Neanche maggiorenne, Iverson è al tempo stesso idolo e bersaglio nella sua comunità. Un’assurda vicenda legale ha rischiato di privare il mondo del suo sconfinato talento.

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Dopo aver stretto la mano a David Stern e aver posato per le foto di rito, Allen Iverson scende dal palco allestito per il Draft alla Continental Airlines Arena di East Rutherford, andando a sedersi accanto al compianto Craig Sager per la sua prima intervista da giocatore NBA.

Le sue prime parole da professionista racchiudono alla perfezione tutto quello che The Answer ha rappresentato nei suoi 17 anni di carriera. Alla domanda “Sei velocissimo, c’è qualcuno che può fermarti sull’uno contro uno?”, la risposta è un meraviglioso climax, che testimonia l’approdo nella Lega di un unicum, un giocatore che mai si è visto e mai più si vedrà: “Non lo so… spero di no… non credo proprio”.


Da quella notte d’estate del 1996, sono arrivati un titolo di MVP, undici convocazioni alla partita delle stelle con due premi come MVP della stessa, tre volte miglior quintetto della stagione, quattro volte capocannoniere della Lega, più di 24mila punti in carriera, il ritiro della sua maglia numero 3 a Philadelphia e l’ingresso nella Hall of Fame di Springfield.

Un palmarès ancor più impressionante perché prodotto da un uomo che non arriva al metro e ottanta di altezza, mosso per tutta la vita da un senso di sfida continua, di rivalsa. Sempre da solo contro il mondo.

Le motivazioni che muovono A.I. vengono dal suo passato, difficile come tanti, ma forse un po’ di più. Perché quando il suo futuro sembrava tingersi di rosa, un’incredibile vicenda giudiziaria ha rischiato di distruggerne vita e carriera, impedendo a tutti noi di godere delle sue incredibili qualità.

Siamo a Hampton, Virginia, nei primi anni ’90, quando The Answer per tutti è ancora solamente “Bubba Chuck”. Alla Bethel High School si fa un gran parlare di questo ragazzo che viene dai quartieri malfamati di Newport News, dove giovani afroamericani cadono come mosche sotto i colpi di arma da fuoco legati alla supremazia del territorio e al commercio di droga.

Iverson è il leader della squadra di football e di basket. Esatto: domina entrambi gli sport.

Con la palla ovale comincia da quarterback, giocando all’occorrenza anche running back o defensive back. Con la palla a spicchi definirlo “la point guard titolare” sarebbe riduttivo: è semplicemente inarrestabile. Già dal secondo anno di liceo, Allen porta le due squadre alla vittoria del titolo statale, guadagnandosi il premio della Associated Press come miglior giocatore dell’anno in entrambi gli sport.

Alla fine propenderà per la pallacanestro, ma il suo futuro nel football avrebbe potuto essere altrettanto radioso:

“Allen era un giocatore eccezionale – non semplicemente bravo, era straordinario. Sicuramente avrebbe potuto giocare nell’NFL, forse con un futuro da Hall of Famer”.

Tom Lemming, giornalista sportivo

È un ragazzo entusiasta, sicuro di sé, sul campo è sempre aggressivo e dà il 110%. Nella sua testa, l’impossibilità di essere “normale”, il bisogno fisico di sentirsi sempre il migliore. Qualcuno, a ragione, la definirebbe arroganza, ma senza questa spinta A.I. sarebbe ancora sulle strade di Newport News, nella migliore delle ipotesi…

Chuck nasce da mamma Ann quando questa aveva solo 15 anni. Il padre non sa neanche che faccia abbia, e già dall’età di 8-9 anni deve essere l’uomo di casa, dovendo badare spesso alla sorellina Brandy. Crescendo, la droga entra nella sua vita, la madre e il nuovo patrigno ne fanno uso, e Allen sembra venire risucchiato nel mercato che dà lavoro a molti suoi coetanei nella zona.

Comincia a saltare molti giorni di scuola e tocca il punto più basso della sua giovane vita. “Un giorno ricevetti una chiamata da un mio amico poliziotto dalla zona di Newport News”, racconta Dennis Kozlowksi, suo coach di football a Bethel HS.Mi disse – Hey Koz, abbiamo visto coi nostri occhi Allen entrare in una drug house; potevamo arrestarlo ma abbiamo preferito chiamare te prima, magari puoi parlarci; non vogliamo distruggere il suo futuro. Il giorno dopo l’ho chiamato nel mio ufficio e mi sono fatto raccontare tutto”.

La droga, ovviamente, non era per lui: era la madre ad avergli “commissionato” l’acquisto. E come un qualunque figlio quando riceve ordini da un genitore, Allen aveva obbedito.

Questo è l’ambiente in cui Iverson è cresciuto e dal quale vuole tirarsi fuori, grazie al suo talento e al supporto delle persone giuste.

“A un certo punto ho capito di doverlo allenare con il cuore più che con la testa, racconta invece Mike Bailey, suo coach di basket a Bethel HS. “Per avere la sua fiducia dovevo costruire un legame personale forte con lui. Ma è stato molto facile, perché Allen era un ragazzo fantastico, scherzava sempre con i suoi compagni ma era sempre disciplinato e rispettoso, sia con me che con mia moglie Janet, la sua insegnante”.

Grazie ai coniugi Bailey, a coach Kozlowski e al mentore di una vita Gary Moore, Allen capisce di non poter più sbagliare: una qualunque leggerezza, un qualunque errore può costargli la strada che porta al professionismo.

La notte di San Valentino del 1993, Allen e alcuni amici si recano presso una sala da bowling di Hampton per passare una serata come tante. Qualche pista più in là, un gruppo di ragazzi bianchi di Poquoson, cittadina nota per problemi irrisolti di razzismo, comincia a lanciare occhiatacce a Iverson e compagni.

Dagli sguardi di sfida si arriva alle parole, forti, e dalle parole rapidamente agli spintoni.

La tensione è alle stelle e inevitabilmente si arriva allo scontro fisico. Lo sfondo razziale del diverbio spinge tutte le persone all’interno del bowling a intervenire e in men che non si dica esplode una gigantesca rissa con un numero imprecisato di persone coinvolte. Bianchi contro neri.

Volano oggetti d’ogni tipo, sedie, birilli, ma in qualche modo Iverson e i suoi riescono a uscire, salire in macchina e andarsene prima di farsi male o cacciarsi nei guai. Gli amici di Allen sono molto protettivi nei suoi confronti: sanno che un coinvolgimento in una circostanza del genere potrebbe costargli il futuro.

Nei giorni successivi la notizia trova poco spazio nelle cronache locali, poiché i danni non sono stati ingenti e i feriti sono stati pochi e lievi. Nonostante ciò, cominciano a trapelare accuse nei confronti di Iverson, una su tutte quella di una ragazza che sostiene di averlo riconosciuto nella persona che le ha lanciato una sedia in testa, provocandole una commozione cerebrale e un piccolo taglio.

“In un bowling dove tutti sanno chi sono mi metto a spaccare sedie in testa alla gente?! Andiamo, è semplicente ridicolo… e per giunta a una donna, per che razza di uomo mi hanno preso?!”

Nonostante il numero enorme di persone coinvolte nella rissa, solo Iverson e i suoi amici Michael Simmons, Melvin Stephens e Samuel Wynn vengono riconosciuti e accusati. No, neanche un bianco fu implicato nella vicenda.

Il coinvolgimento di Iverson porta il caso all’attenzione di tutto il Paese e di lì a poche sere viene arrestato, ancora 17enne, prelevato dalla polizia direttamente all’uscita dal palazzetto – dove ha appena segnato 42 punti contro Ferguson HS.

Il caso viene affidato pro bono a Herbert Kelly, un “azzeccagarbugli” locale che non sembra avere i mezzi per affrontare un processo di questa portata. Kelly non ne fa una giusta, non sarà mai chiaro se per incompetenza o, come alcune teorie suggeriscono, per dolo; fatto sta che non riesce nemmeno a opporsi a che, da volontà dell’accusa, Allen venga giudicato come adulto.

Già dall’inizio del processo si capisce che per Iverson sarà difficile cavarsela: nonostante Hampton sia divisa, il giudice dalla pessima fama Overton e la maggior parte della comunità bianca della Virginia vogliono infliggergli una punizione esemplare.

Incredibilmente, l’accusa imputa ai giovani di essere una gang con scopi criminali e di aver premeditato l’assalto, ricorrendo a una legge dei tempi della guerra di secessione.

Anche agli occhi più scettici la vicenda assume contorni paradossali. Il bigottismo e il pregiudizio razziale sono indubbiamente centrali, i più vicini a Iverson arrivano a sostenere che si tratti di un piano atto a rovinare il suo brillante futuro.

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​Fatto sta che il giudice Overton condanna Allen e i suoi amici a 15 anni di reclusione, di cui 10 sospesi: 5 quindi da scontare regolarmente, senza possibilità di avere libertà su cauzione in attesa dell’appello. Gli unici criminali cui è sempre negata la libertà su cauzione prima dell’appello sono gli assassini destinati alla pena capitale…

All’indomani della sentenza, Hampton è una polveriera e diverse rivolte partono dalla comunità nera, indignata per l’ingiustizia subita da A.I. e i suoi amici. Per quanto la tensione sia alta nelle strade, il vero dramma è quello di Allen, appena 18enne, rinchiuso presso il carcere di Newport News City Farm.

“Questa vicenda mi ha insegnato molto, e in età precoce. Chiesi a mia nonna – Non ho fatto niente, perché Dio permette che mi succeda tutto ciò? Lei mi rispose – Non dubitare mai del volere di Dio. Da allora non l’ho mai fatto. Gli avvocati continuavano a dirmi che era una questione di giorni e sarei uscito. Poi un amico mi venne a trovare e mi diede il miglior consiglio: smettila di pensare alla scarcerazione. Sopporta a testa alta, non mostrare debolezze e, scontata la pena, tornerai a fare ciò che ami. Così fu più facile affrontare quel periodo”.

Durante la detenzione si tiene occupato lavorando come panettiere e giardiniere, mentre la sua presenza diventa molto ingombrante all’interno del piccolo carcere. Ogni giorno i secondini gli consegnano migliaia di messaggi e regali da parte di ammiratori e ammiratrici (si parla di molti capi d’intimo), così come vere e proprie lettere minatorie piene di epiteti razzisti.

Sono molte le richieste d’intervista da parte delle televisioni locali e nazionali, tra cui quella di Tom Brokaw, storico anchorman e giornalista, che porta le sue camere all’interno del Newport News City Farm per dedicare una puntata del suo Nightly News alla vicenda. Il programma della NBC è uno dei più visti d’America e indubbiamente questa intervista fu fondamentale per Iverson, mostrandolo sotto una luce diversa.

Tutte queste pressioni, orchestrate bene dal nuovo avvocato James Ellenson e dalla comunità nera, arrivano fino all’ufficio del governatore della Virginia, Douglas Wilder, il primo governatore afroamericano eletto nella storia degli Stati Uniti.

Wilder è vicino alla fine del suo mandato, cosa che gli permette ampia libertà decisionale; e studiato a fondo il caso, delibera per la grazia per insufficienza di prove a favore di Iverson, Simmons, Stephens e Wynn, che il 30 dicembre 1993, dopo quasi 5 mesi di carcere, tornano in libertà.

Una volta uscito, Allen riesce a diplomarsi grazie all’aiuto di Sue Lambiotte, sua tutor in carcere, che lo convince a studiare duramente anche fuori per guadagnarsi il tanto agognato “pezzo di carta”. “Fu un piacere lavorare con lui, tutti parlavano del suo potenziale sportivo, ma Allen aveva anche un potenziale accademico infinito, è sempre stato molto intelligente e ricettivo”.

Ma questa vicenda ha cambiato tutto.

Le università, che mesi prima lo subissavano di lettere di reclutamento, ora non si fanno più sentire. Nonostante sia innocente agli occhi della legge, ormai il danno è fatto: è diventato un personaggio scomodo. Ad Allen servirebbe solo una seconda possibilità e alla fine una scuola gliela concede: Georgetown, guidata dal leggendario coach John Thompson.

“Non sono io ad aver reclutato Iverson. È stata sua madre a ingaggiare me. Ero titubante come tutti, ma io e Ann abbiamo parlato faccia a faccia, mi ha fatto capire quanto fosse preoccupata per la vita e il futuro di suo figlio. Da padre e da afromericano mi sono immedesimato facilmente, alla fine mi sono convinto a dargli una possibilità. Certo, con lui ho corso un grosso rischio, dato che avevo il mandato di proteggere l’università, il suo nome, il programma…”

John Thompson
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Thompson diventa un secondo padre, verrebbe da dire “primo” vista la totale assenza di quello biologico. “Era il mio idolo, il mio eroe. Teneva ogni cosa negativa lontana da me e così mi ha permesso di essere uno studente universitario. Non mi ha mai urlato contro, soprattutto davanti agli altri; ma quando facevo cazzate, mi prendeva da parte e mi metteva subito in riga: vuoi tornare nel tuo quartiere di merda? Vuoi che tua madre e le tue sorelle facciano sacrifici per il resto della loro vita?”

I due anni a Georgetown di Iverson sono semplicemente entusiasmanti: durante il primo conquista il premio di Big East Rookie of the Year, nel secondo migliora tutte le sue voci statistiche portando la squadra fino alla Elite 8, prima della sconfitta contro Massachusetts. Chiude la sua carriera universitaria col record degli Hoyas per media punti a partita, oltre a venir nominato nel miglior quintetto dell’intero college basket.

Alla fine del secondo anno, si dichiara eleggibile per il Draft, primo giocatore sotto coach Thompson a lasciare Georgetown anzitempo per i professionisti. Il quale non era convinto al 100%, anzi. Ma, sempre da buon padre, l’ha sostenuto. “Non ero d’accordo, volevo rimanesse per quattro anni. Conosco l’NBA e so a cosa sei esposto, temevo non fosse abbastanza maturo per affrontare tutto questo. Ma ho comunque rispettato la sua scelta e l’ho sempre supportato”.

Allen aveva bisogno del benestare di Thompson e una volta ricevuto, è pronto al grande salto. Del resto la famiglia Iverson ha bisogno di soldi, con mamma Ann che rimbalza tra lavori saltuari e una sorella affetta da forti crisi epilettiche che richiedono costose cure di uno specialista.

Quello del 26 giugno 1996 è uno dei Draft più carichi di talento della storia dell’NBA: insieme a The Answer vengono selezionati Kobe Bryant, Ray Allen, Steve Nash e Stephon Marbury – solo per citarne alcuni. Ma è il suo nome a essere chiamato per primo, diventando la prima scelta assoluta più bassa di sempre.

Ed è da quella sera che ha inizio la parabola di un giocatore che ha cambiato l’NBA.

Una parabola che ha rischiato di non vedere mai la luce per colpa di un’assurda vicenda giudiziaria, che avrebbe potuto privarci del suo immenso talento, del suo immenso cuore. Che, semplicemente, avrebbe potuto privarci di uno dei giocatori, pound for pound, più forti di sempre.

The Answer.