Un travagliato percorso NBA, e la fama di piantagrane, non hanno sconsigliato le Filippine dall’offrire la cittadinanza a Andray Blatche e farne il simbolo della loro Nazionale. I risultati sono alterni, ma l’amore è incrollabile.
Il 30% della popolazione filippina è davanti al televisore, la sera dell’11 agosto 2013. La finale dei Campionati Asiatici di pallacanestro, giocati in casa, va in scena alla Mall of Asia Arena di Pasay, gremita di ventimila fan assatanati. L’avversario è tosto: l’Iran ha passeggiato per otto partite e ha vinto due delle ultime tre edizioni della manifestazione. Alla sirena dell’intervallo conduce di un punto; i filippini, spinti dal proprio pubblico, stanno giocando con grande coraggio, ma l’eccesso di foga ed entusiasmo li porta a commettere errori grossolani uno dopo l’altro, alzando il numero di palle perse ben oltre la doppia cifra.
Nel secondo tempo i persiani dilagano, chiudendo la partita con un doloroso +14, trascinati dal gigante con esperienza NBA Hamed Haddadi, che chiude la finale con 29 punti e 16 rimbalzi. La differenza tra lui e i pari ruolo filippini è devastante e la sconfitta lascia coach Chot Reyes con una convinzione: per fare un salto di qualità, la squadra ha bisogno di un lungo naturalizzato che guidi i compagni, un giocatore di talento superiore rispetto all’americano attualmente a sua disposizione, il fedele ma limitato Marcus Douthit.
Quantomeno, la medaglia d’argento ha qualificato le Filippine per i Mondiali di Spagna dell’anno successivo, appuntamento che manca dal 1978. Reyes e la Federazione vogliono presentarsi nel migliore dei modi e decidono di partire con la campagna di reclutamento di un big man di area NBA. Una volta trovato il giocatore adatto, l’obiettivo a breve termine è quello di ottenere una o due vittorie nell’ostico girone capitatogli in sorte (Argentina, Porto Rico, Croazia, Grecia e Senegal). Quello più a lungo termine: fare in modo che egli guidi la squadra alla vittoria del prossimo Campionato Asiatico del 2015, attraverso il quale ci si qualificherà per le Olimpiadi di Rio 2016. Il primo giocatore a essere contattato è JaVale McGee.
Il giocatore giocò due partite d’esibizione in quel di Manila durante il lockout del 2011, accompagnato da colleghi del livello di Bryant, Durant e Chris Paul, conquistandosi un posto speciale nel cuore dei tifosi filippini. Ma nell’estate del 2013 Javalone sta passando seri guai fisici che lo costringono a un’operazione per curare una frattura da stress alla gamba, quindi Reyes deve cambiare orizzonti.
Il secondo uomo a finire sul suo taccuino è Andray Blatche, amico di McGee dai tempi burrascosi dei Washington Wizards, in cui sono stati compagni. La notizia dell’approccio della Federazione filippina fa molto rumore negli USA: com’è possibile che un ragazzo cresciuto a Syracuse, N.Y. senza nessun legame con il paese possa ottenere una cittadinanza cosi facilmente?
Poveri ingenui: in Europa la tradizione di giocatori americani naturalizzati, chiamati a rinforzare squadre nazionali alla caccia di un posto nel basket che conta, è lunga e piena di esempi vincenti.
È il caso di J.R. Holden, sbarcato al CSKA nel 2002 e che in meno di un anno aveva ottenuto un passaporto russo perché in possesso di “capacità d’interesse della Federazione”, finendo per decidere una finale degli Europei. E che dire dell’ex senese Bo McCalebb diventato, in meno di un’estate, Borche McCalebovski, portando la Macedonia a un incredibile quarto posto ad EuroBasket 2011, da top scorer della manifestazione. O più recentemente Anthony Randolph, che ha ricevuto un passaporto sloveno attraverso una corsia preferenziale, aggregandosi a Doncic e Dragic e contribuendo immensamente alla conquista dell’ultimo titolo europeo. Anche Croazia (Draper, Lafayette), Ucraina (Jeter) o Montenegro (Rice) hanno compiuto operazioni simili, che finché permesse dalla legge possono essere criticabili, ma del tutto legittime.
Come nel resto del mondo, anche nelle Filippine il modo più semplice per ottenere un passaporto da non nativo è trovare un parente nell’albero genealogico: non sembra essere quello di Blatche il caso… Per circostanze simili serve che un disegno di legge passi a entrambe le camere del parlamento di Manila, prima che venga approvato dal presidente della repubblica stesso. La proposta arriva a Blatche mentre è iniziato il training camp dei suoi Brooklyn Nets: dire che la notizia lo colga di sorpresa è decisamente un eufemismo. Finito l’allenamento, Andray viene approcciato dai giornalisti e, in linea con il suo stile, conferma comicamente il rumor internazionale che lo vuole come prossimo giocatore della nazionale filippina. Perplessità e confusione regnano sovrani, ma Blatche, nell’inaspettato, ci sguazza: “Non ho ancora capito bene cosa succederà. Mi hanno parlato di questa possibilità e mi sono detto – Hey, non è una brutta idea… – Onestamente, è stata una vera sorpresa”.
Dopo aver chiesto ai giornalisti presenti di essere chiamato col suo nuovo soprannome (Young Seymour, perché quando è in campo “il pubblico vuole vedere sempre qualcosa in più”, “see more”…), dalla stampa sorge spontanea una domanda: perché proprio le Filippine? “Beh lo sanno tutti, sono mezzo filippino, finalmente torno a casa…”. E gli scherzi continuano, suggerendo di essere imparentato con Marivic Lardizabal, la manager dei Nets originaria dell’arcipelago. Poi, finalmente, Blatche si fa più serio.
“La vedo come un’opportunità di visitare un luogo che non conosco e un buon modo per tenermi in forma e arrivare pronto al training camp e alla prossima stagione.”
Niente baci della maglia, insomma. Il mondo di Andray Blatche è un luogo particolare, ben prima di questa vicenda. Non ha mai fatto del raziocinio e della professionalità i suoi marchi di fabbrica: è noto per aver gestito una serata in uno strip club di Miami, per aver scambiato una poliziotta in borghese per una prostituta e per essere stato arrestato per guida spericolata; ha litigato con tutti gli allenatori che ha avuto, ha offerto uno spettacolo pietoso nel disperato tentativo di registrare una tripla-doppia, arrivava talmente fuori forma ai training camp che a un certo punto gli Wizards lo misero fuori rosa con l’amnesty clause, letteralmente pagandolo per non giocare. Oltre al carattere eccentrico, però, c’è anche un giocatore che da un punto di vista tecnico farebbe gola a molte squadre, soprattutto se alla disperata ricerca di talento. 211 cm e 120 kg di pura e folle improvvisazione, una guardia intrappolata nel corpo di un centro, con buoni movimenti spalle a canestro a cui si aggiungono fade-away e ball handling da playground. Non tutto avviene sotto controllo, questo è certo: ma l’imprevedibilità è anche la sua arma migliore, e dà comunque buoni frutti (9 anni di carriera NBA chiusi oltre la doppia cifra di media, record 16.8 nel 2011). Coach Reyes e la Federazione filippina sono pronti a correre il rischio e il processo di naturalizzazione parte a grande velocità. Il maggior promotore della legge, il senatore Juan Edgardo Angara, trova pochissima opposizione, tranne quella di Jinggoy Estrada, che interroga il collega sull’immagine che il paese darebbe di sé garantendo la cittadinanza a un americano che non ha mai messo piede nel Paese. Ma con una dichiarazione ufficiale, Blatche dichiara la sua intenzione di integrarsi, abbracciare usi e costumi, tradizioni e ideali. L’11 giugno, il presidente della repubblica Benigno Aquino III fa di Andray Blatche un autentico filippino. Persino Estrada è convinto, chiedendo e ottenendo di essere immortalato in una fotografia con Young Seymour.
“È un giorno particolare per me, sono molto felice. Non sento pressione, anzi, sento affinità con la passione e l’amore per il gioco dei filippini. Qui tutti respirano, dormono e mangiano basket, ho visto gente giocare con le infradito o in campi completamente allagati. Sono pronto a dare il massimo per questo popolo”.
Un po’ di pressione è invero inevitabile, sia nelle Filippine, sia a livello internazionale, dato l’alto profilo di Blatche rispetto agli altri naturalizzati americani in giro per il mondo: giocatori che, per la maggior parte, l’NBA l’hanno vista solo in televisione. All’arrivo in giugno a Manila, Blatche si lancia nella più classica delle captatio benevolentiae, con una frase in tagalog, la principale lingua delle filippine: “#LabaPilipinasPuso!”. Purtroppo però la parola giusta era Laban (“combatti”), anziché Laba (“lavanderia”), trasformando l’espressione motivazionale in una barzelletta… C’è un’attesa spasmodica per il raduno, previsto a Miami, in cui tra timore reverenziale e venerazione dei compagni, i dubbi maggiori sono sull’atteggiamento di Blatche e sulla sua integrazione o meno con una rosa di livello palesemente inferiore. Ogni tipo di dubbio si sgretola appena la palla gli arriva tra le mani. Si comincia con un tiro da tre in transizione; si prosegue con una ricezione fuori dall’arco con partenza in palleggio, cambio di mano in mezzo alle gambe, lasciando in uno smarrimento esistenziale il difensore, per poi chiudere in estensione con una schiacciata devastante. L’allenamento viene sospeso per qualche minuto quando, in contropiede, Blatche mostra una serpentina degna di Garrincha tra tre difensori, con una combinazione letale di hesitation, palleggi dietro la schiena e crossover: tutti i presenti cominciano a urlare e a imitare le sue mosse, deridendo le vittime sacrificali. È amore a prima vista.
“Certo che avevo dei dubbi, temevo avrebbe vissuto isolato dal gruppo: invece ha abbracciato la causa dal primo momento, facendosi coinvolgere e coinvolgendo i nuovi compagni. Tutti abbiamo tirato un sospiro di sollievo quando, invece della star NBA bizzosa, abbiamo visto un ragazzo desideroso di legare con tutti. Negli ultimi anni, Andray è maturato molto e comunque noi filippini non abbiamo mai avuto paura di gestire giocatori difficili, nella PBA ne abbiamo avuti a bizzeffe…”
Chot Reyes ha ragione, oltre ad essere un personaggio non meno istrionico di Blatche. La Lega filippina ha una lunga tradizione di giocatori americani dal talento immenso, che per colpa del loro carattere sono stati respinti dalla NBA. Su tutti Billy Ray Bates, detto “Black Superman”, venerato nell’arcipelago come un semidio, che nelle sua carriera filippina ha tenuto una media di 46 punti in poco meno di 100 partite, nonostante si presentasse alle palle a due costantemente ubriaco e fosse circondato da un numero indefinito di concubine. O più recentemente, l’ex New York Knicks Renaldo Balkman, che ha ricevuto un bando a vita dalla PBA (revocato solo nel marzo 2018) dopo aver spintonato e minacciato arbitri, avversari e compagni durante una partita. Dalle prove si passa ai fatti, con le prime amichevoli pre-mondiali che sono piuttosto incoraggianti. Arrivano alcune sconfitte di misura con squadroni come Francia e Australia e una bella vittoria contro l’Egitto. Blatche, contro i nordafricani, subisce una piccola distorsione alla caviglia, restando fuori in via precauzionale nel match successivo contro l’Ucraina. Risultato: sconfitta di 50 punti per i Gilas… La sua presenza, in meno di due mesi, è diventata imprescindibile. In questa serie di partite si vede tutto il Blatche che c’è in lui: 33 punti e 17 rimbalzi contro Angola, 0/11 dal campo contro l’Egitto. A volte scherza i difensori con facilità, altre palleggia per 20 secondi per poi lanciare un mattone che non prende neanche il ferro sulla sirena. Rispetto alle sue scorribande NBA, però, qualcosa è cambiato. Al suo gioco si è aggiunta una caratteristica esclusivamente filippina: il puso. Nella lingua tagalog significa “cuore”, “passione”, ma è un concetto che va oltre, che si attacca all’idea dell’underdog, il perdente che si prende una rivincita. Blatche si identifica bene in questo ideale, e la prima partita dei Mondiali 2014 lo dimostra.
Il 30 agosto, a Siviglia, va in scena Croazia-Filippine, una sfida, sulla carta, impossibile. Infatti gli uomini di Repesa partono forte e il primo quarto si chiude sul 23-9, con Bogdanovic che fa quello che vuole.
Ma nel secondo quarto i Gilas prendono coraggio e con il loro tipico gioco, un caotico run and gun e un agonismo furibondo, sorprendono i croati e accorciano le distanze all’intervallo. Dopo un terzo quarto interlocutorio, il cuore filippino esagera, chiudendo la rimonta e arrivando ad avere la palla in mano per vincere la partita. Blatche in tutto questo? 28 punti con 3/4 da tre punti e 12 rimbalzi in 41 minuti di grande intensità. Puro puso. Purtroppo il tentativo sulla sirena di Jeff Chan, con Blatche tenuto sulla linea di metà campo dalla pressione difensiva croata, finisce sul ferro, e nel supplementare i balcanici riescono a far loro la vittoria. Le partite successive sono altre sconfitte più che onorevoli per le Filippine, che, fatta eccezione per i dodici punti di svantaggio contro la Grecia, cedono a Porto Rico e Argentina di sole quattro lunghezze.
Prima della storica vittoria contro il Senegal, in un’altra partita thriller chiusa al supplementare, con Blatche e l’ala Fajardo che combinano bene e il capitano Jimmy Alapag particolarmente ispirato che chiude la gara con 18 punti e 4 assist. Uscendo dal campo, coach Reyes si batte il pugno sul cuore: la federazione può considerare un successo la spedizione spagnola. Blatche chiude la competizione con 21.2 (terzo miglior marcatore), 13.8 (miglior rimbalzista) e il 50% esatto dal campo (notevole per essere quello che ha preso più tiri a partita), dimostrando che l’esperimento ha funzionato alla grande. Da quella storica estate, la collaborazione tra Young Seymour e i Gilas continua regolarmente con risultati non del tutto convincenti. Non è arrivato il pass per le Olimpiadi di Rio, né la vittoria ai giochi asiatici, persi in finale contro la Cina; inoltre un evento ha messo a rischio la partecipazione ai Mondiali 2019. L’ultima partita di qualificazione, disputata dai Gilas l’1 luglio a Manila contro l’Australia, è stata sospesa nel terzo quarto, coi Boombers in netto vantaggio. La guardia filippina Roger Pogoy colpisce Chris Goulding, mandandolo a terra. Di tutta risposta, l’ala australiana Daniel Kickert risponde colpendo duramente Pogoy sul volto. A quel punto interviene Blatche, dando il là ad una delle più clamorose risse che si siano viste negli ultimi anni, con un totale di tredici espulsioni.
Blatche non sembra pentito di quello che ha fatto. “Hanno colpito un mio fratello alla testa in quel modo: cosa avrei dovuto fare, restare a guardare?!” Se non è puso questo…