Una vita consacrata alla castità è già di per sé complicata, lo è ancor di più nella folle Los Angeles degli anni ’80. Se si aggiunge il record di partite consecutive giocate in NBA, la carriera di A.C. Green è davvero qualcosa di unico.

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Quando si pensa a Los Angeles l’immaginazione fotografa inevitabilmente le spiagge, il clima mite e lo star system hollywoodiano, fatto di dive e divi di mitologica bellezza, di sfrenata mondanità, spesso accompagnata da feste infarcite di eccessi, vizi e trasgressione.

Nel 1979 Jerry Buss acquista la franchigia dei Lakers con la volontà di creare un prolungamento di Hollywood sul rettangolo di gioco del Forum di Inglewood. Una squadra dedita all’intrattenimento, che giocasse un basket veloce e spettacolare, con un gruppo di ballerine professioniste e una live band che accompagnasse le gesta sportive e facesse divertire gli spettatori, creando una vera e propria partnership con il mondo dello spettacolo.La sua idea di gestione viene dalla frequentazione di un noto nightclub di Santa Monica, il The Horn, che attraeva sempre una clientela molto prestigiosa. L’opening act del locale era uno strabiliante gioco di luci accompagnato da una sontuosa musica, e il brano ufficiale del locale, “It’s Showtime”.

Ecco come nasce una delle squadre più eccitanti e vincenti della storia del basket americano, guidati da chi incarnò alla perfezione la quintessenza dello Showtime: Earvin “Magic” Johnson, prima scelta assoluta al Draft del 1979 – anno in cui da rookie vince il titolo e il premio di MVP delle Finals.

Gli anni successivi sono trionfali: tra 1979 e 1985 arrivano 5 finali e 3 anelli.

Il disegno di Jerry Buss è andato ben oltre le aspettative: i Lakers sono ufficialmente il più grande spettacolo che lo sport americano abbia da offrire e i suoi interpreti hanno superato rockstar e attori come notorietà e potere attrattivo.

“Bastava indossare la maglia gialloviola per avere l’intera Los Angeles ai tuoi piedi”.

Michael Cooper

Sono anni permeati dall’edonismo sfrenato, in cui il Forum Club, la discoteca legata al palazzo di Inglewood, e gli house party organizzati da Magic Johnson sono luoghi assimilabili alla residenza del magnate di Playboy Hugh Hefner.

L’istrionico Magic è insaziabile, le sue feste sono ancora leggendarie:

“Se esistesse davvero un paradiso, vorrei fosse come le feste a casa di Magic. C’erano le donne più belle del mondo, senza dubbio! E a mezzanotte dovevi essere “impegnato” con una di loro o Magic ti sbatteva fuori di casa. Sul serio! Si aggirava per la festa con un’aria da maniaco e controllava che tutti si stessero…dando da fare. Essere famosi è seducente per molte donne a Los Angeles. È una cosa triste da dire, me ne rendo conto, ma la fama conta”.

Frank Brikowski, ai Lakers nel 1986/67

È in questo scenario da Sodoma e Gomorra che al Draft del 1985 i Lakers, alla ventitreesima chiamata assoluta, scelgono l’ala A.C. Green da Oregon State.

Appena sbarcato al Forum, Green comincia ad allenarsi con i suoi nuovi compagni e si rende subito conto che non sarà facile per lui adattarsi. O per i suoi compagni adattarsi a lui.

Cresciuto a Portland, il più giovane di quattro fratelli, A.C. (iniziali ereditate dal nonno ma che non significano nulla) fino al liceo è un ragazzo estremamente timido, affetto da singhiozzo cronico, non certo un acceleratore per la socializzazione, e ha grande difficoltà a relazionarsi con gli altri.Il suo destino cambia quando il coach della squadra di basket della Benson Polytechnic High School, Dick Gray, vede in lui un potenziale che il giovane e insicuro A.C. non vede in se stesso.

“Conoscerlo fu un momento chiave per me. Mi diede una visione, la possibilità di andare al College con una borsa di studio sportiva. Mi obbligò a pormi nuovi standard e lavorare per migliorarmi, sia come atleta che come persona”.

Lo sport lo rende più popolare, e a migliorare la sua timidezza è anche l’incontro con il pastore Irving, che gestiva l’Albina Christian Life Center di Portland frequentato dalla sua famiglia.

Si immerge sempre di più nel cristianesimo e nella lettura delle Sacre Scritture, dalle quale assorbe grande forza, in grado di “sbloccarlo” e di fornirgli una linea guida fatta d’impegno e sacrificio, qualità che gli saranno molto utili anche tra i professionisti.Quando sbarca a Oregon State è già un giocatore devastante.

È una di quelle macchine da rimbalzo che sembra avere un istinto innato per sapere dove andrà a finire il pallone dopo un tiro sbagliato. È totalmente privo di personalismi, tutto quello che produce è al servizio dei compagni. Quando c’è da segnare, segna; quando c’è da buttarsi a terra per un pallone lo fa; i rimbalzi sono dati per scontato, così come le difese dure ma impeccabili.Tutto questo lo porta a essere un All American nel suo anno da Senior.

“Non se la tirava, mai una punta di arroganza o di spacconeria, come invece capitava spesso con altri atleti della nostra università…Voleva solo fare bene, fare la cosa giusta”.

Roger Levasa, amico e giocatore di football a Oregon State

C’è un solo particolare che turba gli scout NBA: Green è vergine. La sua profonda fede religiosa l’ha portato a scegliere la totale astinenza dal sesso, impulso al quale potrà lasciare libero sfogo solo dopo il matrimonio.

Le sue convinzioni si spingono al punto da organizzare una protesta nel suo ateneo dopo aver scoperto che delle copie di Playboy venivano vendute nel bookstore di Oregon State, incurante che tra le stesse pagine fosse stato segnalato come uno dei prospetti più interessanti del Paese…

La notizia fece rapidamente il giro del College Basket, tanto che le tifoserie avversarie, quando Green si presentava in lunetta, cercavano di distrarlo mostrandogli gigantografie di donne in bikini.

“Non avevo nessun interesse nel provare il sesso prima del matrimonio. Volevo farlo solo nel contesto giusto, come frutto di un legame profondo. Era troppo importante per me, qualcosa su cui non ero disposto a scendere a compromessi”.

La scelta del general manager Jerry West, dunque, non può essere casuale. Sa benissimo che l’approdo di un “atleta di Dio” non potrà che avere un effetto su quel roster e soprattutto su Magic: è probabile che nella sua infinita saggezza Mr. Logo volesse proprio vedere con i suoi occhi quale impatto Green potesse avere dentro e fuori dal campo.

Il primo impatto, come prevedibile, è lo scherno da parte dei compagni.

“Il mio anno da rookie fu il più complesso: i compagni cominciarono a prendermi in giro e scommettere su quando avrei perso la verginità. – Non ce la farai mai a resistere, A.C.! Una volta che vedrai cosa succede nel mondo NBA, farai di tutto per avere quelle ragazze meravigliose! – mi dicevano”.

Gli scherzi alle matricole, perpetuati di norma in tutte le squadre della Lega, nel suo caso sono ancora più divertenti. In più di un’occasione i suoi compagni, capitanati ovviamente da Magic, gli spediscono delle “professioniste” in abiti succinti a bussare alla sua camera d’albergo durante le trasferte.La risposta di A.C.? Porta che resta chiusa e preghiera ad altissima voce dedicata alla signorina.

“Dopo sei mesi i ragazzi capirono che facevo sul serio, che il mio impegno era reale e che avevo la disciplina per resistere alle tentazioni e restare vergine”.

Potrà resiste ai famosi festini di Magic? Sì, declinando gentilmente gli inviti con un “Non vengo ragazzi, ma pregherò per voi!”.A questo punto è chiaro a tutti che Green è di una tempra speciale e niente e nessuno potrà minare le sue convinzioni.

Questa disciplina è la stessa che sul campo porta risultati straordinari.Dopo l’interlocutorio anno da rookie, in cui prende le misure con un mondo completamente nuovo, A.C. comincia a far parte stabilmente del quintetto iniziale.

Kareem Abdul-Jabbar, James Worthy, Magic Johnson, Byron Scott… e lui.

Pat Riley non riesce a fare a meno della sua grinta sotto i tabelloni, del suo costante sacrificio per la squadra. È un fondamentale ago della bilancia nei Lakers che concludono uno straordinario back-to-back nel 1987 e 1988, contro Celtics e Pistons.

Nelle scene di festeggiamento del titolo del 1987, un dettaglio racconta bene come sia profonda la forza d’animo di A.C. I giocatori rientrano nello spogliatoio per festeggiare, e viene consegnata una bottiglia di champagne a ognuno di loro. Appena riceve la sua, Green la poggia subito a terra: anche l’alcool non è ammesso, nemmeno in un momento di euforia come questo.

In quelle due straordinarie stagioni Green registra più di 11 punti e 8 rimbalzi di media a gara, tirando con oltre il 50% dal campo.

“Quando era sul campo, A.C. si trasformava completamente, dall’uomo buono e gentile che era fuori dal parquet, diventava una bestia, un duro, uno di quelli che si fanno sentire fisicamente, sempre aggressivo”.

Byron Scott

“Questo stile di gioco l’ho fatto mio leggendo l’Antico Testamento. Penso che Gesù sarebbe stato quel tipo di giocatore, molto aggressivo, inarrestabile”.

A.C. Green

Arrivano altri titoli, altri riconoscimenti (tra cui l’All-Star Game nel 1990) che portano anche grande notorietà, ma nulla riesce a scalfire le sue convinzioni e a cambiarlo minimamente.

Anzi: usa la celebrità per diffondere ulteriormente il suo messaggio.

In questo esilarante video dei primi anni ’90, Green, accompagnato dal collega David Robinson e dalla star dell’NFL Barry Sanders, si cimenta in un rap dedicato all’unico sesso sicuro da lui concepito: la totale astinenza.

Il tutto accompagnato da una rappresentazione, con rivedibili prove attoriali, che mostra quali tentazioni bisogna respingere per vivere in modo retto.

“Cause there’s no safe sex except abstinence / Unless you’re married then you better stay committed”. In sostanza, “non esiste sesso sicuro al di fuori dell’astinenza, se non sei sposato meglio non farlo”.

“Certo che sono curioso riguardo al sesso, ma non a tal punto da violare il mio princìpio. Dio l’ha creato per limitarlo a un certo tempo e spazio, ovvero i confini del matrimonio. Se voglio vivere seguendo i suoi dettami, devo rispettarli tutti”.

Oltre all’astinenza totale che lo accompagna per tutta la carriera, A.C. si distingue per un altro “record”, molto più significativo, almeno da un punto di vista sportivo.

Dopo un infortunio a una mano che lo costringe a restare fuori per tre partite nella seconda stagione ai Lakers, Green comincia a non saltare neanche una gara.

Passano gli anni, stagione dopo stagione, per 14 annate disputa ogni singolo incontro.Arriva addirittura a giocare 83 partite nella stagione regolare ‘96/’97, unico nella storia NBA, a causa di uno scambio a metà stagione che lo porta da Phoenix a Dallas, che gli permette di giocare una partita in più rispetto a tutti i suoi colleghi.

La serie di gare consecutive disputate da Green inizia il 19 novembre del 1986, in una partita vinta a San Antonio contro gli Spurs e temina con l’ultima della sua carriera, il 18 aprile del 2001, quando i suoi Heat sconfiggono gli Orlando Magic.

1278 gare giocate su 1281 totali, 1192 partite consecutive.

Un numero sconvolgente considerato che il secondo in questa speciale classifica, Randy Smith, è fermo a 906.

In tutti questi anni ha avuto infortuni, ma mai abbastanza gravi o dolorosi da non permettergli di giocare. Un’etica del lavoro che viene soprattutto dalla sua famiglia.

“I miei genitori non hanno mai saltato un giorno di lavoro, non vedo perché per me dovrebbe essere diverso. Ho semplicemente continuato a giocare, sempre. Devo ammettere che non è stato facile farsi trovare pronto ogni sera, con il giusto approccio mentale, buone condizioni fisiche, recuperando sempre dai colpi ricevuti”.

E nonostante il tempo passi, il contributo che riesce a dare è sempre importante.

Dopo due parentesi ai Suns e ai Mavericks, nel 1999 A.C. Green torna a Los Angeles. La squadra di Shaq e Kobe ha bisogno di essere puntellata con qualche giocatore che possa dare minuti di esperienza e intensità. Green sta talmente bene che finisce per partire titolare in tutte e 23 le partite dei Playoffs che riportano i Lakers al titolo per la prima volta dal 1988, quando Green già faceva parte della franchigia.

È il primo anello del threepeat firmato Phil Jackson, è il terzo della carriera per “Iron Man”, come A.C. Green è stato ribattezzato in California.

L’anno dopo con i Miami Heat è l’ultimo della sua prestigiosa carriera, dopo la quale torna a vivere nella natale Portland, dove il 20 aprile del 2002 sposa Veronique.E a quasi 39 anni, finalmente, può consumare.

“Ne è valsa la pena di aspettare. Quando sposi la persona giusta al momento giusto non hai alcun rimpianto”.

Con la sua A.C. Green Foundation continua a predicare l’astinenza e a impegnarsi su altri temi sociali importanti, con l’intento di dare alternative e ispirare la gioventù americana a costruirsi un futuro diverso.

Oggi, a quasi vent’anni di distanza dal suo ritiro dal Gioco, è ancora materia di dibattito quale dei due “record” sia stato il più duro da realizzare nella sua carriera: l’astinenza dal sesso o la serie di partite consecutive?