In poche occasioni la storia del Gioco si è intrecciata profondamente con quella dell’Umanità. La Finale Olimpica del 10 settembre 1972 è certamente uno di questi casi.

Aprendo un qualunque manuale di storia contemporanea al capitolo relativo alla Guerra Fredda, vi troveremmo scritto che negli anni Settanta le due potenze si trovavano in uno stato di coesistenza pacifica.

I venti di guerra tra Stati Uniti e Unione Sovietica si siano parzialmente placati poco dopo la spaventosa crisi cubana. Nonostante ciò, le due potenze stavano vivendo una forte serie di contraddizioni interne, che portarono addirittura parte delle loro popolazioni a mettere in discussione il modello di governo scelto.

È in tale contesto che venne giocata una delle più contestate – e probabilmente più belle – partite di pallacanestro di ogni tempo: la finale olimpica del 1972 tra Stati Uniti e Unione Sovietica.

Il Primo Quarto: il quadriennio 1968-1972

Che per il mondo occidentale il 1968 sia stato un anno centrale nella formazione della società come la intendiamo oggi non è un segreto. Le proteste di quell’anno rivoluzionario avevano colpito anche il mondo dello sport, tanto che le Olimpiadi di Città del Messico si erano chiuse con l’iconico pugno al cielo di Tommie Smith e John Carlos. Un gesto potente, che riportava al centro l’irrisolta questione razziale.

Nonostante le spinte innovatrici, le elezioni americane di novembre furono vinte dal repubblicano e conservatore Richard Nixon, esponente di quell’establishment che le piazze universitarie contestavano.

L’ex-governatore della California ereditava una situazione decisamente complicata, soprattutto per quando riguarda la politica estera.

Gli Stati Uniti erano infatti sempre più compromessi nel conflitto in Vietnam. Una guerra osteggiata da una consistente parte di opinione pubblica e che stava falcidiando una generazione intera.

Sebbene da più parti – anche nella NBA – si chiedesse una veloce risoluzione del conflitto, Nixon rimase irremovibile, tanto che in molti oggi gli attribuiscono senza alcun dubbio un’affermazione in realtà non verificata, per quanto simbolica delle scelte dell’Amministrazione.

“Non sarò il primo Presidente americano a perdere una guerra”.

All’interno, invece, il Governo era chiamato a risolvere le tensioni che avevano portato ai due omicidi politici del 1968: in pochi mesi, infatti, erano stati uccisi Martin Luther King e Robert Kennedy.

Se la situazione americana si presentava come convulsa, quella sovietica non si poteva certamente definire calma.

Anche Leonid Breznev, infatti, faticava a contenere le proteste sessantottine nei paesi alleati.

A preoccupare era in particolare la Cecoslovacchia, che aveva iniziato in quegli anni un processo di liberalizzazione ideologica ed economica sotto il governo Dubcek.

In seguito al fallimento di alcuni negoziati volti a riportare il paese sotto controllo, Mosca decise per l’intervento militare. Le immagini del 20 agosto 1968 – con i carri armati che entrano a Praga stroncando la resistenza non violenta dei giovani e degli intellettuali – scioccarono il mondo intero, provocando vibranti reazioni di sdegno anche da parte del mondo comunista.

Appariva chiaro, perciò, come le due potenze sentissero la necessità di far scivolare via dalla mente dell’opinione pubblica le loro efferate scelte politiche. Gli USA c’erano parzialmente riusciti con la spedizione sulla Luna del 1969, mentre l’Unione Sovietica ancora attendeva il proprio momento di riscatto.

Il Secondo Quarto: La Preparazione

Entrambi i governi guardavano alle Olimpiadi di Monaco ’72 come alla svolta cercata.

L’Amministrazione Americana riponeva soprattutto nella pallacanestro le proprie speranze. La selezione a stelle e strisce, infatti, aveva vinto tutte le 55 partite disputate in contesto olimpico, dominando senza particolari difficoltà i tornei a Cinque Cerchi dalla loro creazione, a Berlino ‘36.

L’ennesima vittoria dei collegiali spediti in Germania avrebbe portato una sensazione di dominio sportivo nel Paese, facendo dimenticare le difficoltà del Vietnam e le prime inchieste contro l’establishment repubblicano, che stava per essere coinvolto nel caso Watergate.

Tuttavia, già dalla formazione della squadra si ebbero le prime difficoltà. A guidare il gruppo fu chiamato ancora una volta Hank Iba, sessantottenne dal 1934 alla guida dell’Università di Oklahoma State e già vincitore di due ori olimpici.

La pallacanestro del coach di Easton era difensivista, conservativa e oltremodo datata, tanto che molti giocatori di spicco – temendo una brutta figura o un infortunio poco prima di diventare professionisti – si rifiutarono di prendere parte alla spedizione.

Tra questi, un nome si stagliava su tutti: Bill Walton.

Il centro di UCLA era in quel momento la stella più luminosa della NCAA, avendo da poco vinto il primo titolo della sua carriera universitaria sotto la guida del leggendario coach John Wooden.

La sua presenza in Germania – al di là del valore tecnico – avrebbe avuto un eco propagandistico importantissimo: The Red, infatti, era un hippie, pacifista convinto e ostile alla guerra in Vietnam. Renderlo il volto della squadra avrebbe probabilmente portato quell’unità nazionale a cui il Governo si era spesso appellato.

Il numero 32, appariva però deciso a non partire. Causa principale di questo rifiuto – nonostante le speculazioni che vedono la sua come una protesta politica – era sicuramente il suo pessimo rapporto con coach Iba e tutto lo staff.

Walton aveva infatti ricevuto un trattamento increscioso durante i Mondiali del 1970, tanto da arrivare in seguito a dichiarare su quell’esperienza:

“Per la prima volta nella mia vita mi sono sentito vittima di un pessimo coaching, del tradimento dei miei compagni e di minacce e insulti da giocatori che non riuscivano a fornire una prestazione decente”.

A spingere ancora di più il centro californiano verso il rifiuto, poi, c’erano i suoi cronici problemi alle ginocchia.

I dottori, in un incontro a cui presenziò anche coach Wooden, sconsigliarono vivamente a Bill di partecipare, temendo che la mancanza di riposo tra una stagione e l’altra potesse risultare in nuovi infortuni.

“Il medico gli disse di non giocare assolutamente durante l’offseason. Parliamo di un giocatore che prima di ogni allenamento immergeva le ginocchia per mezz’ora, e dopo ogni allenamento faceva invece mezz’ora di ghiaccio.”

John Wooden

La Federazione, però, non voleva perdere il proprio leader annunciato e cercò quindi di trovare una mediazione: Walton avrebbe giocato unicamente il torneo, non prendendo parte alle partite amichevoli e alle selezioni. Una proposta che trovò il netto rifiuto di Iba, integralista nel proprio processo di scelta dei giocatori.

A partire per Monaco, quindi, fu la squadra più giovane mai schierata in una grande manifestazione, con 8 giocatori di appena 20 anni. Un gruppo nuovo, che aveva a disposizione solamente 12 partite amichevoli per conoscersi.

La situazione nel Gigante Rosso era invece ben diversa.

I Russi, come sempre, mandarono a Monaco la loro miglior squadra, nonostante le regole olimpiche vietassero all’epoca la presenza di professionisti.

Secondo la rigida impostazione comunista, infatti, i giocatori erano tecnicamente operai, impiegati e postini. Poco importava, al formale Comitato Olimpico Internazionale, che in realtà i 12 prescelti giocassero in alcune delle migliori squadre in Europa.

A differenza del gruppo americano, quindi, i sovietici erano una squadra solida, unita e che aveva giocato decine – se non centinaia – di partite con la medesima impostazione tattica.

Per guidarli in panchina fu scelto Vladimir Kondrashin. Il nativo di San Pietroburgo (allora Leningrado) era un allenatore giovane che bene aveva interpretato la rivoluzione vissuta dalla pallacanestro nei 15 anni precedenti: basta ritmi bassi e statici giochi in post basso, bisogna correre velocemente da una parte all’altra del campo e iniziare a far tirare le guardie.

Ad aiutarlo in questo progetto erano due omonimi: il centro Aleksander e la guardia Sergej Belov, che si sarebbero rivelati centrali nel raggiungimento del tanto agognato risultato.

Il Terzo Quarto: il Torneo e la Vigilia

Guardandolo con la consapevolezza del presente, tutto il Torneo Olimpico dei Giochi di Monaco 1972 sembra essere in realtà una lunghissima tappa di avvicinamento alla sfida più attesa.

Entrambe le squadre riportarono otto comode vittorie, facendo sembrare le altre 14 nazionali giunte in Baviera nient’altro che il Coro teatrale di un’opera retta unicamente dai protagonisti.

Nella notte tra il 4 ed il 5 settembre – l’unica di riposo completo per le squadre di pallacanestro che sarebbero state impegnate nelle semifinali – accadde però l’impensabile: un commando di terroristi palestinesi del Settembre Nero penetrò nel Villaggio uccidendo alcuni membri della delegazione israeliana.

Un atto che scioccò il mondo, ma soprattutto inasprì ancora di più le tensioni tra i due Giganti: Israele, come noto, era da sempre un alleato-chiave degli Stati Uniti nel complesso scenario mediorientale, mentre alcune frange del mondo palestinese stavano già da tempo avvicinandosi al blocco sovietico.

Non è un caso, infatti, che alcune fonti riportino che durante la trattativa per liberare gli atleti – inizialmente presi in ostaggio – gli assaltatori avessero chiesto la liberazione di Ulrike Meinhof e Andreas Baader, terroristi tedeschi di ispirazione leninista.

Le Olimpiadi, dietro ad un inspiegabile decisione del Presidente del CIO Avery Bundage, decideranno di “riprendere con lo stesso spirito con cui si era iniziato” dopo sole settantadue ore di sospensione.

USA e URSS sarebbero scese quindi regolarmente in campo per le rispettive semifinali, staccando entrambe il pass per l’atto conclusivo.

La Finale si era però decisamente discostata da quel clima di coesistenza pacifica teoricamente presente. Lo dirà anche Doug Collins, leader tecnico della nazionale a stelle e strisce e come sempre uno dei migliori a riassumere in parole semplici concetti difficili:

“Stiamo parlando delle due nazioni più potenti al mondo che stanno lottando per la Supremazia. Il Basket, però, era roba nostra. Eravamo i re e volevamo far sentire forte e chiaro il messaggio”.

Hank Iba, tuttavia, fu come sempre rigido nel proprio modo di approcciare la gara.

Decise di non preparare lunghi discorsi ideologici per caricare i suoi giocatori, limitandosi unicamente, poche ore prima della finale, a scrivere sulla lavagna un numero: 50.

È la sua chiave per vincere la partita: gli americani dovranno costringere i sovietici sotto i cinquanta punti per portare a casa la medaglia d’oro. Una previsione che si rivelerà decisamente azzeccata.

Il Quarto Quarto: la Gara

La partita della Rudi-Sedlmayer-Halle iniziò nel modo più complicato per gli americani: la rapidità dei sovietici mise in crisi il lento basket voluto da coch Iba, innervosendo molti giocatori.

“Avevi in squadra dei ragazzi che adoravano correre con la palla su e giù per il campo ed eri costretto dall’allenatore a fare sei-sette passaggi prima di tirare. Era questa la cosa che ci innervosiva di più”. (Ed Ratleff)

Dopo un fulmineo 7-0 iniziale, la nazionale sovietica chiuse il primo tempo in vantaggio per 26-21. Un distacco che rimaneva all’interno di quanto preventivato da Iba in termini di punteggio.

Il secondo tempo, tuttavia, si aprì ancora nel segno di uno scatenato Sergej Belov che – pungolando la difesa americana con la sua fisicità – riuscì a portare il vantaggio russo per la prima volta in doppia cifra a metà terzo quarto.

Il coaching staff degli States sembrava non avere risposte, mostrando di soffrire le mosse di coach Kondrashin.

La differenza di capacità tra i due allenatori colpì soprattutto il capitano della Germania Ovest, presente quella sera: si tratta di Holger Geschwinder, il futuro mentore di Dirk Nowitzki.

“Per la prima volta nella storia gli Stati Uniti si sono trovati di fronte ad un allenatore più capace di loro, il russo era una volpe. È stato lui la chiave”.

Holger Geschwinder

È proprio per cercare di parare le stoccate della “volpe” che i giocatori decisero di mettere in scena uno dei rarissimi ammutinamenti della storia di Team USA.

Guidati dal solito Collins e da Kevin Joyce, infatti, gli statunitensi portarono a termine una furiosa rimonta basata soprattutto sulla continua ricerca del contropiede e sul totale rifiuto delle indicazioni di Iba, attonito in panchina.

Sul 49-48 per l’URSS, la prima occasione di sorpasso: il centro Alexander Belov, nel tentativo di salvare il risultato, cerca un improbabile passaggio da una parte all’altra del campo. Collins, intuita la traiettoria e rubato il pallone, si lancia in contropiede per portare in vantaggio i suoi.

A fermarlo sarà solamente un durissimo fallo della difesa russa, che costringe Doug lungamente a terra.

Johnny Bach, assistente di Iba e futuro assistente proprio di Collins ai Bulls dice al suo head coach:

“Dobbiamo trovare qualcuno che tiri questi liberi”.

Al che Iba imperturbabile, con il suo classico accento del Sud:

“Se Doug è in grado di camminare li tira lui”.

La guardia di Illinois State – nonostante i numeri da stella assoluta – non era assolutamente un cecchino alla Linea della Carità.

Il suo 80% preoccupava la panchina USA, soprattutto in una situazione in cui – con 10 secondi ancora sul cronometro – le possibilità di recuperare in caso di errore erano ridotte al lumicino.

Collins, tuttavia, non tradisce, portando la partita sul 50-49.

Da qui la storia, però, vede una serie imprevedibile di colpi di scena. I russi rimettono in gioco velocemente la palla, con la panchina che chiamava a gran voce un timeout. L’arbitro brasiliano lo concede, con il cronometro che segna un solo secondo da giocare.

A metà della pausa, però, un uomo intima agli ufficiali di gara di correggere il tempo e concedere ai sovietici tre secondi per la rimessa. Secondo il signore in questione, infatti, il cronometro sarebbe stato stoppato sensibilmente dopo il fischio arbitrale.

L’intruso è Renato William Jones, il britannico segretario generale della FIBA.

Sul suo intervento – provatamente illegittimo – le dietrologie si sprecano: per molti, infatti, egli avrebbe cercato in ogni modo di favorire una sconfitta degli Stati Uniti per poter sviluppare indisturbato il proprio progetto di internazionalizzazione del Gioco.

Al di là delle motivazioni alla base del suo inusuale gesto, il segretario ottiene quanto richiesto, facendo riprendere la partita e con tre secondi sul cronometro.

La rimessa sovietica, anche questa volta, si conclude con un nulla di fatto, consegnando agli americani la vittoria.

I primi festeggiamenti a stelle e strisce, però, sono interrotti dopo qualche minuto da Johnny Bach, il quale – richiamato al tavolo degli arbitri – porta un’incredibile notizia: il cronometro non era stato ben resettato, bisogna ripetere ancora. L’ala Mike Bantom è l’uomo che meglio ha racchiuso le sensazioni del momento:

“Non ci potevamo credere. Sembrava li facessero ripetere finché non fossero riusciti a vincere”.

Nei momenti precedenti la ripresa del gioco va in scena un secondo melodramma sulla panchina americana: il centro Tom Burleson, specialista difensivo della squadra, sta pregando Iba di farlo entrare per difendere su Edeshko, l’uomo chiamato ad effettuare la rimessa.

Il coach di Oklahoma State, tuttavia, è irremovibile: aveva escluso Burleson dalla gara per aver fatto entrare di nascosto la propria futura moglie al Villaggio e non avrebbe di certo cambiato idea per una ripetizione.

Il passaggio di Edeshko, troppo alto per i difensori scelti da Iba, arriverà perciò a destinazione, permettendo ad Alexander Belov di segnare il canestro che vale l’oro.

La Sirena Finale: il boicottaggio e l’incontro

Dopo un breve capannello a bordo campo gli americani decisero all’unanimità di boicottare la cerimonia di premiazione e non ricevere la medaglia d’argento.

Alcuni dei giocatori di quella spedizione fecero addirittura scrivere nel proprio testamento che nessun erede avrebbe mai dovuto accettare dal CIO la medaglia, in modo da non rendersi complici di una truffa. Ancora oggi non si conosce la sorte dei premi: per alcuni si trovano in un museo di Ginevra, mentre per altri sono rimasti in uno scantinato bavarese.

Oltre al gesto simbolico, tuttavia, la delegazione a stelle e strisce cercò di muoversi in maniera effettiva. Venne formulata una protesta presso la FIBA, respinta dai giudici per tre voti a due. I tre giudici che votarono “no” erano di paesi socialisti, i due che votarono “sì” di paesi NATO. La Guerra Fredda era arrivata anche nella Camera di Consiglio. E i sovietici avevano vinto ancora.

Sergej Belov e Doug Collins, le due stelle della partita, si incontrarono nuovamente solo in un’altra occasione, nel 1994. Doug, in Canada per seguire da inviato i Mondiali, chiese di intervistare Sergej, al tempo coach della nazionale russa. L’incontro fu un meraviglioso manifesto della commistione tra ostilità e rispetto che provano ancora oggi tutti i partecipanti a quell’immortale partita.

“Ha tenuto un interprete per tutto l’incontro. Mi parlava in russo e faceva tradurre. Quando è finita l’intervista mi sono alzato e lui mi ha detto in un inglese perfetto ‘Fai a tuo figlio Chris un grande in bocca al lupo per la sua stagione a Duke’. Quel maledetto me l’aveva fatta di nuovo”.