Scelte sfortunate al Draft, infortuni che rivoluzionano in corsa i progetti, la passione per la pallacanestro che non compensa l’anonimato del Midwest. Protagonisti del secondo episodio della serie sono gli Indiana Pacers.

Quando puoi contare su un rooftop affacciato su palme e oceano, una vita mondana fondata sullo showbiz, o anche su una certa tradizione notturna e/o cestistica, attirare l’asset da sempre più prezioso nel contesto NBA – un All-Star free agent – è chiaramente più facile.

Certo, in questo senso Los Angeles è imbattibile, e la Baia di San Francisco è il suo naturale contraltare, volendo anche intellettualmente: laddove ad Hollywood – che c’era e c’è – si risponde con l’eredità hippie ma non troppo consistente nella Silicon Valley. Può fare concorrenza Miami, posto da vacanza 365 giorni se ce n’è uno. New York offre vibes in un certo senso opposte, ma comunque impareggiabili per un ventenne con dollari da spendere e la necessità di sentirsi parte di qualcosa di grande: big lights will inspire you, cantava Alicia Keys con l’allora non ancora proprietario dei Brooklyn Nets Jay-Z. Anche Boston, Chicago o Toronto possono avere degli argomenti favorevoli per la loro storica vita notturna molto attiva nonostante il clima, e perché almeno per le prime due, mettere quella canotta è oggettivamente qualcosa di diverso.

Eppure – come è diventato molto cliché scrivere – da quando la polarizzazione politica negli States tra costa e interno è diventata quasi un meme, e dunque nota anche da questo lato dell’Oceano, c’è un’altra America. Le cosiddette province dell’impero, se stiamo sui freddi numeri, non si avvicinano minimamente all’apporto di pubblico dei big markets, ma contano per circa la metà delle 30 franchigie.


In questa serie, il primo episodio della quale trovate QUI, vedremo chi ha battuto le probabilità e soprattutto come, e chi invece tramite un ampio spettro di follie, scelte sbagliate e personalismi è riuscito a complicarsi ulteriormente la vita. Con le spettro della relocation che su qualcuno ancora incombe. Il fantasma, almeno in teoria, non minaccia gli Indiana Pacers.

A un passo dall’anello

Vorrei ma non posso o potrei ma non voglio? L’interrogativo è d’obbligo se ci si riferisce alle “piccole” della National Basketball Association a cui, storicamente, è mancato il centesimo per fare il dollaro. Anche gli Indiana Pacers, loro malgrado, non fanno eccezione: la franchigia epitome del Basketball State non è mai riuscita (o le è stato precluso dal destino, scegliete voi da che parte della barricata posizionarvi) a muovere quel passo decisivo per concretizzare la passione e la competenza cestistica che pochissimi altri luoghi a stelle e strisce possono vantare. Nessuno dei quattro aspetti fondamentali che regolano l’arrivo e la partenza dei giocatori nella Lega ha rappresentato un motivo di vanto o rivendicazione per Indiana. Aurea mediocritas, in poche parole: i Pacers non hanno mai voluto trascendere negli eccessi, accontentandosi della misura e del rispetto del giusto mezzo. Tutto estremamente apprezzabile in un universo utopico (o forse distopico?) e ideale, ma non nel mondo di squali che è l’NBA. E l’essere bastard, purtroppo, è un attributo non selezionabile al draft o scambiabile in qualche trade

Draft

Provenienti dal magico mondo della ABA, i Pacers fanno capolino in NBA nel 1976. Senza considerare il necessario Expansion Draft dello stesso anno, la prima scelta della storia Hoosier è tale Alonzo Bradley (Round 2, Pick 7, NBA Draft 1977), girato a Houston prima che potesse esordire in NBA nel dicembre dello stesso anno. È dell’anno seguente la prima possibilità della neonata franchigia di selezionare un giocatore al primo giro: è Rick Robey (Round 1, Pick 3, NBA Draft 1978), che in maglia Blue&Gold giocherà la miseria di 43 partite prima di passare ai Celtics e ai Suns, non mantenendo le attese che aveva generato nel quadriennio a Kentucky University.

Nel corso dei decenni, vale la pena menzionare alcuni nomi tra il pittoresco e il curioso che senza Indiana, chissà, non avrebbero mai potuto strappare almeno un sorriso sul volto degli appassionati. In ordine cronologico: Clark Kellogg (Round 1, Pick 8, NBA Draft 1982) e tutte le battute sulla sua presunta passione per i cereali a colazione; Sidney Lowe (Round 2, Pick 1, NBA Draft 1983), scelto dai Bulls dopo la fantastica annata della NC State di Jim Valvano, immediatamente acquisito da Indiana in sede di Draft e attuale assistant coach di Cleveland; Devin Durrant (Round 2, Pick 1, NBA Draft 1984), versione ante litteram di KD se fosse esistito Pro Evolution Soccer negli Eighties; Erick Dampier (Round 1, Pick 10, NBA Draft 1996), noto ai più per aver partecipato a entrambe le Finals tra Heat e Mavericks dalla parte degli sconfitti, Dallas nel 2006 e Miami nel 2011; Caris LeVert (Round 1, Pick 20, NBA Draft 2016), passato insieme alla seconda scelta dell’anno successivo ai Nets la notte stessa in cambio di Thaddeus Young, ritornato ai Pacers nel 2021 nella trade Harden dopo aver rischiato letteralmente la vita e ceduto a Cleveland il 7 febbraio 2022 in cambio, sostanzialmente, della prossima scelta a fine primo giro dei Cavs.

Anche quando le probabilità di ottenere le scelte migliori in lottery erano normate in modo diverso, Indiana è una delle poche franchigie a non aver mai avuto la possibilità di scegliere per prima. Tre volte ha avuto la Pick 2: se le carriere di Steve Stipanovich (Draft 1983) e Wayman Tisdale (1985) confermano la massima della scienza inesatta, esito migliore ha avuto la lungimiranza della dirigenza del Midwest sul potenziale di Rik Smits (1988). L’olandese di Eindhoven, prodotto di Marist, è stato il secondo giocatore a vestire per tutti i 12 anni di più che onesta carriera (All-Star nel 1998) la canotta dei Pacers, incarnando per oltre un decennio una seconda bocca da fuoco più che affidabile. L’unico a precederlo, scelto appena l’anno prima, è invece la conferma della tendenza storica di Indiana di pescare, in rapporto scelta/carriera, meglio verso fine lottery che più in alto. Bennedict Mathurin (Round 1, Pick 6, NBA Draft 2022), scelta più alta della storia di Indiana da Smits stesso, è chiamato a invertire la rotta.

18 anni di carriera, NBA’s Top 75, Hall of Fame Player, 5x All-Star, #31 ritirata da Indiana. Serve altro per descrivere lo storico e viscerale rapporto tra i Pacers e Reginald Miller? Dal 1987 al 2005 Reggie è stato la stella indiscussa della squadra, simbolo dell’epoca più gloriosa della storia Hoosier. Egli, californiano di Riverside e prodotto di UCLA,  possiede i crismi dello stereotipo umano meno sopportato nel Midwest. Eppure, l’agonismo, l’etica del lavoro e la passione per il Gioco hanno creato un connubio inscindibile tra il #31 e lo stato dell’Indiana. Le uniche scelte significative dei Draft durante i trascorsi di Miller erano dettate dalla volontà di Herb Simon e dei vari GM succedutisi di affiancare al profilo di Miller giocatori già pronti, anche a costo di rinunciare al potenziale futuro. Dale Davis (Round 1, Pick 13, NBA Draft 1991) e Al Harrington (Round 1, Pick 25, NBA Draft 1998) sono gli unici di quest’epoca ad aver avuto rilevanza ai massimi livelli, in maglia Pacers o altrove.

Nel post Miller, è sempre a cavallo della lottery che Indiana ha saputo scovare gemme che, passate sottotraccia a chi disponeva delle prime scelte, stanno avendo o hanno avuto una carriera proporzionalmente migliore rispetto a chi li ha preceduti negli elenchi pronunciati da Stern e Silver. In attesa di capire il prosieguo dell’evoluzione di Chris Duarte (Round 1, Pick 13, NBA Draft 2021), sperando che non ci si trovi di nuovo a rimpiangere il momento in cui ci si immaginava la redenzione del Goga Bitadze di turno (Round 1, Pick 18, NBA Draft 2019), soggetto allo snobismo totale rispetto all’hype degli Zion o dei Morant, i tre profili migliori pescati da Indiana nell’ultimo ventennio sono arrivati alla 17, alla 10 e alla 11.

Gli infortuni ci hanno precluso della piena espressione del talento offensivo di Danny Granger (2005), una personalità complessa e discutibile come quella di Paul George (2010) ne hanno impedito la realizzazione di una copia dell’esperimento Miller (californiano, università californiana, 4x All-Star da Pacer), fit tecnici imperfetti con gli altri titolari hanno privato Myles Turner (2015) dei riflettori che avrebbe meritato.

Come in tutte le storie di rimpianti e rimorsi, però, è quel che non è successo ad avere la meglio. È la scelta che Indiana ha fatto, ma non per sé stessa, ad aumentare i sospiri malinconici nel Midwest. Se Gregg Popovich arriva a rinunciare a un pupillo come George Hill si doveva intuire che la fregatura fosse dietro l’angolo. E no, non ha assunto le sembianze di Davis Bertans o Erazem Lorbek. Round 1, Pick 15, NBA Draft 2012: Kawhi Leonard, tempo di indossare il cappellino dei Pacers e stringere la mano al commissioner sul palco del Prudential Center di Newark, è già diretto sulle rive dell’Alamo, destinato a scrivere la storia di San Antonio prima e Toronto poi. Una steal al quadrato, nella quale solo Indiana è stata “derubata”.

Free Agency

Il paragrafo seguente elencherà gli svariati motivi per cui un atleta professionista potrebbe scegliere, una volta libero sul mercato, di firmare per i Pacers piuttosto che per qualsiasi altra franchigia NBA:

  • la passione per l’automobilismo.

Tutt’al più, un pizzico di masochismo e disprezzo per la vita sociale.

Cercando di riportare il discorso su binari leggermente più seri, è oggettivamente complicato per un market come Indiana garantire la stessa attrattività in sede di free agency. Indianapolis non è certo la città più affascinante agli occhi di uno straniero: Sarunas Jasikevicius, Kyrylo Fesenko (pausa scenica…) e Travis Diener (altra pausa…) sono gli unici sbarcati dal Vecchio Continente nel Midwest senza passare dal Draft. Indianapolis non è certo la città più intrigante per un veterano che si trascina lentamente verso il ritiro: Byron Scott (1993-1995) rappresenta una parziale eccezione alla regola, confermata d’altro canto da Michael Cooper (1990), Tim Hardaway (2003) e, pace all’anima cestistica sua, Andrew Bynum (2014). Vale la pena citare le prime volte: il primo free agent firmato da Indiana è Dave Robisch in data 1° agosto 1976; il primo two-way contract è Naz Mitrou-Long, attuale croce, di nuovo croce e per sbaglio delizia dell’Olimpia Milano, costante pendolo tra i Pacers e l’affiliata G League di Fort Wayne dal 31 luglio 2019.

Pochi sono coloro che hanno deciso di sposare il progetto di Indiana senza venire costretti da una trade e hanno contribuito fattivamente ai fasti della Gainbridge Fieldhouse. Gli unici, convinti dal talento e dall’eleganza di Paul George, sono stati David West (13 dicembre 2011), reduce da annate tribolate a New Orleans, e Monta Ellis (16 luglio 2015), all’ultimo tentativo di raggiungere l’anello dopo una serie di rimpianti tra Golden State, Milwaukee e Dallas. Entrambi sono stati tasselli importanti di un’epoca non coronata dall’alloro ma che ha restituito splendore alla franchigia dopo un primo decennio del Ventunesimo secolo alquanto opaco.

Il 13 luglio 2015 è l’inizio di un nuovo conteggio nel calendario cestistico del Midwest. Se quello gregoriano si misura in giorni e mesi, quello di Indiana si conta in “estensioni contrattuali e proposte di scambio per Myles Turner”. I Pacers vivono una rifirma del prodotto di Texas alla volta, nella speranza che la situazione prenda una piega definitiva (il tentativo di prendere Ayton in estate dovrebbe suggerire uno degli scenari possibili, se non il più benaugurante). D’altronde, la free agency dei Pacers è composta per la maggior parte dal prolungamento e dall’adeguamento dei contratti già in essere: Miller, George, Granger e altri grandi nomi arrivati via trade sono i profili più presenti nelle liste dei free agent di Indiana. Un caso, tuttavia, merita un capitolo a parte.

Charlotte, Clippers, Memphis, Minnesota, New Orleans, Lakers, Atlanta. E potrebbero non essere tutte, visto che la carta d’identità indica come data di nascita 5 settembre 1990. Come per diversi esponenti dell’Atalanta di Gasperini, si sente spesso dire che alcuni giocatori siano in grado di splendere solo in determinati contesti. Nella pallacanestro si notano meno, ma Lance Stephenson è un’icona in merito. Nonostante il peregrinare nella Lega, il prodotto di Cincinnati (Round 2, Pick 10, NBA Draft 2010) è parso Born Ready solo se fomentato dagli spalti della Fieldhouse. Selezionato in contemporanea con PG, ha rappresentato la variabile impazzita, letteralmente, di quei Pacers. È la traiettoria di eterno ritorno, tuttavia, a interessarci: lasciata Indianapolis nel 2014, Stephenson riveste la canotta Blue&Gold per 6 partite nel 2016/2017, firmando un annuale per la stagione successiva. È però il 2022 l’anno che spiega al meglio il folle e irrazionale rapporto tra Lance e Indiana: il 1° gennaio firma un primo decadale, seguito da altri due 10-day-contract, resi possibili dalle modifiche al CBA a causa della pandemia, il 14 gennaio e il 24 gennaio. Nelle 40 partite di quell’anno vi è l’essenza del perché solo uno come Born Ready potesse far innamorare e ricambiare l’affetto del Midwest. Perché tanto lo sappiamo tutti che, quest’anno o alle prossime deadline, Lance Stephenson tornerà agli Indiana Pacers.

In-season trades

Se esiste una mentalità, una culture per la quale la pazienza, la prudenza e la disponibilità a dare fiducia allo sviluppo e al progressivo e graduale consolidamento delle risorse a disposizione, gli Indiana Pacers sono i portabandiera cestistici. Ogni modifica dei piani e dei progetti dei decenni Pacers è sempre percepita come il riflesso delle volontà altrui, come se Herb Simon preferisse accollarsi le conseguenze delle iniziative di altri piuttosto che imporne di proprie. Indiana non è mai stata e mai sarà una squadra propensa, per frenesia o per urgenza, a premere il panic button: aurea mediocritas, in tutto e per tutto. Figuriamoci nel bel mezzo di una stagione. La storia recentissima potrebbe aver registrato una svolta epocale, ma il futuro è ancora da scrivere. Andiamo con ordine.

La prima In-Season trade è datata 13 dicembre 1977: dai Los Angeles Lakers arrivano Earl Tatum, quasi omonimo del miglior pianista jazz della storia, e James Edwards. Il primo grande nome a giungere in Indiana durante la regular season è Detlef Schrempf: il 21 febbraio 1989 il tedesco di Dallas (non quel tedesco di Dallas) inizia il proprio quinquennio coi Pacers, culminato con la partecipazione all’All Star Game 1993 e il 6th Man of The Year Award nel biennio 1991-1992. Nel tentativo di consegnare a Larry Brown i pezzi mancanti del puzzle vincente attorno a Larry Bird, il primo grande scambio interno alla stagione si vede nel 1997: il 20 febbraio, oltre all’attuale head coach dei Lakers Darvin Ham, in cambio di Jerome Allen da Denver ritorna Mark Jackson. Già, ritorna. La diciottesima del Draft 1987 aveva già fatto parte dei roster precedenti dei Pacers: il GM Donnie Walsh, apprezzando come pochi altri addetti ai lavori la visione di gioco del play da St John’s, era già riuscito a portarlo (insieme a Greg Minor) nel Midwest nell’estate 1994, inviando ai Clippers Pooh Richardson, Malik Sealy ed Eric Piatkowski. Nonostante la predilezione della dirigenza, Jackson lascia Indiana nell’estate 1996. Certi amori non finiscono, direbbe un famoso cantautore romano: il giro lontano da Indianapolis non è immenso, dato che passano poco più di otto mesi e Walsh riporta il figliol prodigo alla Fieldhouse.

Il successivo ribaltone in itinere avviene il 19 febbraio 2002: così come Mark Jackson, i Denver Nuggets sono stati coinvolti nell’arrivo a Indiana di un’altra delle figure simboliche delle Finals. Nel 1996 arriva a Indianapolis Jalen Rose, uno dei Fab 4 a Michigan, sorta di Franz Wagner in dimensioni ridotte. Dopo 6 anni di ottimo sostegno a Reggie Miller, la longa manus di Larry Bird, coach nel 2000 e GM nel 2002, muove la pedina Rose. Le mani di Rick Carlisle si trovano a gestire una minirivoluzione: fuori Travis Best, Norman Richardson, una seconda scelta e appunto Jalen Rose, dentro Ron Mercer, Kevin Ollie, Brad Miller e, soprattutto, l’allora Ron Artest.

Tempo di farsi squalificare per 82 partite in seguito al Malice at the Palace e cambiare nome in Metta World Peace, l’amico dei panda è protagonista della successiva in-season trade: il 19 gennaio 2006 prende un volo con destinazione Sacramento. L’aereo con la rotta inversa ospita uno degli europei più influenti dell’evoluzione della pallacanestro americana, ricordato negli annali per essere dalla parte sbagliata della storia. In pieno stile Pacers, insomma. Peja Stojakovic è così il primo nodo dell’improbabile filo che lega i Pacers ai Sacramento Kings, in uno dei rapporti più strani tra le squadre NBA, che si arricchirà di ulteriori sviluppi. Prima che questo avvenga, tuttavia, le deadline febbraiuole riservano ulteriori sliding doors dell’epopea Pacers.

Le ginocchia di Danny Granger, o quel che ne è rimasto, e una seconda scelta vengono inviate dal GM Chad Buchanan a Philadelphia. Il 20 febbraio 2014 si consuma l’ultimo sospiro dei rimpianti di Danny Boy: a Indianapolis giungono Lavoy Allen, Evan Turner e l’ennesimo velo malinconico sul Crocevia d’America. Il gennaio 2021, se ben ricordate, è tempo dell’ultimo saluto a Caris LeVert. A Indianapolis, tuttavia, pochi si ricorderanno tra lustri o decenni che fosse il #3 Cavs la pietra d’angolo dello scambio. Qualcuno in più collegherà la trade alle bizze di Harden e al fallito all in dei Nets. Se si è affezionati, disgraziatamente, a Indiana, il 16 gennaio è l’addio a Victor Oladipo, ennesimo what if del romanzo Hoosier. Nemmeno due anni fa i Pacers hanno preso la decisione: si smantella il vecchio core, si ricostruisce attorno al duo Sabonis-Turner. Oppure no?

Non ci potevamo credere”. Queste le parole di reazione di Kevin Pritchard una volta terminata la telefonata. All’altro capo Monte McNair e l’urgente Win Now di Sacramento. Bastava così poco? Era sufficiente menzionare Sabonis e la disponibilità a scambiarlo per far balenare l’idea alla dirigenza californiana di privarsi di Tyrese Haliburton? A Indiana non sembra vero che questo regalo “piova dal cielo”, senza apparente sforzo. Uno come Hali, a Indianapolis, di sua spontanea volontà non verrebbe mai. Non sarebbero sufficienti le origini e la famiglia del vicino Wisconsin. Se proprio dobbiamo, sembrano pensare Pritchard e Buchanan. L’8 febbraio 2022 rischia di trasformarsi nel Natale dei futuri calendari dell’Indiana. In quel giorno, Tyrese Haliburton, Buddy Hield e l’ologramma di Tristan Thompson arrivano a Indianapolis, tra lo stupore del resto della Lega, in cambio di Domantas Sabonis, Justin Holiday e Jeremy Lamb. L’inizio di un’era vincente? O, inevitabilmente, l’ennesima pagina carica di promesse non mantenute?

Offseason trades

Briciole, o poco più. Dal ricco piatto delle offseason trades dell’NBA, ai mercati come Indiana rimangono le briciole. Sin dal 1977 i Pacers sono costretti a speculare sugli scarti, sui margini dei grandi movimenti estivi. Indiana è obbligata ad agire di rimessa, in seconda battuta, sperando di sviluppare solo nel corso degli anni gli asset acquisiti tra giugno e ottobre. A meno che, nel peggiore dei casi, non sia lei a dover sacrificare qualcosa in favore delle mire e degli interessi dei propri migliori esponenti, attratti da tutto quello che non riguarda un campo da basket che si può trovare in giro per gli USA ma non nel Midwest.

Il primo movimento è una sign&trade coi Buffalo Braves. Appena giunti nella Lega, i Pacers accolgono Mike Bantom e Adrian Dantley. Per le successive venti estati, sostanzialmente, più nulla. Oltre alla già citata trade per Jalen Rose, è del 1997 l’ultima zampata in sede di mercato tentata da Walsh per regalare un titolo a Miller. Da Golden State arriva nell’estate 1997 Chris Mullin, membro del Dream Team di Barcellona, identikit ideale del tiratore bianco tanto ammirato nel Midwest. Arrivati a uno Shaquille O’Neal dal titolo, Indiana si illude che basti far propria la nemesi storica per centrare l’obiettivo. Peccato non arrivi Shaq, né un suo parente. Nonostante 6 presenze all’All-Star Game, 2 volte nel terzo quintetto e una volta nel secondo e il titolo di MIP del 2002, Jermaine O’Neal non raggiungerà mai le vette dell’omonimo. Il 31 agosto 2000, insieme a Joe Kleine, O’Neal arriva ai Pacers da Portland, lasciando Indiana solamente nel 2008 alla volta di Toronto.

Non saranno le trade di Hibbert, George Hill, Jeff Teague, Luis Scola e Gerald Green a segnare l’era Blue Collar Gold Swagger. Iniziata col Draft 2010, l’ultima grande edizione Pacers è griffata Paul George: da Fresno State, insieme a tanti dubbi sulla tenuta fisica, PG si è lasciato non nel migliore dei modi col pubblico della Gainbridge. Nell’estate 2017, una settimana dopo dichiarazioni al miele di amore eterno per la franchigia, Indiana invia PG13 a OKC in cambio di Victor Oladipo e Domantas Sabonis. Una tragedia, un disastro, maglie bruciate e post al veleno. Nell’immediato, nemmeno i più strenui sostenitori di Vic e Domas avrebbero scommesso che, nel lungo periodo, la trade potesse essere dichiarata non completamente fallimentare.

L’atterraggio di Oladipo sul parquet della Fieldhouse su quel recupero difensivo con Toronto ha privato Indiana dello step ultimo verso l’olimpo. Victor ritorna ma non è più lo stesso. E Indiana, aggrappata al suo atletismo, è ancorata al suo decadimento fisico. Nonostante costi molta fatica, i Pacers sono costretti ad alzare bandiera bianca, dopo aver tentato di coprire parzialmente le lacune con la trade Brogdon nel 2019. Con la dipartita di The President verso il Massachusetts, quel piano di conquista è stato definitivamente accantonato. I sogni, le aspirazioni e i desideri dell’Hoosier State non lo saranno mai. Come, probabilmente, i rimpianti.