Il Christmas Game 2004, la prima volta da avversari per Kobe Bryant e Shaquille O’Neal, è una sfida rimasta nella storia.

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ANTIPASTI

“ And in the game of life I should play to win.

The challenge is anticipation and victory can feel so cool.

But it don’t matter the game, there’ll can only be


ONE WINNER ”

Era il 24 dicembre 2004 quando i televisori di milioni di americani furono letteralmente bucati dal seducente sguardo del trio Beyoncè-Kelly Rowland-Michelle Williams. Altrimenti conosciute come le Destiny’s Child.

L’ABC decise di reclamizzare l’evento sportivo più importante del periodo con uno spot maestoso. Sotto le note della Hit “Lose My Breath” e sui passi di una coreografia ad hoc, Miss Carter e compagne avevano il pesante compito di introdurre il Christmas Game più atteso dell’intero programma natalizio: la sfida tra Lakers e Heat.

Kobe Bryant vs Shaquille O’Neal.

Dopo tre Titoli consecutivi insieme. Una dinastia.

Ai passi di danza – a coronare un siparietto più in stile Bollywoodiano che altro – si alternavano distruttive schiacciate di Superman e il cristallino talento di Kobe. THE BIG SHOW.

Per otto anni sono stati una famiglia.

Hanno riso insieme, combattuto insieme, vinto insieme.

Ma in un amen, una dinastia è implosa”.

La rovinosa sconfitta contro Detroit nelle Finals 2004 era stata un’esplosione ai limiti di un allarme nucleare, ed aveva “scaraventato” Shaq alla corte di Pat Riley e D-Wade in quel di Miami. Il “fratellino”, invece, era rimasto a LA. Per consacrarsi definitivamente e prendersi il palcoscenico più glamour dell’intera Lega. Da allora si erano visti solo botta e risposta a distanza, pieni di veleno e rancori. Cioccolatini da scartare per una stampa che aveva tutto l’interesse di proiettare alle stelle gli ascolti di un contenzioso pronto ad infiammare la NBA dei futuri 3 anni.

Per questo, quel 25 dicembre non tutti sarebbero stati proverbialmente “più buoni”. Era la prima volta che si incontravano da avversari, dopo che le loro strade si erano separate.

La tavola era stata imbandita con meticolosa cura. I commensali avevano preso ognuno il proprio posto. Tintinnio di bicchieri. Il pranzo poteva iniziare ad essere servito.

PRIMA PORTATA

La mastodontica figura di O’Neal si aggira sul parquet dello Staples Center – tirato più a lucido del solito per l’occasione – con fare compassato. Un’espressione seriosa sul volto, che recita un misto tra minaccia e consapevolezza: che per uno dei due quello non sarebbe stato un “Buon Natale”.

Lo sguardo rivolto platealmente altrove, quasi voglia palesare un atteggiamento di lucido distacco: “E’ una partita come le altre. La giocherò con la stessa cattiveria di tutte le altre. E la vincerò come le altre.

Il saluto prima della palla a due per Bryant è il preludio dello scontro. Un incontro pugilistico in stile anni ’60.

E’ lui, il fratellino a raggiungere l’ex-compagno. Nessun timore riverenziale dipinto sul suo volto. Assieme al classico pugnetto mormora qualcosa che soltanto chi è in campo ha il piacere di poter ascoltare. Una sorta di “buona partita”, una dichiarazione di intenti. “Non è una partita come le altre. La giocherò con molta più cattiveria. Sarò più aggressivo. E ti batterò”.

Il primo possesso non poteva che essere suo. Atkins cede la palla a Kobe con lo stesso senso di impellenza con il quale sparisce immediatamente dalla circolazione, per potergli lasciare libero il quarto di campo da attaccare.

Un palleggio solo, forte. La palla gli schizza di ritorno in mano proprio sul primo passo del terzo tempo, ad aggredire famelico il ferro. Il tabellone è fisso sullo 0-0 e la gara è incominciata da appena 15 secondi. Buon Natale.

Shaq è fermo al centro dell’area, un colosso ad attendere soltanto il rilascio del tiro per poter tentare di alterarne la parabola. Non appena si accorge che Bryant ha raccolto il pallone, compie due passi in avanti. Con una velocità di piedi notevole per la stazza, che ha contribuito sin lì a renderlo il centro più dominante di sempre.

Un express che si schianta contro una diga. Il pallone esce dalle mani di Kobe goffamente, quasi ovattato. Immediatamente è raccolto da Wade. Contropiede fulmineo Heat, 2 punti. L’espressione di Shaq non cambia. Fredda. Il primo fendente è stato non solo parato, ma addirittura contrattaccato. Ancora: buon Natale.

Le emozioni. Quelle che Kobe non è mai riuscito a tener dentro, con la palla in mano. Croce e delizia di una stella splendente. La rabbia, denunciata da un’espressione costantemente incupita e corrucciata, era stata la linfa di un primo quarto da 15 punti con 4 triple. Aveva persino cercato di stopparlo nel suo regno, quel pitturato nel quale The Diesel faceva il bello e il cattivo tempo; ma Shaq con una finta lo aveva mandato per aria, ed aveva sonoramente schiacciato i punti numero 3 e 4 della sua partita.

I Lakers erano partiti fortissimo, ma Miami aveva saputo tener botta e ricucire lo svantaggio accumulato, portandosi sul +1 (31- 32) dopo i primi 12 minuti.

Sull’approccio di Kobe in pochi avrebbero avuto dubbi. Era stato l’atteggiamento di O’Neal, invece, a stupire: attendista nei confronti della partita, tranquillo nella lettura delle situazioni. Era chiaro: aveva deciso di mostrare a tutti il motivo per cui non era stata più possibile una sua permanenza a LA. Ovverosia quella che per lui era un’incolmabile differenza di vedute tra lui e il fratellino: il valore della squadra contrapposto allo spolvero del singolo.

SECONDA PORTATA

Lanciato in contropiede a rotta di collo, con l’anello come unico obiettivo in testa, Kobe aveva iniziato il secondo quarto sulla falsa riga del primo: attaccando. Uno, due, tre palleggi, esitazione alla linea del tiro da tre e cambio marcia, dalla terza alla sesta. Terzo tempo e… fallo. Duro, grezzo. Un contatto non antisportivo, ma intimidatorio.

Le telecamere pizzicano un sogghigno abbozzato di Bryant, ed un eloquente occhiolino di Shaq. Lo aveva fatto scaldare, ma ora era tempo che fosse lui a mettersi in moto.

Aveva prima portato a scuola Mihm: movimento spalle a canestro a prendere il contatto con il centro giallo-viola, spinmove e schiacciata paurosa, da scala Richter, ad adombrare il volto del suo marcatore. Poi, con un’agilità impensabile, aveva compiuto uno smarcamento in reverse al centro dell’area usando lo stesso Bryant come perno, per andare a schiacciare l’alley-oop cortesemente alzatogli da Wade. In due giocate, un dominio (psico)fisico fuori dal normale.

Una parola di troppo per celebrarsi, però, e arriva il fallo tecnico, e Kobe va in lunetta per il tiro libero punitivo. Era stato chiaro sin da subito che sarebbe stata una sfida di nervi. Un botta e risposta psicologico.

Gli atteggiamenti. Kobe portava nel suo modo di giocare una visibile sfacciataggine, una palese voglia di primato, su tutti ma soprattutto sull’altro. Shaq, dal canto suo, aveva invece deciso che sarebbe emerso per controllo della gara e dei nervi. Con qualche piccola e fisiologica variazione sul tema.

Alla sirena del primo tempo il punteggio aveva visto i Lakers sopra di due lunghezze. Era stata una prima frazione nella quale Kobe era sicuramente risaltato di più: già scollinata quota 20 punti, ad imbandire il banchetto natalizio. Quelle due fiammate, però, avevano contribuito a cambiare la percezione di tutto ciò.

Lo Staples, comunque, aveva ovviamente celebrato più di una volta l’ormai ex cucciolo di casa. Il suo nome era stato scandito dai 20.000 come una cantilena, a sottolineare che per loro Shaq apparteneva al passato. Come le storie più belle e sofferte: ce le si mette alle spalle con un sorriso malinconico, ma sempre con un pizzico di rancore.

Si attendeva il secondo tempo, tra un augurio e l’altro

TERZA PORTATA

Una musica strappalacrime in sottofondo. Kobe, volutamente sbiadito per un effetto visivo nel montaggio della clip a rievocare i bei tempi passati, palleggia di fronte a Rasheed Wallace. Crossover fulminante, l’anima e le caviglie di ‘Sheed da una parte e lui dall’altra. Pallone alzato, un telegramma diretto alle gigantesche mani di Shaq che non può fare a meno di schiacciare l’alley oop. Di corsa in difesa, le braccia protese verso l’alto, gli indici ad indicare la folla di uno Staples in visibilio. Un’immagine indimenticabile per Los Angeles.

L’ABC cavalca defilippisticamente un passato recente e scintillante. Quella Gara 7 di Conference Finals vinta con una rimonta indimenticabile. Quel 2000 scandito dal successo, con il numero 8 che corre ad abbracciare il 34.

Sul finire del terzo periodo, comunque, i Lakers sono sostanzialmente Kobe Bryant. Miami aveva ricucito un sostanzioso svantaggio, portandosi sino in parità a quota 73, e il leader dei giallo-viola ha l’aggressività delle grandi occasioni. Evidentemente non sentiva di aver mandato segnali sufficientemente inequivocabili: LA ora era il suo regno, ed era bene che O’Neal stesso lo intendesse forte e chiaro.

QUARTA PORTATA

L’ultima frazione è aperta da una tripla di Jumaine Jones (che di lì a qualche anno si sarebbe accasato a Napoli, per poi passare da Caserta e Pesaro), con iLakers sull’80-73. La voce assist di Kobe, che aveva avuto a lungo la palla in mano, segna “1”.

È il momento di dare lo strappo alla partita. Con 30 e passa punti all’attivo, è palese la voglia di Kobe di portare a casa quel Christmas Game.

Sulla vittoria nel tabellino aleggiano pochi dubbi: Shaq è fermo a quota 15, ma sembra non importargliene.

A un certo punto, dopoi un and-one di Bryant, non si sente più nulla. Solo un nome scandito a squarciagola da 20’000 e più persone: “Kobe! Kobe! Kobe!”. Inquadrano Shaq, ingolositi da una sua reazione. Che puntualmente non arriva.

Il libero segnato da Bryant porta i Lakers sul +5. Per O’Neal, 22 punti, è il quinto fallo. A 4 minuti dalla fine è un vantaggio prezioso.

Qualche possesso più tardi, Bryant trova una via per attaccarlo al ferro. Shaq difende come se non avesse esaurito i falli da spendere, e commette il sesto. Per lui è finita qui.

Kobe in lunetta, a segnare entrambi i liberi con il pubblico in delirio. Lo Staples Center era letteralmente esploso a quel fallo, ed ora il pupillo in lunetta, con 40 perle nel proprio sacco e sulla parità a quota 91. Ma soprattutto con Shaq fuori, impossibilitato ormai a poter dire la propria. Mani alzate, a fargli un segno di saluto. Ironiche. Stava nel gioco delle parti.

Prima della palla a due lo avevano comunque omaggiato. Sportivamente e come uomo. Dustin Hoffman, Sylvester Stallone, Samuel L. Jackson, Snoop Dog, Jack Nicholson. La crème losangelina a fare gli onori di casa ad un pezzo importante di storia giallo-viola. Ma al primo pallone battuto sul parquet bisognava fare una scelta, che non aveva suscitato particolari dubbi. Come ovvio che fosse. Come ovvio che O’Neal si aspettasse.

DESSERT

96 pari, overtime. Kobe ha la possibilità di ritoccare il suo massimo stagionale, mentre Shaq è in panchina a guardare senza poter incidere sul corso di quella gara.

Bryant in quel momento si blocca, completamente nel supplementare. Sbaglia ogni tiro in quei cinque minuti, non segna neanche un punto, e con lui naufraga l’attacco dei Lakers. Miami vince con 9 punti segnati da Wade, Eddie Jones e Laettner, ed è proprio l’ex giovane dal college del Dream Team di Barcellona ’98 a siglare il definitivo +2 sul match.

Kobe avrebbe la possibilità di scrivere la storia della partita. L’ultimo possesso, due punti per pareggiare e tre per vincere, e ovviamente Bryant va per il bersaglio grosso. Ma sbaglia.

La sirena suona, è finita. 104-102 Heat.

Kobe chiude con 42 punti, 12/30 al tiro e 13/13 ai liberi, sommati a 3 rimbalzi, 6 assist e 9 palle perse.

Shaq, invece, con 24 punti, 11/19 dal campo e 2/7 in luetta, con 11 rimbalzi, 4 assist e 1 palla persa.

Poi nel tabellino ci sarebbero i 29 punti e 10 assist di Wade, la doppia-doppia di Haslem, i 24+11 di Odom e i 14 rimbalzi di Mihm, ma vengono presto dimenticati. Perché sin dalla prima sfogliata al menu di quel Heat-Lakers del 25 dicembre 2004, era chiaro a tutti che sarebbe stato un testa a testa quasi ed esclusivamente a due. Il resto era tutto un contorno.

L’aveva vissuta così Kobe, capace di segnare 42 punti giocando con famelica cattiveria. E l’aveva vissuta così anche Shaq, ma senza volerlo mostrare. Eloquente era stata la sua delusione all’uscita dal campo dopo il sesto fallo.

Dopo la partita, si congeda così:

Sapevo che quell’ultimo tiro non sarebbe mai potuto entrare. I miei compagni hanno fatto un lavoro strepitoso. Io ero fuori per falli, ed ero piuttosto frustrato da questo, ma Wade e Jones hanno lavorato benissimo. Siamo venuti qui per vincere, per giocare da squadra. E lo abbiamo fatto”.

Neanche una parola per Kobe, nemmeno lo nomina. E viceversa, nella conferenza stampa post-partita. Come ovvio che fosse.