Quando prefissarsi degli obbiettivi, e poi raggiungerli, diventa la regola. Da Harvard a Los Angeles, la storia del proprietario più “eccitato” della Lega.


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Atto I

Siamo a Detroit, anno di grazia 1956. A Beatrice Dworkin, ebrea bielorussa, e Frederic Henry Ballmer, immigrato negli Stati Uniti dalla Svizzera, nasce Steve Anthony Ballmer.

Detroit è una città effervescente, rumorosa. Nel dopoguerra fu l’epicentro di una grande migrazione di lavoratori afroamericani, i quali cercavano condizioni di vita migliori rispetto a quelle ancore legate alle “Jim Crow laws” del profondo sud. I centri verso cui questo flusso migratorio converge sono le due grandi cause automobilistiche della città (General Motors e Ford), le quali conferiscono alla città il soprannome di Motor City. Il padre di Steve è un manager allo stabilimento Ford e il destino del giovane sembra scritto.


Lavorare in fabbrica, però, non fa per lui. È un estroverso, un creativo e un perfezionista nell’organizzazione del lavoro fin dai primi anni di scuola. I genitori scelgono come liceo la Detroit Country Day School situata nei pressi di Detroit, sulle colline di Beverley Hills, diciamo non la 8 Mile di Eminem, e dove studieranno anche Chris Webber e Javale McGee successivamente. Nel suo ultimo anno, il ragazzo totalizza un 800 nel test di matematica che prepara ogni studente americano per il college. Totalizzare un 800 in quel test significa formalmente che dall’anno dopo sarai scelto da una delle scuole più prestigiose di tutti gli Stati Uniti. La fabbrica non fa decisamente per lui.

Un episodio però cambia parte della sua esistenza a DC High, e si rivelerà fondamentale anche nel futuro di Steve. Ha capito che per essere considerati “cool” bisogna entrare nel giro degli sport di squadra. Lo Steve del liceo, però, ha davvero poco di “cool”… e il suo fisico non è fatto per brillare in nessuno degli sport offerti dalla scuola.

Fa il tifo per i Pistons, è estasiato dalle gesta di Isiah e compagni, ma essere partecipe è altra cosa. Riesce comunque ad entrare nella squadra di atletica, terminando abitualmente ogni gara in ultima posizione. I compagni di squadra lo adorano. È sempre disponibile, non salta mai un allenamento e quando ha finito di incassare l’ennesimo insuccesso continua senza perdersi d’animo a incitare gli altri ancora in gara.

È così ben voluto dai compagni che nell’ultimo allenamento del suo anno da Senior, quando viene indetta una gara sui 400 metri (la sua “specialità”), verrà fatto partire con un vantaggio di circa 350 metri. Nonostante questo, Steve sente il fiato sul collo degli avversari, stanno per superarlo, se non che due compagni della squadra di atletica erigono un”cordone di sicurezza” minacciando di picchiare chiunque pensi soltanto di superarlo. Steve finisce primo. Ha le lacrime agli occhi. Quello che i suoi compagni hanno fatto per lui rappresenta la scintilla definitiva che colloca lo sport al pari della matematica alla voce “passioni irrefrenabili”.

Atto II

La scelta per il proseguo degli studi è facile. Le scuole della Ivy League si sono interessate a lui, ma Harvard lo attira più di tutte le altre.

La sua carriera scolastica nel Massachusetts è strabiliante: è il manager della squadra di football (bisogna sempre essere nel giro degli sport), è membro del “Fox Club”, uno dei più esclusivi di tutta Harvard, è una voce di spessore per i due giornali della scuola, l’Harvard Crimson e l’Harvard Advocate.

Nel corso della sua esperienza conosce anche un ragazzo, di poco più giovane di lui, che abbandonerà la scuola al terzo anno per creare la propria impresa di software e che Steve batterà nella competizione di matematica più importante degli Stati Uniti. Quel ragazzo si chiama Bill Gates. Tre anni dopo la laurea, conseguita con lode ad Harvard nel ‘77, Steve riceve una chiamata proprio da quella vecchia conoscenza. La Microsoft sta andando piuttosto bene e a Bill serve un business manager di cui si possa fidare. Steve è la risposta, e diventa il trentesimo impiegato della storia della società. Ne diventerà anche CEO dal 2000 al 2014, prima di rassegnare le dimissioni – intaccando fortemente, a quanto si dice, il suo rapporto con Gates.


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Il sodalizio avvenuto nel 1980, comunque, è stato uno dei più proficui e innovativi della storia della tecnologia: Microsoft è stata la colonna portante della rivoluzione digitale che ancora oggi viviamo, leader nel settore per molti anni, prima del sorpasso di Apple.

Atto III

Lo sport per Steve è sempre stato sollievo, spettacolo, ma in più di un’occasione anche tentazione. D’altronde, Paul Allen, co-fondatore della Microsoft, è stato proprietario dei Portland Trail Blazers e dei Seattle Seahawks della NFL; e in più di un occasione ha provato a parlargli della possibilità di rilevare una squadra sportiva professionistica.

Paul vedeva Steve per quello che era. Una persona che si faceva coinvolgere, un trascinatore ma allo stesso tempo un grande ascoltatore e organizzatore. Una persona che, quando si poneva degli obiettivi, aveva la tendenza a raggiungerli con facilità. Ed è così che la pulce inserita con cura da Allen nell’orecchio di Ballmer inizia a dare i suoi frutti.

Il CEO di Microsoft chiede, ed ottiene, un incontro con David Stern nel quale il Commissioner della NBA lo invita a riflettere bene sulla possibilità di acquisto di una franchigia. Il lavoro a tempo pieno come amministratore delegato e come padre iniziano a insinuare dei dubbi che per molto tempo non troveranno risposte nella testa di Steve.

All’improvviso, però, nel 2012 si ha l’impressione che sia finalmente arrivato il momento per il magnate della tecnologia di possedere una squadra di basket professionistico. Così insieme a Chris Hansen, proprietario dei palazzetti dei Mariners (MLB) e dei Seahawks (NFL), inizia a trattare per uno spostamento dei Kings da Sacramento a Seattle (sede Microsoft non a caso).


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Il comune di Seattle si esprime favorevolmente su questa ipotesi, dopo la tragica scomparsa dalla loro città di una delle franchigie con più storia dell’NBA.Tuttavia, un comitato formato dai 30 proprietari NBA, per due volte, vota contro il trasferimento dei Kings a Seattle.

Naufraga così il primo tentativo di entrare nella NBA di Steve Ballmer. Non si dà per vinto, però: se non può acquistare e spostare una squadra, vorrà dire che ne comprerà una tra le più vicine a Seattle.

I Milwaukee Bucks, i quali si classificano ottavi per distanza da Seattle sulla personale classifica stilata da Steve, sono una squadra in difficoltà e che avrebbe bisogno di un proprietario che possa portare metodo di lavoro e “frizzantezza”. Insomma, una nuova vita.

Nell’aprile 2014 però, arriva, la controversa vicenda Donald Sterling (che abbiamo ricostruito in questo articolo e di cui abbiamo parlato anche attraverso le testimonianze dirette dei giocatori dei Clippers nella traduzione dell’articolo di Marc J Spears per The Undefeated).

L’ex proprietario dei Los Angeles Clippers viene registrato mentre rimprovera la sua “signora” di aver fatto una foto con Magic Johnson, reo di essere afroamericano. Lo scandalo fa il giro del mondo, e ferma Steve dall’acquistare i Bucks.

L’opportunità di acquistare i Clippers, addirittura terzi nella classifica per vicinanza a Seattle, è troppo ghiotta e Ballmer a ottobre ne è formalmente il nuovo proprietario, rilevandola per 2 miliardi di dollari.

Atto IV

Il 2014 è un periodo eccezionale per ereditare quella squadra.

In panchina siede Doc Rivers, una delle persone a cui Ballmer si affezionerà di più alla guida dei Clippers. La squadra è quella meglio conosciuta con il nickname di “Lob City”, ricca di talento ma che soffrirà molto più di altre l’evoluzione portata dall’allargamento del campo, che ha caratterizzato gli ultimi 5 anni della Lega. Chris Paul, JJ Redick, Jamal Crawford, Blake Griffin, Matt Barnes e DeAndre Jordan sono solo alcuni dei nomi di quella squadra, il cui punto più alto verrà toccato con il raggiungimento della Semifinale della Western Conference, persa alla settima partita contro Houston, facendosi rimontare clamorosamente dopo essere stati in vantaggio anche per 3-1 nella serie.


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Il 2014, però, è un momento storico ottimo per possedere i Clips anche per altri motivi. I cugini giallo-viola, quelli di Magic, Kareem, Shaq e Kobe, stanno entrando in una delle fasi più difficili della loro storia. Kobe sul viale del tramonto, un “rebuild” che fatica a prendere la velocità che esigono i tifosi Lakers e per la prima volta i Clippers che intendono non lasciar loro il dominio incontrastato della città.

La sagacia manageriale di Steve viene fuori piano piano, a differenza del suo amore per la squadra: quello viene fuori subito.

È il più eccitato, sudato e rumoroso in tutte le partite allo Staples Center. Quella passione per lo sport che si porta dietro dai tempi di DC High e di quei 400 metri, tanto falsati quanto ispiratori.

Si parlava di sagacia manageriale, comunque. La si può vedere in tante piccole operazioni, le quali si sono rivelate fondamentali per assemblare la squadra attuale, che almeno per i prossimi due/tre anni rimarrà in primissimo piano nel panorama NBA.

La prima importantissima mossa è Lawrence Frank. Per due anni assistente di Doc Rivers, oggigiorno è President of Basketball Operations, ruolo dal quale ha sollevato proprio l’head coach, sempre (e saldamente) alla guida della squadra. Il vero colpo di genio è però chiedere ad un 79enne Jerry West di entrare a far parte come consulente dell’organizzazione. Quest’ultimo, dopo aver costruito le squadre da titolo per i Lakers di inizio millennio, è stato uno degli artefici della costruzione dei Warriors che per anni hanno spaventato (spaventano?) la Lega tutta.

Il primo suggerimento di Jerry è scambiare un ormai scontento Chris Paul. La trade con i Rockets porta ai Clippers quello che ormai è il miglior supporting cast di tutta la NBA: Montrezl Harrell, Lou Williams e Patrick Beverley arrivano tutti quella sera.

Un altro colpo da maestro del duo West-Frank, poi, avviene nella notte del Draft 2018, dove scambiano Miles Bridges con Shai Gilgeous-Alexander, prodotto degli Wildcats di Kentucky. E dopo un inizio di stagione 2018/19 folgorante, poco prima della chiusura degli scambi a febbraio, ecco l’ennesimo colpo di coda. I Clips cedono Tobias Harris, Mike Scott e Sam Dekker per un altro gran bel prospetto, Landry Shamet, e i meno fortunati Mike Muscala e Wilson Chandler.

Obiettivo: liberare il salary cap per arrivare almeno a due grandi free agents nella off season.

E la tendenza nel prefissarsi degli obbiettivi e raggiungerli si ripete nuovamente. Ballmer blocca Kawhi Leonard, che con quel suo solito fare da persona che si trova lì per caso sta prendendo tempo. La condizione che però viene messa sul tavolo dal giocatore è una: vuole Paul George come secondo violino. Ancora una volta Ballmer, coadiuvato da Frank e West, fa l’unica cosa che può fare, ovvero scambiare il giovane di belle speranze, Shai Gilgeous-Alexander, il “Gallo”, fondamentale la stagione precedente nell’attacco di Rivers, e 7 scelte complessive al Draft (4 non protette, 1 protetta e 2 possibilità di scambiare scelte). Un’ipoteca sul futuro importantissima, sì, ma che non è stata usata per portare a Beverley Hills giocatori a fine carriera, o dei buoni mesterianti. Come nel caso di Brooklyn 2013, insomma. Questa ipoteca è stata usata per vincere ora e subito, con realistiche possibilità di riuscirci, prendendo due tra i primi cinque giocatori NBA in fatto di versatilità.

Obiettivo: cancellare l’onta di essere Clippers, una volta per tutte.

Nel 1982 Jerry Buss, chairman dei Lakers, aveva incoraggiato Donald Sterling a comprare i Clippers. Nei 32 anni successivi però la franchigia si è cucita addosso l’etichetta di (eterna) perdente, soprattutto se si pensa a quanto invece abbiano vinto dal 1982 i Lakers. Le cose, ora, sembrano essere cambiate.

Prima della sospensione, 9 opinionisti NBA su 10 vedevano i Clippers tra le prime due favorite per il Larry O’Brien Trophy a fine stagione: un ribaltamento che a Los Angeche in pochi si aspettavano, fino a pochi anni fa. Ci voleva una mente geniale, un uomo che nella vita ha saputo innovare, ma al tempo stesso anche fare un passo difficilissimo per un CEO della Microsoft: fidarsi delle persone intorno a lui.

Steve Ballmer nei Clippers ha costruito un front office di qualità assoluta e, proprio grazie a questo, ha assemblato in poco tempo una squadra competitiva per il titolo.

E stavolta non sarà solo divertimento (e cali di concentrazione), non sarà solo Lob City…