Nello sport, col passare del tempo, può nascere un legame profondo tra atleti e i tifosi. Una sinergia, figlia di battaglie condivise, di sacrifici vissuti e di numerose stagioni trascorse insieme. Tuttavia, se il tuo nome è Brandon Dawayne Roy e riesci a farti conoscere, amare, ricordare e rimpiangere con soli cinque anni di militanza nella lega, è segno che eri e avresti potuto essere davvero qualcosa di unico.
Brandon nasce il 23 aprile 1984 a Seattle, città fulcro di grandi contesti sociali, culturali ed economici: è la città natale di Jimmy Hendrix e di gruppi come i Foo Fighters o i Pearl Jam; dove è stata fondata e ha avuto sede la Boeing; allocata nell’area metropolitana – Redmond – ove ha sede la Microsoft.
Il basket ha sempre ricoperto un ruolo particolare nella capitale dello stato di Washington, perché per anni la città è stata la sede dei Seattle Supersonics, franchigia che ha toccato il proprio apice nel 1996 con la finale persa contro i Bulls, ma migrata poi a Oklahoma lasciando il cuore infranto a molti tifosi.
Uno di questi è il piccolo Brandon, che adora la pallacanestro, sport che geneticamente gli scorre nelle vene: il padre Tony è stato un buon giocatore alla locale Garfield High School, mentre il fratello maggiore Ed è considerato il vero talento di famiglia e futura star.
Come tanti giovani ragazzi americani, si cimenta in varie discipline sportive, confrontandosi sempre con atleti più grandi di lui; questo contribuisce ad aumentare il suo spirito competitivo e le sue abilità.
È il fratello Ed a essere il vero punto di riferimento di Roy: le sfide tra i due sul playground si sprecano, ma il maggiore, benché anch’esso competitivo e spesso vincitore delle sfide, ha sempre pronta una parola di conforto per il fratellino in caso di sconfitta.
Il talento del giovane è cristallino e presto si accorge di lui Lou Hobson, il coach della locale squadra AAU (Amateur Athletic Union). Il ragazzo viene subito inserito in squadra, ma nonostante le doti naturali vive ancora il basket con una certa superficialità, senza applicare quella determinazione e concentrazione necessarie nel nuovo contesto.
Il punto di svolta arriva però durante una trasferta: Brandon è distratto e scherza con gli amici, mettendo poco impegno nel gioco. Coach Hobson lo prende da parte e lo catechizza “Lo sai quanti sacrifici fanno i tuoi per mandarti in trasferta con la squadra!? Hanno speso 100 Dollari e non hanno questa cifra da buttare via per mandarti qui a ridere e scherzare!”
Queste parole fanno scattare qualcosa nella mente ragazzo, accrescendone la consapevolezza.
Papà Tony infatti è un autista della metropolitana che fa molte ore di straordinario, mamma Gina lavora come cuoca in una caffetteria. D’ora in avanti il basket sarà più di in semplice gioco.
Seguendo le orme del fratello idolo Ed, si iscrive alla James A. Garfield High School. Nonostante il suo talento lo portasse ad eccellere anche, e forse più, in altri sporti come il football e il calcio, Brandon ha deciso che concentrerà i propri sforzi solo sul basket.
Durante il primo anno viene inserito nella Junior team, trovando il modo di migliorare il proprio gioco e la propria sicurezza; con la prospettiva di un suo ingresso nella squadra varsity nell’anno da Sophmore, finendo in squadra con Ed.
Segna 9 punti al debutto. Il minutaggio è inizialmente limitato, ma cresce durante la stagione, quando il nuovo arrivato si fa apprezzare dai compagni più anziani per il lavoro che svolge difensivamente.
La stagione dei Bulldogs si conclude amaramente in semifinale statale contro Foss High School: sotto 52 – 54, Brandon va in lunetta con la possibilità di pareggiare a soli 1.9 secondi alla fine. Clamorosamente sbaglia entrambi i tiri, col fratello che fallisce il tap in a rimbalzo. Sarò l’ultima partita del senior Ed alla Garfield.
Nonostante la cocente delusione, B-Roy torna più determinato che mai per il proprio anno da Junior, diventando il leader assoluto dei Bulldogs. Chiude la stagione con 18.7 punti e 5.5 rimbalzi, venendo inserito nella lista dei 50 migliori prospetti per il college dello stato. Le offerte da parte delle varie università si sprecano, ma Brandon decide di non allontanarsi e firma una lettera di intenti per iscriversi alla University of Washington.
Tuttavia deve giocare ancora il suo anno da Senior con la canotta dei Bulldogs, dove è totalmente immarcabile: chiude con 22.3 punti e 10.5 rimbalzi, guida i compagni al quarto posto nel torneo statale e viene eletto MVP della KingCo Conference – bissando il titolo dell’anno precedente.
Piccolo nota, che purtroppo tornerà di estrema attualità anni dopo: viene operato alla cartilagine del menisco del ginocchio sinistro per guarire da un infortunio.
Terminata l’high school, il suo passaggio col college viene rallentato dalle sirene della NBA: inspirato dal successo di altri high schooler, passati direttamente tra i pro, il nativo di Seattle si dichiara eleggibile per il draft NBA del 2002.
Svolge quindi un allenamento di due ore con i Portland Trail Blazer dove, sotto gli occhi dei coach e dirigenti della squadra, gioca 1vs1 contro il futuro “collega” Boris Diaw. Saranno i chili, i centimetri, l’età o l’esperienza a vantaggio del francese: Brandon viene letteralmente portato a scuola dal rivale. Deluso e conscio che si sia trattato di una mossa azzardata, annulla i provini predisposti con altre squadre e si ritira dal Draft.
C’è ancora un grosso ostacolo prima di diventare un universitario e si chiama Scholastic Aptitude Test (SAT). Questi altri non è che il test che ogni ragazzo americano deve superare per essere ammesso al college. Niente di impossibile, se non fosse per quella che viene conosciuta come ADHD, cioè un deficit di apprendimento che rendeva difficile e lenta la comprensione di qualunque testo. La stessa malattia che aveva impedito a Ed di accettare varie offerte di borse di studio per il basket o per il football e che lo aveva costretto a relegare su un Junior College, con buona pace di ogni sogno di gloria sportiva. No, Brandon non vuole fare quella fine!
Il primo tentativo di superare il SAT va a vuoto, anche il secondo e pure il terzo. La stagione 2002-03 del college basket è già iniziata e l’ex Bulldogs sa che il successivo test in dicembre sarà l’ultima chance per non perdere la borsa di studio. Preoccupato per il proprio futuro e per non gravare sulle spalle della famiglia, inizia a lavorare al porto di Seattle, pulendo bagni e container per 11 dollari l’ora. Ma non è quello il futuro che il destino gli ha riservato. Riesce finalmente a superare il SAT.
E’ ufficiale: è un Huskies.
Nonostante abbia perso già 14 partite in stagione, il nuovo arrivato viene subito buttato nella mischia da Coach Lorenzo Romar, che si trova davanti un giocatore con un alto IQ cestistico – nei sui primi 45 minuti di allenamento riesce a imparare tutto il playbook – e con una sorprendente poliedricità per un freshman. Il nativo di Seattle concentra il proprio gioco in qualunque aspetto possibile, cercando di essere utile alla squadra e conquistando già il quintetto base prima della fine della stagione.
A completare il backcourt della squadra c’è un playmaker di 1.75 mt tutto follia ed esplosività, tale Nate Robinson. Due giocatori dai caratteri opposti, perno però di un ottima squadra che nella stagione 2003/04 raggiunge il torneo NCAA, uscendo al primo turno. Per il nostro 31 gare con 12.8 punti a partita dal 48% dal campo.
La stagione da Junior dovrebbe essere quella della consacrazione ma alla terza partita dell’anno si infortuna al menisco del ginocchio destro, compromettendo l’intero campionato tra partite saltate e le limitazioni al proprio minutaggio.
Vorrebbe dichiararsi per il draft NBA, ma il fatto che lo abbia già fatto Robinson e che gli addetti ai lavori non lo considerino un top lo fanno desistere. Ha deciso, giocherà il suo ultimo anno a University of Washington, cercando di portare il più in alto possibile la squadra e lavorerà duro per migliorare come giocatore e aumentare la sua posizione al draft successivo.
La scelta è perfetta. È la sua breakout season: i numeri sono strepitosi – 20.2 pts, 5.6 rpg, 4.1 apg – e in campo è poesia in movimento; gioca anche come play per sopperire alla partenza di Kryptonate.
A dicembre contro Arizona segna il proprio career high con 35 punti. Conduce gli Huskies fino alle Sweet 16 del torneo NCAA, oltre ad ottenere vari riconoscimenti personali: Pac-10 player of the Year e First-team All American. È tempo però di dire addio al college e salire al piano di sopra, ma stavolta non ha dubbi: entrerà dalla porta principale.
Il Draft NBA del 2006 si svolge il 28 giugno al Madison Square Garden di New York. Brandon, come molti altri talentuosi coetanei presenti quel giorno, è nervoso in attesa che il Commissioner David Stern inizi le chiamate. Il suo ultimo anno a WU è stato prezioso, e si mormora che il ragazzo verrà scelto intorno alla 5° posizione. Nei provini pre-draft, l’ex Huskies si è allenato con Portland, Minnesota, Chicago, Charlotte e Houston e gli addetti ai lavori hanno speso per lui sempre lo stesso giudizio: talento come nessuno nell’annata 2006, ma forti dubbi sulle condizioni delle ginocchia e sul suo ruolo in campo, se sia un play o una guardia.
Roy non ha dubbi in merito, si sente in condizione eccellente e vede come gran pregio la sua abilità nel sapersi dividere in entrambi i ruoli del backcourt.
È seduto al proprio tavolo nella green room, quando Stern dichiara che i Toronto Raptors, con la prima scelta assoluta, chiamano Andrea Bargnani. I Chicago Bulls con la n. 2 puntano su LaMarcus Aldridge. Si va avanti con la terza, al quarta, la quinta… la preoccupazione sale: il suo nome non è ancora uscito. Che i pregiudizi pre-draft abbiano davvero influenzato le varie franchigie?
A quel punto arriva l’annuncio ufficiale che i Bulls hanno spedito la loro nuova scelta Aldridge a Portland in cambio della scelta n. 4, Tyrus Thomas.
È arrivato il turno della sesta scelta. Con lo stesso rituale da anni, Stern sale sul palco, si avvicina al microfono e pronuncia questa frase “With the 6th pick of 2006 NBA Draft, the Minnesota Timberwolves select Brandon Roy, from University of Washington”. Ce l’ha fatta, è un giocatore NBA. Ma mentre sta svolgendo una delle rituali interviste post-Draft inizia a circolare una voce: i Portland Trail Blazers, dopo Aldridge, sono riusciti a mettere le mani su B-Roy.
Si vola a Portland quindi, in una squadra comunque interessante, almeno per il futuro. Alle due prime scelte si aggiunge il rookie spagnolo Sergio Rodriguez. I tre vanno a rinforzare un roster che vanta la stella Zach Randolph, la guardia Jarret Jack, Travis Outlaw e Ime Udoka.
Coach Nate McMillan schiera da subito l’ex Huskies come guardia titolare e la risposta del rookie è fantastica: esordisce proprio contro Seattle segnando 20 punti con 10/16 dal campo; replica due sere dopo a Oakland contro gli Warriors, con 19 punti, e ne aggiunge 16 al suo esordio casalingo al Rose Garden contro i T-Wolwes, condendo il tutto con 6 assist. Sembra andare tutto per il meglio quando, alla quinta partita ha un problema, manco a dirlo, al ginocchio sinistro. Resta fuori per un mese, ma al ritorno riprende da dove aveva lasciato, segnano la prima doppia-doppia in carriera.
Viene inevitabilmente convocato per il Rookie Challenge 2007. Oltrechè nominato Rookie del mese di gennaio, febbraio e marzo. Sempre più tendente a scollinare quota 20 nella voce “punti”, diventa presto il Blazer con maggiore minutaggio insieme a Randolph.
Portland non ha grosse mire per la stagione, se non quella di migliorare il pessimo record dell’anno precedente (21-61). Con Roy nel motore il risultato viene ampiamente raggiunto, finendo la Regular Season con 32-50, ma i tifosi dell’Oregon cominciano a sognare in grande per il futuro, perché anche Aldridge promette di diventare un All Star.
B-Roy viene nominato Rookie of the Year 2007 quasi all’unanimità – 127 voti sui 128 disponibili – anche se le sole 57 gare giocate in stagione a causa di problemi vari alle ginocchia destano non poche preoccupazioni.
Noncurante delle voci sulle proprie condizioni fisiche, l’ex rookie lavora duramente durante l’estate per arrivare ancora più preparato per la seconda stagione nella Lega.
Il Draft NBA 2007 ha portato in dote per i Blazers la prima scelta assoluta, spesa per il centro di Ohio State: Greg Oden. Anche se il rookie dovrà saltare l’intera stagione per un problema – manco a dirlo – ad un ginocchio, il futuro sembra scritto sotto le plance. Tanto che la dirigenza decide di liberarsi di Z-bo.
Il 7 inizia forte la stagione, mettendo sempre più in mostra il proprio incredibile talento. Di lui colpiscono l’eccezionale tecnica e la capacità di creare per se stesso e per i compagni.
Anche i risultati di squadra si fanno sentire, Portland cavalca la spinta del ROY 2007 e, in dicembre, vince 13 partite consecutive. L’ex UWA viene convocato nella squadra dei Sophmore nel Rookie Challenge 2008, ma soprattutto, per il suo primo All-Star Game dove dimostra di meritare tale palcoscenico con 18 punti e 9 rimbalzi.
Chiude la seconda stagione in carriera con 19.1 punti, 5.8 assist e 4.7 rimbalzi. Portland termina la RS col 50% di vittorie, ma nonostante il netto miglioramento rispetto ad un anno prima, è un risultato insufficiente per conquistare i Playoff nella tostissima Western Conference.
Prima di tuffarsi nella stagione 2007/08, l’ex Huskies si sottopone ad un intervento di pulizia del ginocchio sinistro, non volendo assolutamente mettere a rischio quella che ritiene sarà l’annata della definitiva consacrazione. Previsione corretta!
Gioca una stagione da autentico dominatore. Oltre a esaltare per la sua tecnica sopraffina da mortifero attaccante e a dimostrarsi un ottimo difensore, si rivela un clutch player di livello stellare. Chiedere in merito a Houston, sconfitta a Portland con due canestri griffati B-Roy a meno di due secondi sul cronometro.
A dicembre realizza il proprio career-high contro i Phoenix Suns, segnando 52 punti con ZERO palle perse. Viene ovviamente convocato per il suo secondo All Star Game.
Chiude l’anno con 22.6 punti e 5.1 assist, venendo selezionato nel secondo quintetto All-NBA. Trascina inoltre i Blazers alla qualificazione ai Playoff col quarto record a Ovest. Ad attenderli i Rockets. Le cose non vanno nel modo migliore, perché sono i texani a passare il turno, ma Roy è incontenibile – 26.7 punti di media nella serie – anche per un difensore come Ron Artest, che lo definisce uno dei più difficili giocatori da marcare. È divenuto ormai uno dei top player NBA.
Prima della stagione 2009/10 firma un rinnovo contrattuale coi Blazers di quattro anni con opzione per il quinto al massimo salariale. È ancora devastante in attacco, dove guida i suoi con 21.5 punti a partita. Nonostante la dipartita per infortunio di Greg Oden, Portland è comunque una squadra solida e, sotto la guida del proprio leader, raggiunge ancora i Playoff. Sul finire della Regular Season tuttavia il menisco destro di Roy cede nuovamente, costringendolo all’intervento chirurgico e alla prospettiva di saltare il primo turno di post season contro Phoenix. Invece rientra stoicamente per Gara 4, ma la serie la portano a casa i Suns.
L’inizio della stagione 2010/11 sembra aver fatto fugato ogni dubbio di ripresa del n. 7 dal nuovo infortunio. Il leader dei Blazers ricomincia da dove aveva interrotto, riproponendo le ormai consuete prestazioni da All-Star. Tuttavia a dicembre arriva la terribile notizia: la cartilagine articolare risulta ormai essere pressochè inesistente.
Brandon è fuori a tempo indeterminato e si sottopone ad un intervento in artroscopia ad entrambe le articolazioni. Torna a febbraio ed è subito decisivo con 18 punti contro Denver più il canestro per mandare l’incontro ai supplementari. Il suo nuovo ruolo consiste nel partire dalla panchina, ma non si trova granché in questa situazione e chiude l’anno con soli 12.2 punti e 2.7 assist.
Ai Playoffs i Blazers trovano i Dallas Mavericks. I Mavs si portano sul 2 a 0, l’ex Huskies gioca poco e male ed è indispettito dal proprio utilizzo: chiede a coach McMillan di giocare di più. In Gara 3 segna 16 punti in soli 23 minuti per la vittoria dei suoi, e in Gara 4 semplicemente torna a essere se stesso. Con Portland sotto di 23 quasi alla fine del terzo quarto, Roy diventa “Jordanesco” e guida un’incredibile rimonta, segnando 18 punti nel solo quarto periodo, col canestro del decisivo vantaggio a 49 secondi dalla fine.
La serie viene vinta da Dallas, ma il prodotto di UWA ha dimostrato di essere ancora immarcabile e pronto a riprendere il proprio posto come leader della squadra.
La stagione 2011/12, benché ritardata dal lockout, è alle porte, ma prima dell’inizio del training camp arriva una tragica notizia: a causa dall’importante carenza di cartilagine di entrambe le ginocchia, Brandon Roy annuncia il proprio ritiro con effetto immediato.
È una notizia scioccante, per la franchigia e per tutti gli appassionati: uno dei migliori giocatori in circolazione deve dire basta, a soli 27 anni, a causa di due ginocchia di cristallo, che l’hanno martoriato nell’arco della breve carriera.
Tuttavia non ci sta. A giugno 2012 decide di riprovarci, ma, poiché i Blazers lo hanno tagliato utilizzando la “clausola di amnistia” che non fa incidere il suo contratto sul salary cap, non può far ritorno a Portland.
Si accasa a Minnesota, proprio la squadra che lo aveva scelto al Draft. Purtroppo, dopo solo cinque gare in stagione deve dire definitivamente basta, finendo per l’ennesima volta sotto i ferri.
Nel 2016 diventa capo allenatore della Nathan Hale High School vincendo 29 partite con 0 sconfitte. L’anno dopo passa alla propria alma mater allenando Garfield High School vincendo il titolo statale – in entrambi i casi ci sono state molte polemiche per il gran numero di giocatori trasferiti – nel 2018, 2020 e 2023.
Ma il Roy allenatore è un’altra storia, appena cominciata. Del giocatore rimane il ricordo di un talento abbaglianteche è riuscito a lasciare il segno nel cuore di molti nei pochi anni nella Lega. Nonostante le fragili ginocchia, l’amore per la pallacanestro l’ha sempre spinto ad andare avanti. E c’è da giurare che, una volta dato il “rompete le righe” ai suoi ragazzi, prenda una palla, due-tre palleggi… arresto e tiro… e splash: solo rete. Ricordando ancora una volta ai presenti quanto Brandon Dewayne Roy manchi maledettamente a questo gioco.