La storia del cammino di P.J. Tucker sino alle NBA Finals: tra Italia, Israele e Ucraina… con Kevin Durant sempre nel proprio destino.

10 giugno 2021.

Fiserv Forum, Milwaukee, Winsconsin.


Da noi è notte fonda. Dall’altra parte dell’oceano è una sera speciale.

Si gioca Game 3 tra i Brooklyn Nets e i Milwaukee Bucks.

Brooklyn comanda per 2 a 0. Fa paura. È uno dei migliori roster della storia NBA. Sembra imbattibile, anche senza James Harden, infortunatosi dopo 43 secondi nella prima partita della serie.

L’atmosfera è incredibile. L’apprensione alle stelle. Sembra non essere reale. Dopo la sofferenza, i sacrifici e i dolori di un anno e mezzo di pandemia l’arena di Milwaukee torna piena. Ci sono più di 16 mila spettatori. Non c’è nemmeno uno spazio vuoto.

Sugli spalti sono tutti in piedi.

C’è chi è teso, terribilmente spaventato da Kevin Durant e Kyrie Irving, c’è chi è più tranquillo e con una mano sorseggia una Coca Cola mentre l’altra impugna stretta un hot-dog. Però lo sguardo di ogni tifoso nasconde una lacrima di gioia, di passione verso uno sport che è un’autentica montagna russa d’emozioni.

Palla a due. Comincia la partita.

È un sali e scendi continuo. I Bucks iniziano fortissimo, più 19 a fine primo quarto. Poi i Nets tornano vicini. E ancora, canestri da una parte e dall’altra. Anzi, vincono le difese. Vince Milwaukee 86 a 83. Vince P.J. Tucker.

Chi?

Sì, avete letto bene: P.J. Tucker.

Ma come? Ha fatto 0 punti, 1 solo rimbalzo e 2 assist in 33 minuti giocati. Nulla di più, neanche una palla rubata o una stoppata.

Appunto, questo è il suo sogno.

E la colonna sonora di questo sogno sono i 16 mila tifosi al Fiserv Forum che intonano «Defense. Defense», così Tucker china la testa, divarica le gambe, si concentra al massimo e fissa dritti gli occhi su Durant.

I due sono separati da 12 centimetri, un bagaglio tecnico cestistico infinito e 32 milioni di dollari percepiti all’anno. Chiaramente tutto a favore del miglior attaccante della storia della pallacanestro.

Quella sera KD segna comunque 30 punti. Tanti, ma non troppi. Non si può annullare un giocatore del genere, al massimo lo si limita. E P.J Tucker lo sa fare benissimo.



«Tutti sognano di fare tanti canestri e mettere il game-winner sulla sirena. Io no. Amo quello che faccio. Sembrerò fuori di testa, but this is my dream. E lo sto vivendo proprio ora, marcando Kevin Durant».

I due sembrano odiarsi, in campo se le danno di santa ragione. Sempre in quella speciale sera del 10 giugno i due arrivano a scontrarsi testa a testa. Ma invece sotto sotto si vogliono bene. Non solo si stimano, sono amici, ma anche si conoscono da tempo.

È il 2006, un neanche 18enne Durant arriva al campus dell’University of Texas, a Austin. Vuole giocare a pallacanestro, 1 contro 1. Di solito i più grandi non ci pensano nemmeno a sfidare le nuove reclute, finché P.J Tucker, al suo ultimo anno, gli cede la palla e si mette tra Kevin e il canestro.

«Era come se lui fosse al college e io all’high school», racconta P.J. dopo aver giocato contro KD per la prima volta.

Quella è la sua terza stagione a Austin. È un buon giocatore, con un totale di 13.4 punti e 8.2 rimbalzi a partita. Così si rende eleggibile al Draft del 2006.

Le statistiche sono ottime, le prestazioni pure, però ha un enorme problema. P.J. è un tweener, ovvero un giocatore a metà. Non può far parte del backcourt perché non è abbastanza rapido e agile per stare sul perimetro, ma allo stesso momento non è abbastanza lungo per poter giocare nel pitturato. Non ha una sua posizione. E per di più quelli sono i primi anni 2000 e giocatori del genere non entrano nemmeno nei radar NBA.

Non palleggia, né ha la visione di un play; non ha il tiro di una guardia (in tre anni di università ha provato solo 4 triple) o la rapidità di un’ala e nemmeno la fisicità di un centro con i suoi soli 196 centimetri.

Il destino a volte gioca brutti scherzi. Tucker supera il metro e novanta da quando è ragazzino. Si pensava potesse andare oltre i 210 centimetri, invece è rimasto fermo. E così la provvidenza ha disegnato il cammino del ragazzo di Raleigh, North Carolina, verso l’NBA in modo tortuoso, quasi insormontabile, colmo d’imprevisti e colpi di scena.

Questa storia però sembra iniziare bene. A quel Draft viene effettivamente chiamato. Tardi, con la 35esima scelta, ma firma un contratto con i Toronto Raptors.

Un contratto che dura molto poco.

17 partite in NBA e 83 minuti complessivi senza lasciare mai il segno. I Raptors prima lo mandano in D-League, ai Colorado 14ers, poi, prima della fine della stagione da rookie, lo tagliano.

P.J. è perso, ma non si arrende. Anzi. Nella vita, come sul parquet, non molla mai. È sempre pronto a rialzarsi, a tirare fuori il petto e lottare di nuovo. Combatte, stringe i denti proprio come fa sotto canestro dal basso dei suoi 196 centimetri.

In NBA non ha trovato il suo posto e nemmeno il suo ruolo, capisce che è subito il momento di andare nel vecchio continente, dove l’estetica e l’abilità offensiva contano meno, la difesa e l’intensità di più.

«Sapete cosa? Forse l’NBA non fa per me».

Riparte dall’Israele, dall’Hapoel Holon, una squadra vicina a Tel Aviv. In campo scarica tutta la sua rabbia e delusione in energia e così termina l’egemonia del Maccabi dopo 14 campionati consecutivi, vincendo anche l’MVP della stagione e delle Finals.

Poi continua il suo viaggio in Europa, andando a 23 anni al BK Donetsk, in Ucraina, dove prima di una partita il proprietario della squadra arriva in spogliatoio, apre una valigetta piena di contanti, e dice: «se vincete a ognuno di voi spettano 10 mila dollari».

Ovviamente finiscono sul più 50, tanto per stare più tranquilli.

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Dopo due stagioni tra Ucraina e la Terra promessa (dove è tornato verso la fine della seconda), vola in un campionato più competitivo e duro: va all’Aris Thessaloniki, in Grecia. E chiude quell’anno, il 2011, proprio da noi, in Italia, a Montegranaro – un paesino di quasi 13 mila abitanti a sud di Ancona, nelle Marche – salvando la Sutor nelle ultime tre partite di Serie A.

Sempre nel 2011 fa una piccola esperienza anche in Porto Rico, e l’anno successivo finisce al Brose Bamberg, dove ancora una volta dimostra di essere ai massimi livelli vincendo campionato, coppa ed MVP delle Finals.

«Tornare in USA? Preferisco stare qua in Europa, piuttosto che essere l’ultimo della panchina in NBA senza mai avere una chance. Mi sono costruito il mio nome aldilà dell’oceano. Non voglio tornare».

Dopo 5 stagioni da nomade in diversi campionati europei, ha capito che questa è casa sua, è la sua pallacanestro. Qui, nel vecchio continente si sente a proprio agio, ha perfino decisamente migliorato il suo tiro da 3.



«Follow the Moskva Down to Gorky Park Listening to the wind of change»

Wind of Change. Il vento del cambiamento.

Così cantavano gli Scorpions nel 1990, pochi mesi dopo la caduta del Muro di Berlino. Un inno al Mondo, alla Germania di nuovo unita.

E così anche nelle orecchie di P.J. fischietta un vento di cambiamento. Ma stavolta non viene dal Gork’kij Park, ma dai Giardini di Peterhof. Non segue la Moscova, ma il Neva. Non è Mosca, ma è San Pietroburgo.

Perché nell’estate del 2012 è ancora più sicuro che non lascerà mai il basket europeo. Manca solo la sua firma su un contratto di due milioni di euro in due anni con il BC Spartak San Pietroburgo.

Finalmente un contratto milionario, pensa. Gli pare di aver raggiunto il massimo. A 27 anni quello è il picco della sua carriera, la cima dopo un interminabile cammino.

E invece nella vita di P.J. nulla è scontato. La sua vetta non si chiama San Pietroburgo, anche perché non metterà mai piede in un palazzetto russo. La firma con lo Spartak non arriverà mai.

La pallacanestro è in perpetua evoluzione, in metamorfosi continua. I tweener, da ripudiati e insultati, con il tempo sono diventati la pietanza preferita dei general manager NBA. Giocatori abilissimi sia in difesa, sia in attacco, soprattutto dal perimetro. I famosi e utilissimi 3&D, e Tucker con il lavoro fatto e l’esperienza acquisita dalla nostra parte dell’oceano, forse, potrebbe finalmente trovare un suo spazio anche negli USA.

Wind of change, dicevamo.

Infatti il basket è cambiato e con esso anche l’opinione di P.J. negli States.

Cominciano a chiamare in molti, su tutti i Phoenix Suns del GM Lance Blanks, un grande amico di Tucker fin dai tempi del college.

Eppure lui inizialmente rimane della sua idea. Vuole giocare a San Pietroburgo. Poi la moglie Tracey insiste e l’agente Andre Buck lo convince a rischiare, a mollare tutto quello che ha creato in Europa.

«Se non fosse stato per loro due non avrei mai preso questa decisione. Per me era folle. Dopo, però, è diventata la migliore scelta della mia vita.»

Gioca la Summer League con i Suns, fa un’ottima impressione e strappa una firma. Sceglie di sacrificare diverse migliaia di dollari, lasciandoli in Russia, in cambio di una chance in NBA. Una chance segnata proprio da quel ragazzino che aveva sfidato 1 contro 1 a Austin 6 anni prima. Nel destino di P.J. c’è un nome chiaro: Kevin Durant.

31 dicembre 2012.

Ha iniziato come quindicesimo uomo, dimenticato nelle gerarchie, ma quell’ultimo dell’anno comincia per la prima volta da titolare. È passato dall’avere un contratto non garantito, a partire in un quintetto NBA. L’anno prima nessuno quasi sapeva della sua esistenza; ora è lì, prepotentemente.

Quella sera i Phoenix Suns sfidano gli Oklahoma City Thunder. Ovviamente è subito P.J Tucker contro KD.

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Lo sappiamo, quello è il suo sogno. I tifosi intonano “defense”, P.J. china la testa, divarica le gambe, si concentra al massimo e fissa dritti gli occhi su Durant.

A Phoenix ci rimane per 4 stagioni e mezzo. È arrivato dall’Europa, dalle leghe “inferiori”, ma in meno di 5 anni si è rintagliato il suo piccolo grande spazio in NBA. E oggi, nel luglio 2021, è pronto a tornare nella Valley of the Sun, ma questa volta con un’altra maglia, quella dei Milwaukee Bucks, all’inseguimento del Larry O’Brien Trophy.

Ma tra Arizona e Winsconsin, torna prima per poco a Toronto, dove tanto non l’avevano voluto, per poi volare in free agency in Texas, agli Houston Rockets di Mike D’Antoni.

Arriva a Houston trentunenne – firma un contratto di 4 anni per 32 milioni, alla faccia dei 2 di San Pietroburgo – eppure mostra di non avere limiti. Mostra di poter giocare in qualsiasi situazione. Ma soprattutto impara il valore del tempo, dell’attesa. Capisce che non deve avere fretta. Può lasciare palleggiare Harden per 23 infiniti secondi. E poi magari in un solo attimo farsi trovare pronto, nell’angolo, per lasciar partire la sua tripla.

Oppure anche in difesa. Deve essere cauto e non frenetico. Deve aspettare il momento giusto per allungare il braccio e mettere in difficoltà l’avversario.

«Nessuno vuole essere paziente. Si vuole tutto subito. Ma io sono diverso. Ho capito che nella vita si deve aspettare», racconta di se stesso.

P.J. sa che non deve mai perdere la calma, anche se ogni volta che pare essere a un passo delle Finals arriva il solito Kevin Durant a rovinargli le feste. Ma lui lo sa: arriverà il suo momento.

Prima nel 2018, nelle fantastiche sette gare delle WCF, i Warriors vincono solo all’ultima partita, poi l’anno successivo, nel 2019, ancora Golden State di KD e degli Splash Brothers si schiantano in 6 gare sui Rockets guidati da James Harden e CP3, ma sorretti da un immenso P.J. Tucker, che prende pure i complimenti dello stesso Durant:

«P.J. is the best one-on-one defender in the World».

Diciamocelo: detto dal migliore attaccante 1vs1 della storia vale ancora di più.

Poi ancora un ultimo anno completo a Houston, senza Chris Paul, ma con Westbrook e i Rockets della small ball, usciti al secondo turno dei Playoffs nella Bolla d’Orlando contro i Lakers, futuri campioni.

Fino ad arrivare a oggi, nel 2021.

Un anno complicato, iniziato ancora una volta in Texas, ma con la franchigia in evidente ricostruzione dopo la cessione del Barba ai Nets – guarda a caso – di KD.

Così P.J. dopo 9 lunghe stagioni in NBA ha bisogno di vincere, di alzare quel maledetto trofeo che più volte gli è stato soffiato all’ultimo. Chiede a coach Silas, che ha sostituito D’Antoni a Houston, di non farlo scendere in campo finché non lo chiamerà una nuova squadra.

Mike Budenholzer da Milwaukee alza la cornetta e lo chiama alla corte di Giannis Antetokounmpo. Tucker, ovviamente, risponde presente e porta le sue triple dall’angolo, l’esperienza, l’aggressività, la leadership e la difesa contro Durant in Winsconsin.

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Già, perché ancora una volta il suo cammino deve incrociare quello di Kevin. Dopo il facile sweep dei Bucks sugli Heat ci sono i Brooklyn Nets dei Big 3.

Quindi, per l’ennesima volta, nell’arena rimbomberà la parola “defense”, e P.J. chinerà la testa, divaricherà le gambe, si concentrerà al massimo e fisserà dritti gli occhi su Durant, senza abbandonarlo per un secondo.

È uno dei migliori KD di sempre. Ai Playoffs non ha mai segnato così tanto. Dopo l’infortunio di Irving in Gara 4 trascina letteralmente da solo la squadra fino a Game 7.

19 giugno 2021.

Bucks-Nets, win or go home.

P.J. lo sa: è l’ultima occasione. Ha tremendamente paura. Mancano 6 secondi. 109-107 per Milwaukee. Rimessa Brooklyn. Palla che ovviamente finisce nelle mani di Kevin Durant. Tucker prende un bel respiro e vive quei 6 secondi in apnea. Guardando in faccia la tempesta. Rimane attaccato a KD. Il 7 in maglia nera mette giù la palla a spicchi. Il nostro protagonista non lo lascia scappare. È una difesa impeccabile. Kevin mette schiena a canestro sulla linea da tre punti. Si gira. Nulla da fare. Fadeaway da oltre 7 metri. Non è possibile. La palla buca la retina.

P.J. non ci crede. Di nuovo, pensa. Ancora una volta. Però gli arbitri corrono allo schermo a rivedere il tiro. KD ha un’unghia del piede sinistro sulla riga. Vale due punti. È 109 a 109. C’è ancora vita per i Milwaukee Bucks. Tucker riprende a respirare. Overtime.

Di nuovo più due Milwaukee a pochi secondi dalla fine. P.J. è fuori per falli. Su Durant ci finisce Jrue Holiday. Nash inspiegabilmente non chiama il time-out e KD riprova la magia di prima. Fadeaway da lontanissimo: airball. I Bucks passano alle Eastern Conference Finals 113 a 111. Tucker, per la prima volta, ha superato il suo amico diventato nemico.

Dopo ci sono gli Atlanta Hawks di Trae Young. Una squadra bella, giovane, esplosiva ma sulla carta inferiore ai Bucks, ancora di più se in Game 3 Young s’infortuna alla caviglia in uno dei modi più impensabili, andando a contrasto con un direttore di gara. La serie si chiude in 6 partite. Dopo la brutta caduta sul ginocchio di Giannis si pensava potessero essere anche di più.

Ma ora arrivano le Finals. Arriva il momento della verità. Il momento che Tucker ha sempre atteso. Davanti a sé ci saranno i Suns, un’ottima squadra, ben organizzata. Ritroverà un CP3 voglioso di ribalta e uno scorer fenomenale come Devin Booker.

E ancora una volta P.J., dal destino poco fortunato, stringerà i denti e lotterà fregandosene se i suoi avversari hanno 20 centimetri in più e hanno 10 anni in meno o sono decisamente più rapidi. Ed è proprio per questa sua capacità di superare ogni limite, ogni pronostico, che fa innamorare tutti di sé.

D’altronde durante Game 7 a Brooklyn, pure mamma Durant gliel’ha detto: «P.J., I love you too!».