze di una conchiglia si richiudono a custodire una splendida perla.

Fulminee, lo portano al petto per caricare quella che dovrà essere una saetta. Per battere il tempo. Per far vincere la maledetta speranza.

I decimi scorrono come granelli tra le dita.

Le mani si aprono verso l’esterno, la sfera si distacca da queste ultime fulminea.

Gli occhi rivolti verso il centro dell’anello. L’obiettivo. La meta.

Migliaia di occhi seguono la traiettoria, il fiato spezzato, il cuore in gola.

“West throws it up!”

Nel mistico e irreale silenzio pare quasi di sentire il sottile sibilo dell’aria sferzata.

La sirena urla impazzita.

Al sibilo segue uno schiocco: la retina è appena stata fulminata.

Il pallone è entrato.

DeBusschere è attonito. Il pubblico di Los Angeles in delirio.

Chamberlain, con uno scatto da centometrista, schizza fuori dagli spogliatoi.

Convinto di aver vinto. Convinto che Jerry ce l’abbia fatta.

Jerry ce l’ha fatta, ma ironicamente solo per metà: perché quello che Wilt ha momentaneamente dimenticato è che il tiro da tre sia esclusivo solo della lega gemella, l’ABA.

Nella NBA sarebbe valso due punti anche un tiro preso dalla panchina.

“He makes it! West throws it up and makes it!”. La voce del commentatore dei Knicks è un misto tra ammirazione e sgomenta incredulità. Non ci può credere: aveva segnato un canestro da 20 metri con la stessa naturalezza con cui l’acqua del mare abbraccia uno scoglio. Come se non fosse stato nulla. Come se fosse quasi scontato.

102-102. 20 metri di distanza ma quel tiro comunque non valeva 3 punti.

Gara 3 è riaperta. West ha un solo pensiero in testa: dopo questa perla, c’è un supplementare tutto da giocare; c’è un supplementare da vincere.

Ironia

L’ironia volle che i Lakers persero quella partita. 111-108.

L’ironia volle che un tiro del genere, che dall’annata sportiva 1979-1980 sarebbe valso tre punti, avesse portato soltanto al pareggio.

L’ironia volle che West fosse uscito da una simile prodezza per l’ennesima volta a capo chino, scuro in volto.

La bizzosa ironia. La compagna più fedele dell’intera carriera di una della più grandi leggende del Gioco. Talmente grande da diventare Mr Logo e rappresentare in maniera indissolubile l’NBA.

Di nove finali che giocò ne vinse solo una (1972): una sola vittoria a fronte di otto desolanti sconfitte. Tutti hanno negli occhi quella corsa liberatoria, con l’asciugamano sulle spalle e i capelli svolazzanti, a ubriacarsi di una gioia mai assaporata.

Sempre l’ironia lo incoronò MVP delle finali 1969, pur avendole perse: primo ed unico giocatore nella storia della National Basketball Association.

“Still can’t believe the Lakers lost that game”. Ancora oggi, un distinto signore dai capelli argentei non si rassegna al fatto di aver perso quella partita.

Ironia. Come sia possibile che un rivoluzionario del Gioco, un giocatore talmente superiore rispetto ad avversari e compagni abbia vinto così poco è tutt’oggi uno dei più grandi e affascinanti grattacapi della storia di questa Lega.

Assume quasi i connotati di un mistero, seppur il dualismo Vittoria-Sconfitta sia la base del magnetico fascino dello Sport nella sua totalità: la sconfitta deve sempre essere messa in conto, anche se si ha più talento… anche se si è superiori.

È tuttavia ironico pensare al fatto che West, così come altri grandi interpreti di questo Gioco abbia raccolto un così magro bottino a fronte di quanto dato alla Pallacanestro.

È ironico ritrovarsi a considerare un tiro così geniale e folle al contempo come un semplice passo verso l’illusione. Perché fu vano. Perché la Storia rese a suo modo zoppa la Leggenda.

L’essere umano è un animale dotato di capacità critica e di Ragione. Può la Ragione accettare l’idea che Jerry West sia stato, a suo modo, un perdente? Può la Ragione accettare la freddezza dei numeri, spesse volte assolutamente inconfutabili nelle loro sentenze?

La fortuna di essere umani è che la Ragione sia accompagnata e supportata dall’Emozione; e l’Emozione che nutre l’amore per il Gioco può, fortunatamente, valicare la ragion di logica e spingerci a guardare a quel tiro e a Jerry West per quello che sono: una goccia poetica in quell’oceano che fu la sua Leggenda.

Perché Jerry West è stato leggendario.

Perché per ogni giocatore moderno che compie una simile prodezza ci sono quelle tremule immagini in bianco e nero a sancire che qualcuno, prima, ci aveva già pensato.

Qualcuno prima lo aveva già fatto.

Quando ancora era impensabile. Quando ancora, ad un simile gesto, non si poteva corrispondere un adeguato valore.

I numeri dicono che Jerry West fu un perdente.

L’amore per la Pallacanestro che fu una delle figure più poetiche della storia del Gioco stesso; e quel tiro, nelle sue molteplici sfumature, una delle sue opere più belle.

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