Gli Harlem Globetrotters rappresentano da sempre il più grande connubio tra Show e Pallacanestro, arrivando a scrivere una pagina indelebile della storia di questo sport. Questo, però, è il racconto di come siano entrati a far parte della Storia con la “s” maiuscola.
«My only sin is in my skin»
«L’unico mio peccato è nella mia pelle»
Cantava così Louis Armstrong in Black and Blue, con quella sua voce ruvida, profonda, quasi scabra, capace di entrare nel cuore di ogni ascoltatore, di colpire nel profondo chi gli stava intorno.
Siamo negli Stati Uniti successivi alla Prima Guerra Mondiale, tra gli anni ’20 e i ’30, a cavallo tra un momento di benessere e la Grande Depressione del ’29. Ma soprattutto siamo in un’America intollerante, violenta, razzista più che mai. Ci troviamo nel periodo più attivo per l’organizzazione criminale razzista comunemente denominata Ku Klux Klan, quando neri e bianchi difficilmente andavano a scuola insieme, dovevano salire su treni diversi o non potevano andare nello stesso bagno.
Siamo negli USA delle leggi Jim Crow, in cui la segregazione razziale è ancora una realtà, e lo slogan preferito del tempo è: “separati, ma uguali”.
E così Armstrong illumina l’intera Chicago – allora capitale del jazz più di New Orleans – da uno di quei locali solo per “negroes”, dalla Savoy Ballroom, non una sala da ballo per afroamericani qualsiasi. Perché prima della musica c’è l’esibizione dei Savoy Big Five, cinque ragazzi con una palla e un cestino appeso in alto, che giocano a pallacanestro.
Sono nati nel 1926, amici dalla Wendell Phillips High School, messi insieme da Abe Saperstein, un loro compagno di scuola; ebreo polacco, bianco, nato a Londra e cresciuto nell’Illinois, con un particolare fiuto per gli affari.
In poco tempo prenderanno in prestito il nome del quartiere afroamericano più famoso, Harlem, e un appellativo che avrebbe dato loro un carattere internazionale, Globetrotters.
Diventeranno gli Harlem Globetrotters.
Non solo saranno la squadra di basket più celebre al mondo, ma anche quella che, in un certo senso, è stata capace di scrivere un pezzo di Storia. Quella che di diritto gode della “s” maiuscola.
All’inizio sono una normale franchigia della Negro American Legion League, un torneo semi-professionistico dedicato solo a cestisti di colore.
Pian piano crescono, partecipano al World Professional Basketball Tournament, uno dei primi “antenati” dell’NBA che si teneva a Chicago, ma soprattutto cominciano a divertirsi giocando a pallacanestro. O meglio, a divertire gli altri giocando a pallacanestro.
Così iniziano a rappresentare un vero e proprio show e la gente – sì, anche i bianchi – paga per vederli giocare ad uno sport futuristico, che ha veramente poco a che vedere con il basket del tempo: passaggi dietro la schiena, palla sotto le gambe e tiri da 10 metri.
Colpiscono nel profondo tutti gli spettatori, proprio come faceva Louis Armstrong alla Savoy Ballroom, solo con una tromba e la sua splendida voce.
Quando giocano gli Harlem Globetrotters sugli spalti si ride e ci si meraviglia.
Ciò non toglie che, fatta eccezione per il loro strabordante successo, restino pur sempre afroamericani negli Stati Uniti della segregazione razziale: in campo possono essere acclamati, ma fuori, in strada, è loro vietato l’ingresso nei ristoranti. Ricevendo talvolta qualche sputo da un passante.
Anzi, nemmeno sul parquet si trovano al sicuro: nel 1944, durante una partita del World Professional Basketball Tournament, contro gli Oshkosh All-Stars, inizialmente vengono presi a gomitate e pugni dagli avversari, ai quali rispondono. La rissa si trasformerà in una vera e propria “battle royal”, bianchi contro neri, come è stata soprannominata dal The Chicago Defender.
Gli anni passano e intanto termina la Seconda Guerra Mondiale, ma ne inizia una più silenziosa, nascosta, in teoria mai esistita, senza alcuna dichiarazione. Da una parte il blocco occidentale, con gli USA come capofila, dall’altra il blocco sovietico, con l’URSS leader.
È la Guerra Fredda.
Nel frattempo, verso la fine degli anni ’40 gli Harlem Globetrotters rappresentano la lotta e l’abbattimento contro le barriere dell’ingiustizia. Nel 1948 e nel 1949, per ben due volte, dimostrano a tutti gli Stati Uniti che anche gli afroamericani possono eccellere, possono essere migliori della “razza pura”, battendo la squadra considerata più forte del tempo: i “bianchissimi” Minneapolis Lakers.
La Guerra Fredda è lunghissima. Inizia a metà del ’45 e finisce con la caduta del Muro di Berlino, nel 1989. Questo non è un conflitto come gli altri: potrebbe essere esitare nella terza mondiale, ma l’intero globo non può permetterselo, quindi non sono gli eserciti americani e russi ad affrontarsi direttamente. Si combatte in altri Paesi, più piccoli, ma strategici, magari in Africa o in Asia, oppure in Sud America. Si combatte con la politica e l’economia, con il terrorismo e la cultura. Quindi, anche con lo sport.
Gli Stati Uniti d’America scelgono di mandare in trincea gli Harlem Globetrotters. L’obiettivo è fingere al Mondo – o ai comunisti – che oltreoceano non esistano differenze razziali, grande argomento di critica da parte dei sovietici.
«Loro (il governo americano) volevano che noi spingessimo per una falsa narrativa, nella quale gli Stati Uniti erano uno Stato non discriminatorio», racconta Ben Green, ex Globetrotters.
«Facevamo parte della propaganda.»
Così, nel 1950 inizia il loro primo tour europeo.
Si fermano in diverse capitali come Parigi, fino ad arrivare a Berlino. Spiccano per eleganza ai ricevimenti, e sono ospitati nei migliori alberghi del vecchio continente.
22 agosto 1951. L’atmosfera a Berlino è surreale.
L’Olympiastadion è stracolmo, proprio come quella volta che Jesse Owens, alle Olimpiadi del ’36, fece cadere la nazistissima superiorità della “razza ariana”, umiliando Adolf Hitler e ricevendo gli applausi di migliaia di tedeschi.
Ci sono 75 mila spettatori a riempire gli spalti, solo per vedere 5 afroamericani con la divisa bianca- rossa-blu prendersi beffa degli Washington Generals, avversari storici già preparati alla sconfitta.
E mentre al centro dello Stadio Olimpico è stato allestito un campo da pallacanestro, dall’altra parte della città, nella Berlino Est, avviene il World Youth Festival, un evento al tempo organizzato dall’URSS come campagna politica per promuoversi all’estero.
Il tour in Europa è un successo, i tifosi sono soddisfatti, a Capitol Hill pure. Gli Harlem Globetrotters, dopo quel 22 agosto, sono ufficialmente entrati nella Guerra Fredda.
Abe Saperstein, probabilmente armato dalla proverbiale e tagliente ironia Yiddish, ha l’idea del secolo: portare i suoi ragazzi nella gelida Russia.
Abe pressa il governo americano per giocare qualche partita in Unione Sovietica; URSS che nel 1959 risponde, con un telegramma direttamente da Mosca, sostenendo di aspettare “a braccia aperte” i Globetrotters al Lenin Central Stadium per addirittura nove serate.
Chi – o cosa – probabilmente li ha convinti in via definitiva è la presenza di un ragazzone di 216 cm, nato a Filadelfia, che tre anni dopo sarebbe arrivato a segnare 100 punti in NBA. Con la maglia numero 13 degli Harlem Globetrotters, signore e signori: Wilton “Wilt” Norman Chamberlain.
Così arriva la successiva autorizzazione da parte del Dipartimento di Stato americano per lasciare partire la squadra nativa di Chicago verso la terra russa, consigliando minacciosamente di mostrare solo e unicamente le qualità americane, senza creare controversie.
Quando il team raggiunge l’Unione Sovietica, ad aspettarli ci sono un grande gelo e un assordante silenzio. Nessun fischio o applauso, alcun festeggiamento o protesta, solo 12 “traduttori” – o meglio, agenti della KGB, il servizio segreto sovietico – pronti a scortarli nel loro albergo, rigorosamente il migliore di tutta Mosca, nel quale sarebbero stati blindati durante l’intera permanenza.
L’atmosfera alla prima partita dei Trotters al Lenin Central Stadium è la stessa che li ha accolti. Lo stadio è gremito, ma non si sente alcuna parola, se non quelle di meraviglia verso degli uomini di colore, mai visti da quelle parti.
Lo show inizia, le magie di Chamberlain e compagni pure, ma i tifosi non muovono un ciglio: impassibili.
I Globetrotters capiscono la situazione: iniziano a coinvolgere il pubblico con gag e grandi numeri. I russi, chiamati in causa, cominciano lentamente a smuoversi, e tra gli spalti s’intravede anche qualche cenno di sorriso.
Sarà, secondo Meadwkark Lemon – lo storico capitano della squadra – una delle migliori prestazioni di sempre degli Harlem Globetrotters.
Peccato che la stampa russa non la veda proprio così.
Le parole «This is not basketball» rimbombano sulla prima pagina del Pravda, il più importante giornale russo del tempo.
Eppure la reazione dei cittadini di Mosca e dintorni sembra non essere per nulla d’accordo con il quotidiano. L’attuale Stadio Luzniki, all’epoca dedicato al più grande rivoluzionario russo (Lenin), continua a ospitare le partite dei Globetrotters. È qualcosa d’impensabile negli anni ’50: degli americani vengono applauditi e sostenuti davanti a più di 60 mila uomini, donne e bambini russi. Ma è questa la forza, l’impatto e la sensibilità che può avere la pallacanestro.
È una situazione talmente incredibile che lo stesso Nikita Krusciov – Primo Segretario sovietico dal 1958 al 1964 – si presenta ai ragazzi di Saperstein, durante la loro visita al Cremlino, esclamando in uno stentato inglese un esaltante «Ah, Basketball!»
Il tour sovietico degli Harlem Globetrotters si chiuderà tra feste, sorrisi, l’assegnazione della Medaglia dell’Ordine di Lenin per meriti sportivi da parte dell’URRS e qualche gara di bevute di vodka tra alcuni ufficiali russi e Wilt Chamberlain. Inutile dire chi ne sia uscito vincitore.
I Globetrotters faranno poi ritorno in America, seguiti qualche mese dopo proprio da Krusciov per incontrarsi nel Maryland, a Camp David, con Dwight Eisenhower, il presidente degli Stati Uniti.
Quei due giorni passati in suolo americano nel settembre del 1959 da parte del più importante esponente del governo russo, sono il primo impercettibile segno di un disgelo che durerà suo malgrado ancora trent’anni. Lasciando il dubbio che forse, ancora oggi, non si sia del tutto sciolto.
Con ogni probabilità gli Harlem Globetrotters c’entrano ben poco con questa “infinita” Guerra Fredda, se non per il fatto di essere stati utilizzati come un mero strumento di ipocrita propaganda, al fine di divulgare sostanziali menzogne sulla situazione razziale americana.
Di certo non sono stati loro ad evitare la Terza Guerra Mondiale. Ma se il loro tour sovietico non ha cambiato nulla nelle tensioni tra Russia e Stati Uniti, lo stesso non si può dire della lotta contro la discriminazione portata avanti in Patria, fino alla fine del 20esimo secolo.
Nel 1950 – per esempio – il primo giocatore afro in NBA è stato l’ex globetrotter Nathaniel “Sweetwater” Clifton. La prima donna a unirsi a una squadra di basket professionistica maschile è stata, invece, la medaglia d’oro olimpica Lynette Woodard, che nel 1985 entra a far parte dello show che ha preso in prestito il nome da Harlem, contribuendo a creare un percorso verso la WNBA.
Oppure Mannie Jackson, che nel 1993 diventa il primo afroamericano a possedere un’organizzazione sportiva internazionale, comprando la squadra originaria della Savoy Ballroom per 11 milioni di dollari.
A noi, un po’ romantici e senz’altro accecati dalla pallacanestro, piace pensare che gli Harlem Globetrotters, attraverso quel magico connubio tra sport e divertimento, tra sorriso e adrenalina, siano stati in grado di cambiare il Mondo. Entrando nella Storia. A modo loro.