
Chiedete a un girasole quanto sia facile nascondersi in un campo di papaveri. Per nulla, vi dirà. Chiedetelo poi ad un ragazzino di dodici anni, ma di quasi due metri di altezza, dalla pelle color della notte e due occhi grandi che ne hanno già viste tante. Non vorrei essere qui, la probabile risposta. Vorrei essere in un cortile, da solo, magari a dare due calci ad un pallone, senza che nessuno mi metta a guardia di una porta. In quella porta, io vorrei segnare un goal. Senza nessuno che mi guardi e mi parli di mio padre, di quanto gli somigli e di quando diventerò come lui. Non ci voglio pensare, non ora.
Quel ragazzino si chiama Bol Bol – come il bisnonno Bol Chol Bol, capotribù Dinka – e come probabilmente un’altra mezza dozzina di antenati suoi. Come lui alti fino al cielo e flessuosi come dei giovani pioppi. Quel ragazzino è di nobile schiatta: pronipote di un capo, figlio di una leggenda, un certo Manute Bol. Una leggenda che vorrebbe tutta per sé, ma che invece deve condividere con il mondo.
Quel ragazzino ha già fatto più giri di una valigia dimenticata sul nastro dei bagagli in un aeroporto a tarda sera. Ad ogni giro l’aeroporto è diverso, però. E la terra sempre straniera. Per tornare alle origini del “piccolo” Bol, bisogna riavvolgere il nastro del film dell’esistenza di quello straordinario essere umano di suo padre, Manute.
Siamo quasi alla fine del secolo scorso – esattamente nel 1997 – Manute è alla settima od ottava delle innumerevoli vite da lui trascorse, ne ha già perso il conto. Sono passati gli anni della gloria cestistica in NBA, non sono passati i giorni e i mesi in giro per l’America e per il resto del mondo a inventarsi o subire i modi più disparati per fare cassa e finanziare la causa dell’indipendenza e della libertà dal governo centrale dei popoli della sua martoriata terra, la parte meridionale del Sudan.
Manute ha già convogliato gran parte dei suoi guadagni da professionista del basket – e di “fenomeno” di due metri e trenta – su vari progetti benefici a sostegno dei suoi conterranei, e ha deciso di spendersi in prima persona e provare ad entrare nell’agone politico. Ha accettato di tornare in “patria” dove qualcuno gli ha promesso un incarico da Ministro dello Sport. È ad una cena tradizionale della propria tribù, e i suoi occhi non smettono di staccarsi da una giovane fanciulla intenta a preparare dei piatti tipici a base di gombo. Lei, Ajok Geng Wol Kuag, ha 17 anni e lì per lì non vuole saperne di accettare la corte di quell’interminabile signore di 35, con una moglie già nel suo passato. Ma l’amore, si sa, non conosce età.
Non facile peraltro mettere su famiglia nella Khartoum di quegli anni. Non facile soprattutto se sei del sud della nazione, sostieni la causa del Sudan People’s Liberation Movement (SPLM), sei cristiano e hai in tasca un passaporto a stelle e strisce. Quando gli americani passano alle vie di fatto, con un attacco missilistico sulla capitale, gli amici dei tuoi avversari diventano tuoi bersagli e vengono tacciate di essere spie, vere o potenziali. Manute viene accusato di intelligenza col nemico, qualsiasi nemico, e gli viene impedito di tornare nel suo paese adottivo al di là dell’Atlantico, dove vorrebbe portare la nuova moglie e il figlio nato dalla loro relazione il 16 novembre 1999. Il piccolo – ancora per poco – Bol Bol.
Little Bol nasce quindi profugo, in una famiglia in cerca di un futuro negato. Non una situazione ideale, anche se niente affatto nuova nella storia dell’umanità da almeno duemila anni a questa parte, forse ancora di più. I tre riescono ad attraversare il confine con l’Egitto e dopo mesi di tribolazioni si guadagnano lo status di rifugiati politici. E, grazie al supporto di amici statunitensi, il biglietto della speranza, destinazione Connecticut.

E qui stiamo per ritornare laddove eravamo all’inizio di questo racconto. Il figlio di “Nutie” comincia frequentare i parquet con il noto papà fin dalla più tenera età. Una specie di mascotte della mascotte. Il basket non è magari il suo primo amore, ma è quell’attività che gli riesce meglio e in cui tutti vorrebbero vederlo cimentarsi. Così comincia a frequentare palestre, ma si sfoga anche a casa. Appende il più classico dei canestri al muro e passa pomeriggi a sfidare avversari immaginari. Con una tale irruenza che lo porta a sfondare letteralmente le pareti di casa. Sai le urla. Di rimprovero o di approvazione, non è dato saperlo.
Deve compiere ancora 11 anni, quando il mitico papà Manute se ne va per sempre, a nemmeno 48 anni, vittima di acuti problemi renali e complicazioni derivanti della sindrome di Stevens-Johnson, una malattia degenerativa della pelle. Se da un lato il già ombroso Bol accentua questo aspetto del suo carattere, dall’altro la scomparsa della figura paterna, sembra essere il clic che convince definitivamente il ragazzino a pensare che il basket sarà la sua strada. Nel segno di un padre leggendario, non più ombra bensì modello.
Alle scuole medie la già faticosa impresa di nascondersi, di schivare i riflettori, diventa letteralmente impossibile. Difficile non accorgersi di un dinoccolato dodicenne che a braccia alzate arriva al ferro. Facile poi associarne il breve ed evocativo nome a qualcosa di già sentito. Di bocca in bocca, dai genitori ai tifosi, ai primi scout venuti a vederlo, il passo è breve. Entrino le telecamere. Youtube rulez.
Quello che i media si trovano di fronte è un “manchild” dalla spiccata somiglianza con il padre nei tratti del viso, ma con delle caratteristiche dinamiche e tecniche decisamente diverse ed evolute. Bol scorrazza con la palla in mano per l’intero campo, trattandola con la delicatezza di una guardia, permettendosi arditi passaggi dietro la schiena e sfoggiando un arsenale di morbide conclusioni sia in avvicinamento che dal perimetro. Un unicorno “in the making”.
L’hype è un fuocherello già vivace, e prima ancora di arrivare alle superiori il ragazzino riceve le precoci attenzioni dall’NCAA, con New Mexico State che già scrive dolci parole al bambinone per portarsi avanti. Tredici anni e non sentirli.
Bol intanto si è trasferito da qualche anno in Kansas, prima ad Olathe poi a Overland Park, due sobborghi di Kansas City, zone dove risiede una folta comunità sudanese. Comincia il percorso in una high school locale, ma come accade a molti talenti in erba, questo è solo l’inizio di un lungo peregrinare, da un istituto all’altro, da uno stato all’altro, alla ricerca del programma cestistico che possa maggiormente giovare allo sviluppo competitivo dell’atleta e giocatore, potenziale futuro professionista. È così che il nostro arriva in California, prima alla Mater Dei di Santa Ana in California, per poi passare anche dalla Findlay Prep di Henderson in Nevada, un vero e proprio laboratorio di prospetti più che una scuola. Una fucina di talenti, che da una quindicina di anni a questa parte ha visto tra gli alumni giocatori del calibro di Avery Bradley e Tristan Thompson, Anthony Bennett (ahi) e Christian Wood, Dillon Brooks e Kelly Oubre Jr, tra i tanti altri.
Questi sono anche gli anni nei quali Bol entra nel circuito AAU, frequentando il programma di Supreme Cal, dove incrocia un altro celebre “figlio d’arte” in Shareef O’Neal. Il ragazzo cresce di statura e contemporaneamente comincia a scalare i ranking nazionali fino a diventare un “five star recruit” in prospettiva universitaria. Si comincia a fare sul serio.
Le lettere di interesse da parte dei principali college di Division I non cessano di intasare la buca della famiglia Bol. Kansas, Oklahoma, Kentucky, UCLA, tra le tante pretendenti. Il ragazzo sceglie Oregon, sarà un Duck alla corte di Coach Dana Altman. A Eugene, il figlio di Manute arriva con una spinta di entusiasmo, forse più mediatico che tecnico, che lo vede proiettato da alcuni mock addirittura in top-3. Ma il suo nome è altamente divisivo: altri esperti lo vedono infatti molto, molto più in basso. Una ragione su tutte, la fragilità fisica, già palesata alle superiori. Qualche prestazione eccellente alimenta la fiamma della sua candidatura, ma bastano poche partite per arrivare ad un malaugurato crac. Quello che fa il suo piede sinistro rompendosi, mandando in frantumi la sua carriera universitaria.
Dopo appena nove apparizioni, ancora nel mese di dicembre 2018 – praticamente all’alba della nuova stagione – e già il sipario deve andare giù. Da lì al giugno dell’anno successivo, quando si terrà l’NBA Draft per il quale Bol comunque si dichiara, passeranno lunghe settimane di attesa, di speranze, di dubbi, sui saliscendi di un avvicinamento giocato tutto sulla sottrazione. La “Green Room” della notte delle scelte NBA, il recinto virtuale dove vengono fatti accomodare, a totale favore di telecamere, i potenziali prospetti dell’anno, i protagonisti della serata, è il luogo dei sogni di ogni ragazzino che aspiri ad entrare nel nella massima lega cestistica del pianeta.
Ma quella che è di solito la porta d’ingresso verso un agognato radioso futuro, può trasformarsi, in alcuni casi, in un calvario umiliante di attesa infinita. Mentre le sedie attorno a te si svuotano, mentre gli altri stanno già festeggiando il nuovo sfavillante status, tu stai lì sotto l’occhio impietoso dei cameramen, che prima volevano immortalare la gioia della tua consacrazione e ora vogliono scrutare la mestizia della tua delusione.
Bol Bol arriva alla serata del Barclays Center vestito in un originale completo, con uno sfavillante ricamo a tela di ragno sulla spalla, che ha nella fodera interna della giacca un richiamo alla vecchia canotta del padre.

La faccia imperturbabile non lascia tradire emozioni, anche quando il suo nome scivola giù dalla top ten prima – e passi – dai primi venti poi – aiuto – via via anche dai trenta e infine pure dai quaranta. Che disastro. Se n’è andato anche Adam Silver dal palco, se ne sono andati in tanti dalla sala, quando il ragazzo sente finalmente il suo nome echeggiare, in un vuoto più vuoto del previsto. Alla numero 44, lo chiamano i Miami Heat per poi girarlo ai Denver Nuggets, in cambio di poco. Cappellino di rito in testa e interviste e flash d’ordinanza. Le parole dicono una cosa, gli occhi un’altra.
Il ragazzo ha fatto una prima conoscenza, un primo devastante “reality check” con l’implacabile piano di sopra. Probabilmente in cuor suo sa che le delusioni, i passaggi bui, non finiranno qui. La strada, che sia per il paradiso o per l’inferno, è ugualmente lastricata di momenti sconfortanti, oltreché di buone intenzioni.
E infatti per lui il percorso in NBA si fa subito tortuoso e marginale. I Nuggets lo spediscono immediatamente in G League, per farlo esordire solo un anno dopo il suo arrivo. Siamo nell’agosto 2020 e il palcoscenico è l’asettica bubble di Orlando. Tanti silenzi e tanto sfregare di scarpe sui parquet. Poco altro. Niente pathos.
Altre due stagioni ai margini, altri malanni, altro scetticismo. Denver non crede in lui, il Colorado non è proprio casa sua. Così la franchigia lo impacchetta in una trade secondaria verso Detroit, che però lo rispedisce al mittente nel giro di un amen, a causa di un test fisco andato male. Bol è di nuovo infortunato al piede, stavolta il destro. Sembra una sentenza. Finché nell’estate 2022 una Orlando in piena ricostruzione decide di scommettere, poco invero, su di lui.
È storia di ieri, continua ad essere storia di oggi. Bol sta meglio, e con la condizione cresce la fiducia, sia in se stesso che quella concessagli dagli altri. Comincia ad inanellare buone prestazioni, con una certa continuità. E così, come una farfalla che ha appena lasciato la crisalide, vola con ampie falcate in coast-to-coast, innesca spin move da luna park, inchioda schiacciate da cineteca.
Il nuovo Bol fa spesso finta di nulla, ma dietro gli occhioni del ragazzo, s’intuisce il lampo di colui che sa che la sta facendo grossa. Un ragazzo che di cose come queste ne fa da tempo, anzi ne ha sempre fatte, ma che aveva – e ancora ha – bisogno di maturare, di capire meglio il suo fisico, di comprendere più compiutamente il flusso del gioco e le reazioni degli avversari. Un processo lento, ma costante.
La prossima tappa saranno i Phoenix Suns, all’assalto del titolo dopo aver accolto negli ultimi mesi Kevin Durant prima e Bradley Beal poi, a fianco di Devin Booker e Deandre Ayton nella nuova orchestra di coach Vogel. Il viaggio di Bol Bol riparte dall’Arizona.
E lassù, ci piace pensare ci sia qualcuno con un sorriso di due metri e trenta, che guardando compiaciuto il sangue del suo sangue pensi: la stirpe ha un degno erede, il principe Bol. The IncrediBol.