Cosa significa aver vissuto in pieno l’uragano Jeremy Lin? Personale ma accorato tentativo di spiegarsi la Linsanity, ad ormai sei anni di distanza dalla sua accaduta.


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I cambiamenti, nel corso delle nostre esistenze, presentano molteplici sfumature e declinazioni. Più o meno dolci; più o meno sofferte. Una di queste è rappresentata da una decina di scatoloni pieni zeppi di cianfrusaglie e ricordi; impilati apparentemente alla rinfusa in una stanza vuota i cui muri odorano ancora di vernice fresca.

A nemmeno 24 anni, la malinconia del “te ricordi” non la sento ancora troppo mia. Un po’ perché credo che essa scandisca il giro di boa della mezza età, un po’ perché si è nell’età tipica della propulsione verso il futuro; con solo qualche sporadico occhio di riguardo nei confronti del passato. Eppure, nella monotona catena di montaggio dello “svuota e rimetti a posto”, accade che ti capitino tra le mani pezzi di vita che ti eri scordato. Come una copia del giornalino del liceo. E in fondo a 16 pagine di articoli di pretenziosa foggia intellettuale e politica, compariva, in uno sbrodolìo di punti esclamativi e inglesismi in maiuscolo, il mio pallido e forzato tentativo di raccontare ai compagni di scuola cosa stesse significando per il mondo NBA l’impatto di un inaspettato asteroide.

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Uno sguardo alla panchina, derelitta. Uno al campo. Il volto scavato dall’angoscia per una situazione talmente buia e abulica da estirpare a chiunque la voglia di ravvivarla. Mike D’Antoni sente dentro di sé che la sua permanenza alla guida dei New York Knicks è ormai in via di sepoltura. Ennesimo ad averci provato. Ennesimo ad aver fallito, in quella che ormai più che una piazza sembrava un autentico paradosso. Fischi al Draft, per le scelte della dirigenza; fischi al palazzo, per lo spettacolo tutt’altro che edificante inscenato il più delle sere dai blu-arancio; eppure il popolo di New York non faceva mai mancare il tutto esaurito, forse nell’incrollabile certezza che prima o dopo la svolta sarebbe arrivata. Anche se la rinascita, sotto di 4 contro degli altrettanto sbiaditi New Jersey Nets in quel che era lo spettro di un derby, pareva essere lontana anni luce.

“Jeremy… Let’s go.” Ovazione. Un po’ perché tra i paradossi del pubblico newyorkese c’è quello di aver sempre apprezzato particolarmente gli outsiders: quei giocatori che alla voce “scelta n°” recano a chiare lettere “UNDRAFTED”. Le braccia conserte e il masticare di un chewing-gum con fare sconsolato, accompagnano la corsa al cubo del cambio di un ragazzo che, cosciente o incosciente, stava per cambiare per sempre la propria carriera. Jeremy Lin era, nella testa di Arsenio Lupin, l’ultima spiaggia nel tentativo di ravvivare la linea di un encefalogramma ormai desolatamente piatto.

La prima vera occasione, dopo sere di garbage time – e non sul +20 con la partita in cassaforte. Il 17 gennaio, mentre i Knicks naufragavano in casa contro i Bucks con un assordante 100-86, Lin dominava la sua unica partita di D-League per l’annata 2011-2012 con 28 punti, 12 assist e 11 rimbalzi. Visto il suo scarso impiego, New York aveva deciso di spedirlo per una gara agli Erie BayHawks. Per vedere cosa sarebbe successo. L’exploit messo in scena aveva riportato immediatamente il taiwanese d’America alla casa madre. A continuare a fare panchina.

Meno di un mese dopo, con il trentatreenne Baron Davis – firmato come il salvatore della patria con un contratto annuale – fermo ai box da inizio stagione per via di un’ernia discale, e la scarsa affidabilità di Toney Douglas nel ruolo di Point Guard, Lin si apprestava a fare il proprio ingresso in campo a poco meno di quattro minuti dalla fine del primo quarto. Con un’intera partita davanti a sé nella quale sbugiardare il fare da “Provo tanto per provarci” di D’Antoni.

Prima palla utile. Pick&roll in punta con Tyson Chandler verso destra con scarico a Landry Fields. Palleggio, arresto, tiro e canestro con un occhio di riguardo da parte degli dei del Gioco. Il battesimo del match è segnato con un assist per colui che soltanto la notte prima gli aveva offerto un divano su cui dormire. Per i primi due punti di serata, bisogna attendere l’inizio del secondo periodo. Gioco a due con Toney Douglas – e con New York sotto di 10 lunghezze – e chiusura di energia al ferro dopo due palleggi forti. Rimessa Nets, furto nella metà campo difensiva e assist per Douglas. Mini-parziale Knicks in un amen di 4-0. Il “Nerd” nato a Palo Alto e uscito con ottimi voti dalla facoltà di economia di Harvard era entrato in partita col coltello fra i denti. Facendo carburare l’entusiasmo degli instancabili 20’000 presenti.

Lo speaker dei Knicks ne scandisce il nome. I telecronisti, piacevolmente colpiti, ne constatano la prontezza: alla seconda partita consecutiva nella quale D’Antoni gli concedeva dei buoni minuti, il 17 si stava dimostrando pronto a cogliere la propria occasione. E a fare di più: al secondo pick&roll + assist – con 2 punti, 3 rimbalzi e 1 steal – in poco più di 4 minuti sul parquet, il time-out obbligatorio dei Nets è accolto dai tifosi con una nuova atmosfera. Dalla sorpresa, in un respiro, si era passati alla speranza.

Alla sirena del primo tempo il rientro dei Knicks è completato, dietro di sole due lunghezze ai cugini. Il tabellino di JL recita 6-4-3-1. Ma la cosa più importante: “Jeremy Lin continues to excite this crowd!”

Sin dai tempi del college e nelle varie uscite nella Lega di sviluppo, per conto dei Warriors prima e dei Knicks poi, aveva dimostrato di essere un buon attaccante. Ma, essendo un oggetto misterioso fino a 24 ore prima, non si poteva fare a meno di rimanere colpiti dal controllo delle sue giocate e dalla sua abilità nel trattamento di palla. Senza contare la naturale sapienza con la quale aveva sin lì interpretato i giochi che coinvolgevano i lunghi. Da uomo squadra, da punto di riferimento tecnico e tattico. Capace persino di mettere in ombra quella che doveva essere la stella indiscussa, un Carmelo Anthony in evidente difficoltà fisica.