Michael Jordan e Michael Jackson, LeBron James e Jay-Z: il racconto di due crossover tra NBA e musica, tra GOAT di entrambe le categorie, avvenuti a vent’anni di distanza

COVER: ALBERTO VELARDI

Che lo sport trascenda i campi in cui viene praticato è storia vecchia come il mondo. Vedere VIP di ogni categoria seduti a bordocampo ad una partita di basket o viceversa giocatori presenti ad eventi è ormai parte della quotidianità. Le personalità però non sono tutte uguali e capita ogni tanto che a collidere in mondi diversi siano le superstar delle superstar, i grandi tra i grandi.

Michael Jordan e LeBron James sono sempre stati accostati nel dibattito sul miglior giocatore di tutti i tempi: due simboli fin ancora prima di mettere piede sul parquet della NBA, due modelli di stile, due carri armati una volta alzata la palla a due.

Il parallelismo trova però un altro risvolto nell’amicizia. Storicamente due personaggi riservati e attenti a chi viene introdotto nel loro circolo ristretto, entrambi possono vantare nel loro curriculum la vicinanza con altre due stelle assolute, tra le più grandi del firmamento musicale. Con dinamiche diverse His Airness e il Re sono entrati intimamente in contatto con un mondo che non è il loro neanche per sbaglio, uscendone possibilmente più grandi, più forti e più iconici che mai. Ma andiamo con ordine.


Prima parte – Jam

Jam (basketball): la “Jam”, o schiacciata, è il fenomeno per cui un pallone da basket viene depositato con forza direttamente in un canestro, con la palla saldamente nelle mani del giocatore.

Jam (musica): dall’inglese “to jam” significa improvvisare musica senza una preparazione approfondita o accordi predefiniti.

“Michael, ti hanno proposto di comparire in un video!”

“Chi?”

“Michael Jackson”

“Cosa??”

“Sì, Michael Jackson”

“E cosa vuole che faccia?”

“Beh, ballare probabilmente”

“No no, io non ballo. Sono un giocatore di basket, non un ballerino”

“Ma ti spiegheranno tutto, ti guiderà lui stesso, non vede l’ora di incontrarti, è un grande fan!”

“Sarà imbarazzante….”

“Quindi è un sì?”

“Sarà imbarazzante ma sì, quando mi ricapita di poter girare un video con Michael Jackson?”

Ecco, è una libera interpretazione di come credo siano andate le cose ma stando alle testimonianze dei diretti interessati non devo esserci andato tanto lontano. È la primavera del 1992, i Chicago Bulls si sono laureati campioni NBA per la prima volta la stagione precedente e sono in corsa per vincere il secondo titolo consecutivo (e poi il terzo…): Michael Jordan, già da anni giocatore più rappresentativo della lega, vincerà da lì a poco il suo terzo titolo come MVP, il suo secondo premio come MVP delle Finals e una medaglia d’oro olimpica.

Il tutto mentre al di fuori continua ad essere un’emblema di stile: ogni ragazzino stressa i genitori per avere, a non modico prezzo, un paio di Air Jordan ai piedi; la maglia numero 23 indossata non solo sui campi da basket ma anche come abito da sera; interviste con GQ, Vanity Fair, Vogue oltre alle riviste di pallacanestro più in vista. Insomma, una figura trascendentale e poliedrica perfettamente in grado di spaccare il muro di separazione tra giocatore e icona.

Michael Jackson è intanto quanto di più vicino ci sia al Dio della musica. “Thriller”, pubblicato dieci anni prima nel 1982, è l’album più venduto della storia (e lo è ancora oggi), “Bad” e “Dangerous” arrivano poco dopo e i video che accompagnano ogni disco sono dei piccoli capolavori di cortometraggio. Michael? MJ? Userò i cognomi, troppa confusione, troppa simmetria.

Jackson nasce tra l’altro a Gary, Indiana, a pochi passi da Chicago. Per capirci, la distanza tra casa sua e Windy City è di trentacinque minuti. Con Indianapolis sono almeno cinque ore di macchina. Il legame è quindi inevitabilmente più forte con la capitale cestistica dell’Illinois che non con il suo stesso Stato. Si appassiona al basket e segue quando può Jordan e i Bulls nella loro ascesa verso la cima della NBA, in estasi come tutti per ogni giocata del prodotto di North Carolina. L’idea di invitarlo a partecipare ad un suo video non ci mette un secondo a passare da ipotesi a realtà.

È lo stesso Jackson a prendere contatti con Jordan per spiegargli il progetto. Dopo i vari passaparola tra gli entourage i due finalmente si siedono al tavolo per parlarne e venire a capo della cosa. Da lì si parte.

Jordan, stella NBA, e Jackson, re del pop, uno contro uno
FOTO: 247SPORTS

Jackson si presenta a Chicago nell’edificio del South Side predestinato ad essere teatro dell’incontro tra i due mostri sacri, debitamente allestito come un campo da basket. Il suo arrivo è discreto e passa inosservato, tanto che perfino il capo della polizia chiamato per garantire la sicurezza non si rende conto della sua presenza fino a poco dopo il suo ingresso nel palazzo. “Non posso crederci che non mi abbiate detto che c’è Michael Jackson, è una follia. Dobbiamo far venire più poliziotti, potrebbe scoppiare un putiferio!“.

Nello stesso momento in cui vengono pronunciate queste parole a Phil Rose, uno dei produttori, una BMW accosta e scende Michael Jordan. “Mi state prendendo per il culo? Jordan e Jackson???“. Inutile dire che la sicurezza viene triplicata.

Il video fila sul velluto, i due Michael si divertono e insegnano all’altro parte del loro lavoro. Jordan si lascia andare a passi di danza studiati per la coreografia di “Jam”, Jackson lo sfida nel più improbabile degli 1 vs 1. Il Re del Pop è un grandissimo fan del #23 e si presta volentieri:

Ho avuto la possibilità di lavorare con la più grande leggenda sportiva di tutti i tempi. Abbiamo anche giocato uno-contro-uno, è stato imbarazzante, non sbagliava mai. Ma alla fine il mio obiettivo era quello: insegnargli a ballare mentre lui mi insegnava a giocare a basket.

Jackson si diverte sul set e trascina Jordan in un’esperienza per lui del tutto nuova ma tutt’altro che spiacevole. Dopo questa prima avventura insieme, rimarranno in ottimi rapporti e sempre fan l’uno dell’altro. Per i cultori degli Anni ’90 questo è stato uno dei più grandi e più ambiziosi crossover della storia.

Seconda parte – Encore

Flash forward vent’anni dopo. 26 giugno 2003: Michael Jordan si è appena ritirato, questa volta per davvero, dopo una brevissima parentesi con gli Washington Wizards e al Madison Square Garden si presenta un giovanotto da Akron, Ohio, uscito direttamente dalla high school di St. Vincent – St. Mary per fare il salto in NBA. LeBron James mostra tutta la sicurezza della prima scelta dopo aver spazzato la concorrenza nei tornei statali e nazionali ed essere stato nominato All-American.

Anche lui come Jordan arriva nella lega già forte di una fama e di un hype quasi surreale per un ragazzino di diciannove anni e le promesse da lì in avanti vengono mantenute. Non starò ad elencare i riconoscimenti e i traguardi, vi lascio il link di Wikipedia per quelli. Basta solo dire che il ragazzo fa un salto talmente grande da trascendere il basket: dopo pochi anni in NBA comincia a diversificare i suoi investimenti al di fuori del parquet entrando in contatto con un mondo lontanissimo dalla pallacanestro per un giocatore, quello del business.

Non è raro infatti vedere James al fianco di personaggi come Warren Buffett o Lynn Merritt, mogul della finanza e dello sport nella sua parte più imprenditoriale. Inserisce anche la sua ristretta cerchia di amici in questo ambiente, aiutandoli a trovare lavoro come ingranaggi all’interno di questa macchina. E, sempre diversificando, LeBron entra in contatto con Jay-Z.

FOTO: USA TODAY

Stavolta i video musicali c’entrano ben poco.

Il 23 dei Cleveland Cavaliers viene invitato dal rapper ad un torneo organizzato poco dopo il draft. Da grande ammiratore di Jay-Z non potrebbe chiedere di meglio. I due si sono conosciuti la primavera precedente al McDonald’s All-American Tournament e chiacchierando hanno scoperto di essere molto più simili di quanto si pensi.

Anche lui cresciuto nelle case popolari di Bed-Stuy a Brooklyn, Shawn Carter amava leggere e scrivere versi per le sue prime canzoni. Dopo l’abbandono del padre in giovane età però le cose prendono una brutta piega e si ritrova a spacciare cocaina rischiando la vita in più occasioni. Il richiamo della musica nel suo caso non è solo una passione ma un’ancora di salvezza che lo riporta sulla strada giusta.

Si ispira, guarda un po’, a Michael Jackson e a ventisei anni pubblica il suo primo album “Reasonable Doubt”. Da lì il decollo è inarrestabile e Shawn, ormai divenuto Jay-Z, si afferma come uno dei più grandi, se non il più grande sulla scena del rap e hip-hop. Arrivato ad essere uno dei musicisti di maggior successo, decide di investire i suoi guadagni tanto da diventare un imprenditore altrettanto affermato. E LeBron James prende spunto.

I due parlano, parlano, parlano. Si frequentano quando possibile e non è raro vedere James in sua compagnia prima dei concerti. Una volta anche durante. Il 27 ottobre 2005 Jay-Z è a due passi da casa, alla Continental Arena a East Rutherford, New Jersey, per il suo tour “I Declare War”. Durante la performance di “Encore”, accompagnato da calibri come Kanye West, P.Diddy e Nas, arriva LeBron e canta una strofa. Il pubblico è in delirio.

Passano gli anni e arriva The Decision, uno dei momenti più controversi e discussi della carriera del Re, che annuncia in diretta televisiva il suo passaggio ai Miami Heat nella speranza di mettere finalmente un anello al dito. La sua scelta, così come il mezzo per comunicarla, vengono massacrati da pubblico e stampa: a Cleveland magliette col numero 23 vengono bruciate in pubblica piazza; Dan Gilbert, proprietario dei Cavaliers, spende parole al vetriolo per la sua ex stella (occhio, Dan…); gli unici a non dargli contro sono i tifosi di Miami e la sua stretta cerchia di amici, tra cui proprio Jay-Z.

Lo stesso Jay-Z che è parte della cordata dei Brooklyn Nets inviata a convincere LBJ a firmare con la squadra newyorkese: i due sono amici ma il rapper non fa leva neanche una volta su questo aspetto, rispettando le richieste e le condizioni di James con l’ottica del businessman. La scelta di spostarsi in Florida non intacca minimamente il rapporto tra i due.

Tanto che in un altro momento difficile si fa avanti per supportare un LeBron in cerca di una figura di mentore e amico: è l’estate del 2011, gli Heat hanno appena perso le Finals contro i Mavericks in una sfida che erano chiamati non a vincere ma a stravincere. LBJ si rinchiude in se stesso, non ha contatti con nessuno dei compagni e degli amici, quasi neanche con la sua famiglia. Non ha qualcuno in NBA a cui chiedere aiuto o consiglio come Bryant faceva con Jordan.

Interviene allora Shawn che ricorda all’amico tutti i motivi che ha per tener duro e ribaltare la situazione. LeBron esce dal suo guscio, vince due titoli di MVP e due titoli con gli Heat nelle due stagioni successive. E da lì in avanti i due non si fermano più: continuano a supportarsi a vicenda nelle battaglie sociali, nelle campagne elettorali per Obama, nell’educare i cittadini al voto, si fanno sempre più i portavoce degli afroamericani alla corte della politica nazionale.

FOTO: PEOPLE MAGAZINE

Perché per loro essere icone non vuol dire avere la macchina migliore o il vestito all’ultima moda: significa essere dei modelli di vita, dei supporti, dei padri sotto certi aspetti, compensando mille volte quel vuoto incolmabile nelle loro vite. E ci stanno riuscendo benissimo direi, pur continuando ad essere dei mostri sacri nei rispettivi campi: LeBron ha vinto un altro titolo coi Lakers nel 2020 e solo l’anno scorso ha battuto il record di Kareem Abdul-Jabbar come miglior realizzatore di tutti i tempi.

Jay-Z è un titano onnipresente, con una firma in quasi ogni tipo di business: sport, musica, tecnologia, media. Ha la sua compagnia a gestire tutto, la Roc Nation. Ha innumerevoli premi a testimoniare la cosa, talmente tanti da non poterli mettere tutti per iscritto senza far diventare un libro questa storia. Il premio più importante per lui però è quello di aver abbattuto i pregiudizi che lo hanno sempre circondato: non è più Shawn Carter, spacciatore. Adesso è Jay-Z. Punto, non serve altro.

Ed è in questo palcoscenico, il basket, il punto di contatto tra questi mondi, che ancora una volta gli slogan dell’NBA riecheggiano senza sembrare poi così triti e semplicistici: more than a game, more than an athlete.