Coach Will Hardy ha preso le redini dei Jazz in un momento molto delicato, la ricostruzione, ma i risultati stanno andando (ben) oltre le aspettative.

Will Hardy sulla panchina dei Jazz
FOTO: SB Nation

Siamo ancora molto vicini agli Oscar e sono sicuro che Sorrentino mi perdonerà il gioco di parole col suo capolavoro meritevole di una statuetta, ma guardando giocare gli Utah Jazz di Will Hardy non ho potuto fare a meno di pensare a questo: una strana (e nel suo piccolo, grande) bellezza, un caos organizzato, una serie di improvvisazioni che hanno portato più di qualche risultato utile.

La società si è mossa sicuramente bene dopo la partenza delle sue due stelle in cerca di fortune altrove e la pietra angolare è stata posta con l’ingaggio di un allenatore giovane, molto giovane, ma con idee precise e un approccio tutto suo. Hardy è stato assistente allenatore a San Antonio, dove ha potuto assorbire la conoscenza viscerale del gioco da uno dei maestri della panchina, Gregg Popovich, per poi passare ai Celtics lo scorso anno. Sotto Ime Udoka ha lavorato fianco a fianco con il nuovo coach dei bianco-verdi, anche qui il giovanissimo Joe Mazzulla, ma lo stile dei due non potrebbe essere più diverso, così come non potrebbe essere più diverso dal suo primissimo capo allenatore.

Entri in sala stampa e da Mazzulla ricevi una risposta rapida e concisa, quasi come se ogni parola fosse pesata al grammo e ogni ovvietà fosse superflua: domanda ampia, risposta secca, lapidaria, pragmatica, quasi arrogante. In pochi minuti è tutto finito. Arriva Popovich e puoi gustarti lo show di un allenatore che ha visto e sentito tutto nei suoi 27 anni da coach in Texas, non c’è una risposta seria, solo una sequela di battute a spese del povero malcapitato giornalista di turno che lasciano un aura mista tra allegria e terrore. E Will?


Will il Saggio

Il riferimento a Stranger Things è tanto ovvio quanto scontato, ma effettivamente Will Hardy sembra quasi un filosofo. Le sue risposte sono profonde, dettagliate, viene valutato ogni singolo aspetto della domanda e anche di più.

Quando parla di un giocatore non ne affronta solo l’aspetto cestistico, ma anche quello umano. Conosce dettagli di ogni singolo componente del suo roster, dalla stella al role player. Quando abbiamo parlato del nostro Simone Fontecchio non si è limitato alle solite considerazioni di circostanza, ma ha dato grande lustro ai meriti di Simone passati e presenti, nonostante un inizio difficoltoso.

Il suo approccio è quello che più ha impressionato la dirigenza dei Jazz ed è quello che più gli è stato riconosciuto da Popovich e Udoka:

Non potrei essere più felice che a Will sia stata data la possibilità di guidare uno dei migliori programmi della lega ai Jazz. La sua intelligenza, la sua capacità di insegnamento e soprattutto le sue maniere sono le qualità che portano immediato rispetto da parte dei giocatori e dello staff. Lui è un giovane competitivo ma che capisce bene le responsabilità della posizione, nessuno lavorerà più duro di lui per assicurare a Utah un futuro di successi.

Gregg Popovich

Will ha una grande mente cestistica, ho visto la sua crescita durante il nostro percorso insieme a San Antonio e durante la nostra stagione a Boston. È stato parte integrante di quanto abbiamo conseguito e sono sicuro che farà grandi cose con i Jazz.

Ime Udoka

Ho parlato dei suoi trascorsi come vice e componente del coaching staff di Spurs e Celtics, ma ad aggiungersi a questo tipo di esperienza c’è anche un po’ di campo effettivo per lui: Hardy è stato infatti un’ala cresciuta a Richmond, passato poi al Williams College con cui ha giocato per quattro anni, per un totale di 80 vittorie, 31 sconfitte e due qualificazioni ai Playoffs di NCAA Division III. La sua esperienza da giocatore e il rapporto con coach di esperienza e alto livello ha pavimentato la strada che lo ha portato a Salt Lake City, e ad essere il conoscitore di basket che è.

I suoi 34 anni anagrafici sono ben lontani da quello che la persona dimostra quando parla e anche questo è stato un fattore fondamentale che ha convinto Danny Ainge a consegnargli le chiavi della franchigia. La strada è lunga, difficile e piena delle insidie tipiche della ricostruzione, ma fino a questo punto Hardy non ha deluso le aspettative. Utah chiaramente non è ancora al livello delle contender, ma ha mostrato grandi cose sul campo e altrettanto ampi margini di miglioramento, indice del fatto che il cammino su cui Will il Saggio li ha posti è quello giusto.

Caos organizzato

L’impressione avuta guardando Utah giocare è quella che alle volte la squadra non sappia cosa fare, eppure riesca comunque inevitabilmente a sorprendere gli avversari.

Certamente questo non funziona sempre e non avendo vere e proprie stelle affermate è difficile vincere ogni partita in situazioni difficili; i Jazz possono contare però sul neo All-Star Lauri Markkanen e su un core misto di veterani e giovani promesse interessanti (Walker Kessler, Collin Sexton, Ochai Agbaji e Talen Horton-Tucker su tutti) a cui Hardy sta distribuendo minuti importanti per mettere in mostra le rispettive qualità. Fontecchio in questo contesto è un ibrido ideale per il coach, essendo un rookie da plasmare sui campi NBA ma con già anni e anni di esperienza europea alle spalle.

Quasi tutti i componenti sono nuovi a Salt Lake City e questo ha lasciato molto margine di manovra all’allenatore per improntare il suo stile e le sue idee che, in molti casi, possono sembrare un caos organizzato: capita spesso infatti di vedere i Jazz tentennare nella prima parte della manovra, quasi come se non ci fosse un’idea di schema dietro l’attacco organizzato, per poi chiudere in pochi secondi con azioni repentine ed efficaci.

Per fare un paragone azzardatissimo e ben lontano dai risultati conseguiti finora, l’attacco dei Jazz potrebbe ricordare il Triangolo proposto da Tex Winter e Phil Jackson ai Bulls: una manovra dinamica, in cui ogni giocatore è chiamato talvolta ad improvvisare e adattarsi a quelle che sono le concessioni della difesa avversaria. Parlo di azzardo ovviamente perché la qualità a disposizione di Hardy è ben lontana da quella dei Bulls di Jackson e anche per un diverso tipo di ritmo presente nel basket moderno. Ma il concetto penso sia chiaro.

A Utah si sta sviluppando un’idea di gioco che per tanti aspetti può essere innovativa. Se Hardy sia un genio o un fuoco di paglia lo dirà solo il tempo. Ma andiamo più nello specifico su quelle che sono le peculiarità dei Jazz.

L’attacco

L’esplosione di Markkanen ha sicuramente aiutato i Jazz a trovare uno stabile punto di riferimento offensivo, ma il gioco proposto da Hardy mette in condizione ogni giocatore in campo di farsi organizzatore dell’attacco. Generalmente viene usato molto il 5-Out in transizione, in modo tale da creare possibilità dall’arco lasciando sguarnito il pitturato: in questo caso, nell’eventualità di una penetrazione, la difesa è costretta a convergere in area lasciando liberi i tiratori, o viceversa rimanere in marcatura sull’esterno dando la possibilità all’attaccante di giocare l’uno contro uno. Utah è quinta per triple tentate a sera, 38.5, e sesta per triple realizzate, 13.8.

Tutto questo è molto efficace perché la difesa ha pochissimo tempo per adattarsi, i cambi di marcatura sono più lenti e danno possibilità all’attacco di costruire una tripla immediata con scarico verso i tiratori in angolo, o un veloce handoff. Il risultato sono penetrazioni più facili e letture migliori grazie ad una spaziatura ideale in relazione alle caratteristiche dei giocatori in campo.

La conoscenza enciclopedica di Hardy dei punti forti del suo roster diventa un fattore fondamentale in schemi di questo tipo, senza dover preferire necessariamente un gioco in isolamento per Markkanen. Le qualità del finlandese però gli permettono di essere il giocatore perfetto per questo tipo di squadra e per questo tipo di scelte dell’allenatore, essendo in grado di giocare in transizione, cercare l’extra pass, tirare dal perimetro o giocare in post.

Il primo passaggio di Markkanen per Conley dà il via all’azione, con la guardia che entra in area e gli altri quattro giocatori sul perimetro. La difesa converge prima su di lui e poi sul primo destinatario del passaggio, Olynyk, che a quel punto scarica verso Clarkson, con Vanderbilt a fare da “esca” in area. L’extra pass arriva tra le mani di Markkanen che a questo punto è perfettamente smarcato e libero di lasciar andare la tripla.

“Toughness, sacrifice and passion”

Il 5-Out di per sé non è un’innovazione del coach, ma il suo utilizzo a Utah si sta rivelando molto più efficace che in tante altre piazze più altisonanti. Perché? Perché i giocatori hanno abbracciato appieno la filosofia dell’allenatore. “Toughness and sacrifice”, tenacia e sacrificio.

La chiave del successo di uno schema come questo è lo spacing: ogni giocatore deve trovarsi nella posizione giusta o muoversi costantemente verso di essa così che il creator possa trovarlo. Il movimento costante della palla è fondamentale, come fondamentale è mettere da parte l’idea di tirare appena arriva: la peculiarità di Utah è quella di cercare spesso, a volte troppo, un passaggio in più. Will Hardy continua a proporre uno stile di gioco il più altruista possibile, tenendo pur conto di quelle che sono le dinamiche NBA, in cui ogni giocatore è coinvolto. Va da sé che buona parte dei possessi finiscono nelle mani di Markkanen, ma anche in virtù del fatto che il flusso di palla e spostamenti vuole così.

Per quanto sia palesemente il primo violino e la prima bocca da fuoco della squadra, The Finnisher non spezza mai il ritmo della squadra con eccessive forzature. Anche la sua media assist è al momento un career-high, per quanto non sia altissima (1.8 a partita). Grazie a queste scelte i Jazz hanno il sesto attacco della lega (con un eFG% di 55, tredicesimi in NBA) e sono ben lontani dal ricordare una squadra in ricostruzione.

Dove nascono i problemi

Per quanto la narrativa mi imponga di elogiare fino in fondo il lavoro di Hardy, per completezza bisogna anche far presente quali sono i punti deboli di questa macchina. Sarebbe bello parlare di una Cenerentola in stile Leicester CIty, per fare un parallelo calcistico, una squadra piccola che sovverte ogni pronostico sfondando la porta delle alte sfere grazie ai pilastri della filosofia del coach. Non è così.

Per quanto la squadra stia andando oltre le aspettative iniziali, al momento si trova 11esima nella Western Conference, appena sotto la zona Play-In; la difesa è la 24esima della lega e il Net Rating 17esimo con 0.2. Utah è tra le squadre con più turnover (28esima con 15.6) e con meno palle rubate (27esima con 6.4).

Il caos organizzato di Hardy è sicuramente qualcosa di interessante ma va ancora perfezionato perché sia effettivamente efficace ad alti livelli, specialmente da un punto di vista difensivo. Il progetto dei Jazz non è nato per costruire Roma, o in questo caso Utah, in un giorno: bisognerà dare tempo al tempo perché questi problemi vengano risolti e perché arrivino altri innesti funzionali a questo tipo di gioco, dal Draft (le scelte non mancano) o dal mercato. Al momento i risultati sembrano comunque dare ragione ad Hardy, o quantomeno sono sufficienti per dargli ancora respiro.

Il Jazz di Hardy

Da un punto di vista musicale il jazz è uno dei generi che più beneficia dell’improvvisazione, dell’ispirazione, della costruzione basata sul momento. In questo caso Hardy è il maestro, il direttore che dà semplici indicazioni, alla ricerca di una melodia nata dalla bravura dei suoi musicisti. Il limbo in cui ha portato Utah, però, mette il management quasi in una posizione scomoda: troppo bravi per il tanking, ancora troppo acerbi per puntare in alto.

Attenzione però: guai a pensare che i Jazz ne siano scontenti. Per le mani sembrano avere un allenatore di grandissima prospettiva, capace di affrontare i giocatori da un punto di vista cestistico ma soprattutto umano, perfettamente in grado di muoversi nelle sfumature del gioco dentro e fuori dal campo. Ho già fatto il paragone con Phil Jackson e me ne assumo piena responsabilità.

Avrei voluto parlare di più della sua storia, del suo background, ma la verità è che Will Hardy è quanto di più straordinariamente ordinario ci sia. Non ha un passato tribolato o avvincente, non ha vicende particolarmente degne di nota alle spalle. Eppure quando parla gli altri ascoltano rapiti.

È un segreto non segreto che durante le conferenze pre-partita i media di casa abbandonano la sala stampa dopo che l’allenatore della squadra ha parlato, lasciando il posto a quello ospite e un piccolo manipolo di giornalisti. Con Hardy non è assolutamente così.

Sarà la curiosità, sarà per il suo approccio, ma la sala è piena, con molte più domande di quante se ne sentano di solito in questa circostanza. E Hardy le snocciola e seziona una per una, non lasciando niente da parte, rispondendo come se stesse filosofeggiando sulla vita con un gruppo di amici. E sia chiaro, questo approccio non ha tolto assolutamente nulla alla sua preparazione, perché in tutto questo ha anche analizzato alla perfezione da un punto di vista cestistico sia la sua squadra che l’avversaria, descrivendo con dettagli e particolari di cui pochi di solito ostentano anche solo una minima conoscenza.

Avrei voluto davvero scrivere una storia, infiocchettare il tutto con pensieri profondi e considerazioni sulla tenacia, il sacrificio, la passione. Avrei voluto scrivere di un allenatore a cui viene data l’opportunità di una vita, di come quell’opportunità ha dato i suoi frutti. Avrei voluto, ma ci ha pensato Will Hardy prima di me. E ora starà a lui scriverne il finale.