Storie di 3 MVP leggendari che hanno concluso le proprie carriere senza un anello al dito – Capitolo I.

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Pizza….. pizza!!!” Il solerte fattorino si fa largo tra la folla nel tentativo di portare a termine il proprio compito. Deve effettuare quella che è certamente una delle più strane consegne della propria vita. Ci troviamo infatti all’interno di un palazzetto universitario. In USA è imprescindibile per il pubblico acquistare ogni tipo di cibaria e bevanda durante le partite, soprattutto durante l’intervallo, anche se questo comporta il triste scenario di un’arena semivuota alla ripresa del gioco, poiché tutti sono ancora impegnati negli acquisti alimentari. Certo, una consegna di una pizza è sicuramente un fatto piuttosto insolito. Il fattorino però si muove a grandi passi verso il rettangolo di gioco, mentre le squadre stanno effettuando ancora il riscaldamento. Si avvicina alla panchina ospite, occupata dai ragazzi della Auburn University, e consegna il fumante quadrato di cartone a un paffutello giocatore dei Tigers. Di primo acchito verrebbe subito scambiato per un classico walk on, gli studenti senza borsa di studio dello sport, che si uniscono alla squadra dopo un provino. In realtà il divoratore di pizza termina il riscaldamento e regala ai suoi la solita doppia doppia in punti e rimbalzi, portando a spasso con potenza ed eleganza un corpo che non sembra essere nato per lo sport. Questo episodio, tra il mito e la leggenda, è esemplificativo di questo giocatore. Benvenuti nel magico mondo di Charles Wade Barkley.

Nasce il 20/02/1963 a Leeds, in Alabama. Non esattamente lo stato USA migliore per venire al mondo negli anni ’60, considerando il colore della pelle e la presenza costante del Ku Klux Klan. Oltre ai problemi razziali la vita del piccolo Charles non è facile fin da subito: dopo solo sei settimane di vita necessita di una trasfusione a causa di una anemia e i suoi genitori divorziano quando è ancora molto piccolo. Le figure fondamentali che lo crescono sono quindi prettamente femminili: la madre e la nonna materna.

Chuck cresce più in peso che in altezza. Quando si presenta in palestra della proprio scuola, la Leeds High School, per le selezioni della squadra di basket, viene escluso dalla varsity. Decisamente non idoneo al livello, dato il suo 1.78 m e il peso vicino al quintale. Fino all’anno da Junior, per Barkley le cose non cambiano, ma la svolta arriva nell’estate prima della stagione da Senior. Cresce ben 17 cm arrivando fino a 1.95 m.


Il brutto anatroccolo è rimasto tale, perché il peso continua ad essere abbondante, ma adesso, distribuito su più cm, si muove con l’agilità di un cigno e la potenza di un caterpillar. L’inclusione in squadra è stavolta scontata e le cifre prodotte dal n. 34 sono di prim’ordine: 19.1 punti e 17.9 rimbalzi. Primo abbonamento, di un’infinita serie, alla doppia doppia. Nonostante l’ultimo anno di liceo giocato ad alto livello, le grandi università lo snobbano. Il peso mai sotto controllo non invita a fidarsi del giovane Tiger. Alle semifinali del torneo statale però Barkley produce una prestazione da 26 punti che lo pone sotto i riflettori. Uno degli assistenti di Sonny Smith, coach della Auburn University, nota il ragazzo e le sue qualità e lo raccomanda per una borsa di studio, descrivendolo come “a fat guy… who can play like the wind”. Il numero 34 si abbatte sulla Southeastern Conference già a partire dalla stagione da freshman.

Nonostante i limiti in altezza (ufficialmente salito a 1.98 mt) Barkley viene impiegato nello spot di centro. Coach Smith è perennemente in battaglia col nuovo arrivato nel tentativo di limitarne la dieta, ma i risultati scarseggiano. In compenso il fisico pesante aiuta Charles a reggere il tonnellaggio sotto canestro, ma un’inaspettata agilità e rapidità ne fanno un’arma totale su entrambi i lati del campo. Temibile stoppatore e superbo rimbalzista, viene presto etichettato col pittoresco soprannome di “The Round Mound of Rebound”. I tifosi dei Tigers impazziscono per quello che inizia a diventare un suo marchio di fabbrica: dal rimbalzo difensivo catturato, parte direttamente in palleggio percorrendo tutto il campo per chiudere al ferro con tonanti schiacciate.

Nei tre anni passati ad Auburn segna 12.7, 14.4 e 15.1 punti a partita, con costanti 9 rimbalzi a sera. La sua stagione da Junior lo vede guidare i compagni alla prima apparizione dell’ateneo al torneo NCAA, oltre a ricevere il meritato titolo di miglior giocatore del 1984 della SEC. Il suo talento non passa certo inosservato a livello nazionale e viene giustamente inserito nella mega lista di 70 giocatori che parteciperanno alla selezione per formare il roster della nazionale USA. Un gigantesco training camp dove verranno scelti i dodici atleti che prenderanno parte ai Giochi della XXIII Olimpiade, Los Angeles 1984.

Piccolo problema. L’head coach di Team USA è Bobby Knight di Indiana University, noto per lo stile militaresco da sergente di ferro. L’allenatore degli Hoosiers mal si sposa col carattere di Barkley. Il n. 34, oltre al talento cestistico, sciorina qualità caratteriali non sempre condivisibili, a partire da una lingua lunga che gli fa dire sempre quello che pensa. Non è una sorpresa che Knight decida di includerlo nella lista dei tagli.

Il nativo di Leeds tuttavia sta già affrontando la successiva sfida: non disputerà il proprio anno da senior e tenta il grande salto al piano di sopra. Si dichiara eleggibile per il Draft NBA 1984, uno dei più talentuosi di sempre con nomi che hanno lasciato il segno nella Lega: Hakeem Olajuwon, Michael Jordan, John Stockton, Sam Perkins. E ovviamente Charles Barkley, che viene chiamato con la scelta n. 5 dai Philadelphia 76ers.

La squadra delle Pennsylvania ha vinto il titolo giusto un anno prima e schiera ancora i senatori che hanno guidato la trionfale cavalcata del 1983: Julius Doctor J. Erving, Maurice Cheecks e Moses Malone. Tecnicamente una situazione ideale per Barkley, che può così approcciarsi alla Lega in una squadra competitiva e con dei compagni di squadra preziosi da cui studiare.

Già nella prima stagione mette in mostra il proprio talento, conquistando il quintetto base per ben 60 volte nelle 82 partite di Regular Season giocate. Chiude l’annata con 14.0 punti e 8.6 rimbalzi e i Sixers chiudono come terza forza a Est. La cavalcata nei Playoffs si chiude alle finali della Eastern Conference contro i rivali storici di Boston. Sconfitta a parte, The Round Mound of Rebound” è già carico per buttarsi a capofitto nella sua seconda stagione da pro.

A questo punto un ruolo importante lo gioca Moses Malone, che intravede nel ragazzo appena inserito nel primo quintetto dei rookie, un talento su cui puntare. I veterani di Philadelphia iniziano ormai a vedere la linea del traguardo della propria carriera e Big Moe ritiene che Barkley sia il giocatore su cui la franchigia possa appoggiarsi negli anni a venire. Si chiude quindi in palestra tutta l’estate col n. 34, per insegnargli quanto più possibile del proprio arsenale offensivo, oltre a consigli sulla cura del proprio corpo e dell’alimentazione.

Se le informazioni sulla dieta vengono recepite fino a un certo punto, le lezioni sul parquet centrano il bersaglio. Nella sua seconda stagione tra i pro, il prodotto di Auburn University diventa il secondo violino della squadra, segnando 20.0 punti (dietro solo al proprio mentore) e guidando i suoi nei rimbalzi con 12.8. Nella post season incrementa il proprio gioco (25.0 pts, 15.8 rb, 57.8% dal campo) e complice il forfait di Malone per infortunio, guida i 76ers a una sofferta vittoria al primo turno contro i Washington Bullets (3-2).

 

Si arriva fino a Gara 7, dove i Bucks riescono a far prevalere il fattore campo, chiudendo anzitempo la stagione di Phila. Durante la off season Moses Malone viene ceduto ai Bullets, e Barkley eredita di fatto i galloni di leader offensivo della squadra. Durante la Regular Season 1986-87 segna 23.0 punti a partita e cattura ben 14.6 rimbalzi, diventando il vincitore della classifica NBA più basso di sempre.

Ormai il gioco che l’aveva contraddistinto al college si è fatto spazio anche nella Lega. È straripante e potente, ma anche rapido e abile rapportato al tonnellaggio. Ha comunque una mano educata che lo rendono pericoloso anche dalla media e il coast to coast da rimbalzo difensivo è ormai un highlight che fa andare in visibilio l’esigente pubblico di Philadelphia. Arriva quindi la prima convocazione per l’All Star Game.

Il primo turno dei Playoffs vede il rematch di 12 mesi prima contro i Milwaukee Bucks. Ancora una volta si arriva alla sfida decisiva, Gara 5, e per la seconda volta il fattore campo a The MECCA la fa da padrone. Durante l’estate un’altra leggenda Sixers decide di appendere le scarpe al chiodo: Julius Erving annuncia il proprio ritiro. In contumacia Doctor J, Barkley diventa l’indiscusso uomo franchigia.

Nonostante i 28.3 punti e la solita efficacia sotto i tabelloni, i 76ers producono la prima stagione negativa dal 1975, terminando con un mediocre record di 36-46. Il problema per gli executive della franchigia è riuscire a comporre il supporting cast più adeguato da affiancare alla propria stella, per iniziare una nuova scalata verso il Titolo. Vengono quindi aggiunti giocatori come Hersey Hawkins, guardia che sarà in futuro protagonista anche a Seattle; Mike Gminski, centro dalla grande esperienza; Armen Gilliam e Rick Mahorn, l’ex Pistons che forma con l’ex Tiger il duo soprannominato “thump and bump”.

Il risultato è che in un paio di stagioni i Sixers tornano a essere competitivi, conquistando il titolo dell’Atlantic Division nella stagione 1989-90. Barkley è ormai uno dei migliori giocatori della Lega, viene inserito nel primo quintetto All-NBA per la terza volta consecutiva e finisce secondo nella classifica per MVP della Lega dietro al solo Magic Johnson.

La squadra della città dell’amore fraterno soffre ancora al primo turno dei Playoffs 1990, necessitando di tutte e cinque le gare per avere la meglio sui Cavs. Al secondo turno si accende la sfida con l’altro astro nascente, che con i suoi Bulls sta anch’egli tentando la scalata al trono NBA: Michael Jordan. Chicago è ormai quasi all’apice di un processo di maturazione che la porterà alla conquista del Three-peat e si sbarazza di Phila per 4-1.

I mancati miglioramenti in termini di risultati iniziano a pesare per il n. 34. Il suo gioco superbo si mescola sempre alla sua parlantina fuori controllo, oltre a comportamenti non sempre ortodossi. Nel marzo del 1991 avviene un fatto che segna fortemente la propria figura agli occhi dell’opinione pubblica. Durante una partita in trasferta contro i New Jersey Nets, Barkley viene pesantemente insultato, con epiteti razzisti, da un tifoso seduto dietro a un canestro. La risposta del giocatore è quella di sputare in direzione dello spettatore, mancandolo e centrando in pieno una bambina di otto anni. L’ala dei 76ers viene sospeso per una partita e multato di 10.000 Dollari. Il nativo di Leeds si dimostra terribilmente dispiaciuto per l’accaduto, scusandosi infinite volte con la piccola e con la famiglia, oltre a regalarle vari biglietti per le partite (QUI abbiamo dedicato una particolare storia alla vicenda).

Nonostante questo la considerazione dell’uomo Barkley, più che del giocatore, è profondamente compromessa. In campo però Sir Charles continua a dare spettacolo, chiudendo la Regular Season 1990-91 con doppia doppia di media, oltre che con la quinta stagione consecutiva con una percentuale da 2 punti oltre il 60%. La post season regala tuttavia l’ennesima delusione e sono ancora i Bulls, lanciati verso il primo anello, a mandare in frantumi i sogni di gloria dei Sixers alle semifinali della Eastern Conference (4-1).

Prima dell’inizio della nuova stagione arriva un terremoto che sconvolge l’intera Lega e non solo. Magic Johnson dichiara al mondo la propria sieropositività e la conseguente necessità di abbandonare il basket giocato. Un evento che colpisce molto Barkley, che decide di indossare il n. 32 in onore di Magic.

La Regular Season 1991-92 si rivela però un grosso passo indietro per le mire imperialistiche di Philadelphia. La squadra produce un record negativo (35-47) e i Playoffs restano un miraggio, nonostante le solite prestazioni da All-NBA del proprio leader. Per Sir Charles è tempo di considerazioni: è evidente che il ciclo dei 76ers sia finito e il giocatore non è pronto per iniziarne un altro da capo. Raggiunti i 29 anni Chuck vuole solo vincere.

Inoltre i problemi con la dirigenza bianco-rosso-blu hanno raggiunto un punto di non ritorno, dopo le critiche lanciate a executives e compagni in un suo libro. A sorpresa si fanno avanti i Los Angeles Lakers, che vogliono risorgere dalla fine dell’epoca “Show time” e offrono James Worthy e altri giocatori (probabilmente Elden Campbell). Sembra fatta e lo stesso Charles viene informato dal proprio agente sulla nuova destinazione.

Incredibilmente tre ore dopo i 76ers fanno marcia indietro, accordandosi invece per una trade con i Phoenix Suns. Barkley finisce in Arizona in cambio di Jeff Hornacek, Andrew Lang e Tim Perry. Prima di tuffarsi nella nuova avventura, l’ormai ex Phila viene convocato per far parte di una delle più grandi squadre della storia.

Per la prima volta i giocatori professionisti sono ammessi ai giochi olimpici e gli Stati Uniti devono vendicare l’umiliante sconfitta di Seul 1988. La selezione USA che prende parte alle Olimpiadi di Barcelona 1992 prende il nome di Dream Team, vista la caratura delle stelle schierate e Barkley non può che essere una di queste. Se da un punto di vista agonistico il torneo si rivela una passeggiata verso l’oro per team USA, Sir Charles in campo non manca di far vedere le proprie capacità, ma anche il suo carattere.

Oltre alla famosa intervista pre-sfida con l’Angola, dove dichiara “Non so nulla sull’Angola, ma l’Angola è in un mare di guai”, in campo si rende colpevole di una violenta gomitata a un giocatore africano, che lo rendono bersaglio del pubblico per l’intero torneo. Terminata l’avventura catalana, nemmeno il tempo di rifiatare che il neo campione olimpico si tuffa nella nuova avventura a Phoenix.

I Suns, nonostante una buona prestazione nella stagione precedente, sono di fatto all’anno 0 perché mettono in campo una serie di novità tecniche e non. Apre le porte la nuova casa della franchigia, quell’American West Arena che ancora oggi (col nome di Talking Stick Resort Arena) ospita le partite casalinghe. Per l’occasione vengono rinnovate le divise di gioco e il logo, in chiave più moderna. Da un punto di vista tecnico, Paul Westphal, già assistente, succede a Cotton Fitzsimmons come head coach.

Naturalmente Sir Charles è la novità più succosa. Va a rimpolpare un roster già valido, con Kevin Johnson in cabina di regia, sul perimetro operano Tony Dumas e Dan Majerle e sotto canestro i kg di Mark West. Completa il pacchetto anche un’ottima panchina, con l’ex Celtics Danny Ainge, Cedric Ceballos, Tom Chambers e il rookie oversize Oliver Miller.

La squadra dell’Arizona in effetti è una potenza a Ovest, dove chiude la stagione con un fantastico record di 62-20, oltre che come primo attacco per punti segnati (113.4). Barkley gioca una stagione superlativa condita con l’ennesima doppia doppia di media e l’usurpazione di MJ dal trono NBA: il titolo di MVP della stagione è finalmente suo.

Nei Playoffs i Suns rischiano una colossale Caporetto al primo turno contro i Lakers, vincendo per 3-2 dopo essere stati sotto per 0-2. Gestiti gli Spurs al secondo turno (4-2), serve Gara 7 per aver ragione dei Supersonics nella finale della Western Conference. Le Finals 1993 vedono la resa dei conti tra i migliori giocatori della Lega: Charles Barkley e i Phoenix Suns contro Michael Jordan e i suoi Chicago Bulls. Il n. 34 sente che è finalmente arrivato il proprio momento: parlando con la figlia le garantisce la vittoria dato che si ritiene il migliore giocatore del pianeta.

La squadra dell’Illinois porta a casa le prime due gare giocate in Arizona, con Gara 2 che vede i due leader pareggiare il conto con 42 punti ciascuno. Si vola al Chicago Stadium e servono tre supplementari agli ospiti per rimettersi in gioco nella serie. Tuttavia Jordan gioca le Finals più incisive della carriera a livello offensivo e in Gara 4 dipinge la propria Cappella Sistina. Segna 55 punti con 8 rimbalzi. A Niente serve la tripla doppia di Sir Charles, i Bulls si portano sul 3-1. Sembra tutto pronto per la festa bianco-rossa, ma Phoenix espugna ancora il parquet nemico, riportando il carrozzone NBA all’American West Arena. Gara 6 è ricca di tensione e agonismo, con le squadre che lottano punto a punto fino alla fine. A 14.4 secondi dalla fine i Suns sono avanti di 2. Poi arriva John Paxson.

Sono gli unici punti segnati nel quarto periodo da un Bulls che non sia MJ. Il titolo è per Chicago e per Barkley e i suoi la delusione è immensa. La squadra comunque è valida ed è pronta a riprovarci l’annata successiva. Il ritiro di Jordan, peraltro grande amico di Barkley, lascia il trono della Lega vacante. Tuttavia sia la stagione 1993-94 che quella 1994-95 danno lo stesso, infausto esito.

Barkley salta parte delle due Regular Season per problemi fisici. Il suo fisico pesante e provato da anni di gioco intenso inizia a scricchiolare. Riesce comunque a giocare dei grandi Playoffs, sia nel 1994 che nel 1995, dove Phoenix recita ancora il ruolo della contender Western Conference. In entrambi i casi arrivano due cocenti sconfitte, sempre contro i futuri campioni NBA, in questa occasione gli Houston Rockets, lanciati verso il back-to-back.

La Regular Season 1995-96 invece si rivela la più negativa in maglia bianco-viola, con coach Westphal silurato dopo 33 partite e il ritorno di Fitzsimmons. Il record finale di 41-41 assicura comunque la presenza in post season, ma con una precoce eliminazione al primo turno contro gli Spurs (1-3).

A 33 anni compiuti Barkley ha fretta di vincere e a Phoenix il ciclo dell’attuale gruppo è ormai giunto a conclusione. Non potendo attendere una nuova ricostruzione, Sir Charles chiedere di essere ceduto. Viene spedito agli Houston Rockets, in cambio di un pacchetto composto da Robert Horry, Sam Cassell, Chucky Brown e Mark Bryant. Prima di iniziare la nuova avventura in Texas si toglie la soddisfazione di un secondo oro olimpico, venendo inserito nella squadra statunitense vincitrice ai Giochi di Atlanta 1996.

A Houston Chuck va a formare un terzetto di All-Star insieme a Hakeem Olajuwon e Clyde Drexler. Con The Dream titolare delle maggiori responsabilità offensive, nonché padrone del post basso, l’ex Sixers e Suns (con un insolito n. 4) si concentra molto sui rimbalzi (13.5 a sera) segnando comunque 19.2 punti. Il suo corpo però non lo lascia tranquillo e gli infortuni fioccano, concedendogli il campo per sole 53 partite.

Nonostante una chimica di squadra tutta da trovare, i Rockets chiudono secondi nella Western Conference (57-25) e nei Playoffs eliminano prima i TWolves e i vice campioni Seattle Sonics. La finale a Ovest vede gli uomini di Rudy T affrontare i Jazz di Stockton e Malone. Gara 6, con gli uomini di Utah in vantaggio per 3-2, si gioca al Summit. Il punteggio è 100 pari a pochi secondi dalla fine, rimessa per Utah e palla a Stockton…

L’uomo di Spokane segna proprio in faccia a Barkley. Charles vede ancora sfumare i proprio sogni di gloria. Le due successive stagioni in maglia Rockets non sono certe delle più felici, sia a livello individuale che di squadra. Houston fatica a raggiungere i Playoffs sia nel 1997/98 che nel 1998/99, stagione accorciata per il lockout. Nemmeno il ritiro di Drexler e l’arrivo di Scottie Pippen riesce a cambiare le cose.

Charles vede la propria presenza ancora limitata dagli infortuni, saltando numerose partite e con una produzione in campo ben lontana dai bei tempi che furono. Nella post season del 1999 sembra uscito dalla piscina di Cocoon, segnando 23.5 punti e 13.8 rimbalzi che però non evitano l’eliminazione dei texani al primo turno contro i Lakers. È purtroppo il canto del cigno.

A parte iniziare la Regular Season 1999/2000 con una rissa da saloon contro Shaquille O’Neal e relativa espulsione, il n. 4 vive purtroppo quello che di fatto chiude la propria carriera. Il giorno 8/12/1999, in un match proprio nella “sua” Philadelphia si rompe il tendine del quadricipite. Non accetta che sia un infortunio a stabilire quando appendere le scarpe al chiodo e torna per un’ultima apparizione, dopo quattro mesi, giusto per uscire dal campo con le proprio gambe. La sua avventura sul parquet si conclude qui, senza essere riuscito a portare a casa il maledetto Titolo.

Oggi è rimasto nel panorama NBA, diventando un analist della TNT, con numerose performance goliardiche annesse. Un giocatore incredibile, una forza della natura che rimarrà nella storia del gioco, sia per quanto fatto in campo ma anche per il personaggio che è stato fuori, nel bene e nel male. Un personaggio unico, Sir Charles.

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